I premi Nobel che straparlano di Israele Dario Fo, José Saramago, Harold Pinter e gli altri
Testata: Il Foglio Data: 03 maggio 2006 Pagina: 1 Autore: Edoardo Camurri Titolo: «Sei terzomondista, antiamericano e antiisraeliano? Il Nobel ti aspetta»
Dal FOGLIO del 3 maggio 2006:
Esami per diventare un mostro. “Lei è un mostro? Esprima un giudizio ironico sugli italiani”. “Popolo di santi, poeti, navigatori, nipoti e cognati”. “Bene. Definisca la situazione politica in Italia”. “Non ci sono più gli operai, ma neppure gli impiegati, a volte rimpiango la Dc”. “Ne dia un giudizio più amaro”. “Berlusconi c’è, fino in fondo e dovunque”. “Cosa pensa di Israele?”. “Israele deve ancora imparare parecchio se non è capace di comprendere le ragioni che possono portare un essere umano a trasformarsi in una bomba”. “Grazie. E il suo giudizio sul mondo?”. “La locomotiva del capitalismo selvaggio sta accelerando la sua velocità, punta con determinazione assoluta verso la guerra e la distruzione del pianeta”. “Basta, adesso qualche esercizio. Vada un po’ a destra”. “Penso che la sofferenza della povera gente sia di grande aiuto per il mondo”. “Ora vada a sinistra”. “Quello che è avvenuto ad Auschwitz è paragonabile a quanto è successo a Ramallah”. “Adesso si tenga al centro”. “Occorre mostrare sensibilità nei confronti della preoccupazione e della rabbia dei musulmani”. “Bene, siamo alla fine. Ora mi dica la sua qualifica”. “Premio Nobel. Sono un Premio Nobel”. Il primo che critica la dinamite lo stendiamo con un uppercut. Nel senso che Alfred Nobel ha moltissime colpe ma non quella di avere scoperto la dinamite, invenzione senza la quale: 1) non si sarebbero potute scassinare le casseforti; 2) il Far West avrebbe perso gran parte del suo fascino spelacchiato. Ma questo è un altro discorso. Torniamo invece ai mostri. Ai premi Nobel per la pace e per la letteratura; quelli che, nell’esame di sopra, hanno prestato la voce al nostro candidato e cioè, nell’ordine, a Dario Fo, Madre Teresa di Calcutta, José Saramago e Jimmy Carter (nota: la prima risposta è di Ennio Flaiano ed Ennio Flaiano non è mai stato, grazie agli dèi, un premio Nobel; la sua celebre battuta è stata inoculata in questo contesto soltanto per offrire un necessario omaggio all’intelligenza in un elenco fin troppo opprimente di stupidaggini). Ma insomma, di mostri di questo tipo ce ne sono ancora molti, ognuno con la propria particolarità filantropica di Nobel incoronato. Si potrebbe iniziare con Giosuè Carducci (1906) colpevole di qualche verso sul Piemonte (“Su le dentate scintillanti vette / salta il camoscio, tuona la valanga / da’ ghiacci immani rotolando per le / selve scroscianti”) e di un delizioso inno a Satana (“Sacri a te salgano / Gl’incensi e i voti! / Hai vinto il Geova / De i sacerdoti”). Bei tempi, tempi in cui persino una Jane Austen nuragica come Grazia Deledda (1926) poteva vincere il suo Nobel raccontando piena di moralismo la sua Sardegna desolata. Una noia terrificante. Ma chissenefrega. La Deledda non ha mai fatto troppi danni in giro perché tanto, in Italia, all’epoca, si leggeva altro: per esempio Giovanni Papini e Gabriele D’Annunzio. I giudici di Stoccolma La caratteristica principale del Nobel è stata immortalata da Dario Fo quando dichiarò: “I giudici del Nobel: sono più avanti del settanta per cento dei letterati. Non per niente, dopo di me hanno premiato Saramago e Grass: tutti democratici di sinistra”. Un’affermazione capitale, di un’ingenuità travolgente che dice tutto quello che c’è da dire. Per esempio spiega perché Fo non rifiutò il Nobel come invece fece Jean Paul Sartre: “Il rifiuto di Sartre aveva un valore, un significato – afferma Fo – il mio sarebbe stato una ripetizione astratta, e soprattutto anacronistica. Perché si sono spostati loro, i giudici del Nobel”. Il ragionamento va ripetuto: visto che i giudici (notare la fissa) sono diventati di sinistra, allora il Nobel è diventato serio e importante e l’hanno dato a me. Già. I giudici. E allora che si dia un’occhiata più approfondita (ma non completa) su questo paesaggio di mostri con Nobel. (segue dalla prima pagina) Intanto una nota antropologica: i Nobel hanno acquisito l’abitudine di fare tutto insieme. I motivi possono essere vari ma si propende per una spiegazione di tipo biologico connaturata alla rigidità nordica della cerimonia. Il rito del Nobel, scriveva Giorgio Manganelli, “Non ha mai perso qualcosa di drammatico, di assurdo, di dissennato, di patetico, di risibile. Chiaramente, è un rito di espiazione (…). L’idea di premiare, insieme, la fisica, la chimica, la poesia, la biologia e la pace rimanda al ballo Excelsior; ma rimanda anche all’illusione borghese che la letteratura sia intimamente dignitosa e rispettabile, una forma di biologia, e soprattutto che essa lavora per un futuro migliore dell’umanità”. Si tratta quindi di considerare la letteratura sotto il punto di vista dell’efficacia del contagio moralistico e filantropico, come opera di autori affiatati e benefattori che lavorano in gruppo. Ecco una parte del branco: José Saramago e Nadine Gordimer. Questi premi Nobel (insieme a Rigoberta Menchú e Adolfo Pérez Esquivel) hanno firmato nel marzo del 2005 un appello in difesa del regime cubano perché, a loro dire, “Non esiste un singolo caso di scomparsa, tortura o esecuzione extra-giudiziaria” e la rivoluzione ha consentito, notate l’argomentazione (un tipo di ragionamento che è identico alla giustificazione del colonialismo fascista in Africa), il “raggiungimento di livelli di salute, educazione e cultura riconosciuti internazionalmente”. Ma ad appelli simili si sono, in altre occasioni, aggiunti anche Dario Fo, Günter Grass e Harold Pinter come complemento d’azione per il solito e malauguratissimo “futuro migliore dell’umanità”. Il futuro. Quello che conta è il futuro. Ma lo sanno persino i bambini che il futuro si può costruire soltanto a partire da una comprensione del passato e del presente. La letteratura, si dice, serve anche a questo, a interpretare e a dare indicazioni. Per questo motivo occorre prestare particolare attenzione al seguente episodio. 11 settembre 2001, il non ancora premio Nobel Harold Pinter è invitato dall’Università di Firenze per ritirare una laurea ad honorem. Poche ore prima dell’attentato a New York, senza sapere ovviamente nulla, Pinter pronuncia la sua lectio magistralis e dichiara: “Arroganti, sprezzanti e indifferenti alle leggi internazionali, manipolano e al contempo rinnegano le Nazioni Unite, sono il potere più pericoloso che il mondo abbia mai conosciuto, un autentico stato farabutto, uno stato farabutto con un potere militare ed economico di dimensioni colossali (…). Come abbiamo potuto constatare, profonda intolleranza e disgusto nei confronti delle manifestazioni del potere Usa e del capitalismo globale stanno crescendo ovunque nel mondo (…). Anche gli interventi della polizia a Genova ci hanno dimostrato che le rappresaglie e le repressioni sono e rimangono selvagge, violente e spietate. Ma noi siamo liberi. E penso che questo brutale e spietato ingranaggio mondiale debba essere smascherato e combattuto”. Poche ore prima dell’attentato alle Torri gemelle, Harold Pinter aveva già scritto almeno una parte del successivo comunicato stampa di Osama bin Laden. Una tempistica miracolosa, un senso menagramo delle opportunità davvero sorprendente. Ma è la letteratura ed è quello che capita alla letteratura quando si mette in testa di voler lavorare “per un futuro migliore dell’umanità”. Quattro anni dopo e Pinter diventa infatti un premio Nobel. Esami per diventare un mostro. Esprima un giudizio sintetico sull’11 settembre”. “E’ stato troppo il chiasso orchestrato per tremila bianchi uccisi”. “Può essere più preciso?”. “I grandi speculatori sguazzano in un’economia che uccide ogni anno decine di milioni di persone con la miseria, che volete che siano ventimila morti a New York?”. “Scusi, già che ci siamo, un commento anche sugli attentati di Londra”. “La politica di Bush e Blair non poteva che partorire questo”. “Mi dica il suo nome”. “Sono Günter Grass; sono Dario Fo; sono Harold Pinter”. Sì perché le risposte ai quesiti, in effetti, sono rispettivamente sintetizzate in una chimera con davanti Grass, in mezzo Fo e dietro Pinter. E’ la bellezza del Nobel che unisce e abbraccia anche ciò che è diverso. Per esempio l’ex presidente Usa e ufologo Jimmy Carter (il 6 gennaio del 1969 avvistò un Ufo mentre si recava a un incontro al Lions Club di Atlanta e dichiarò: “Era la cosa più aberrante che avessi mai visto. Era grande; era molto brillante; cambiava colore; aveva circa la grandezza della Luna”); si diceva, Jimmy Carter fu incoronato Nobel per la pace nel 2002 anche per aver criticato, aveva sottolineato il presidente del comitato norvegese Gunnar Berge, la politica dall’Amministrazione Bush contro l’Iraq. Una scelta del cavolo, ma che era una scelta, una scelta che però lascia aperte alcune questioni: come metterla con il fatto che, per amore della pace, Jimmy Carter affermò che il tiranno rumeno Nicolae Ceausescu era un “Combattente della libertà” e che, rispetto alla fatwa scagliata contro Salman Rushdie, “Occorreva mostrare sensibilità nei confronti della preoccupazione e della rabbia dei musulmani”? Pace, pace e pace. Ma c’è anche di peggio. Lo sapevate per esempio che Harold Pinter faceva parte dell’ICDSM, e cioè del Comitato internazionale per la difesa di Milosevic? Lo sapevate? Come sapevate, bellissimo contrappasso, che lo stesso Harold Pinter aveva elogiato la politica di Margaret Thatcher quando decise di tagliare i fondi pubblici al teatro inglese per metterlo sul mercato? Un po’ di qua e un po’ di là. Bellissimo. Come è anche bello il passo del gambero di José Saramago, Nobel per la letteratura nel 1998, quando, nel 2003, confessò che, riguardo al rispetto dei diritti umani, “Cuba ha perso la mia fiducia, ha recato danno alle mie speranze, ha deluso le mie illusioni” anche se poi, due anni dopo, come si è visto, non perse tempo a firmare un appello in cui si sosteneva invece il contrario. I giudici. I giudici del Nobel hanno le loro preferenze. Sei antiisraeliano? Occhei. Sei antiamericano? Occhei. Sei terzomondista? Occhei. Rigoberta Menchú, Nobel per la pace nel 1992, autrice del libro “Mi chiamo Rigoberta Menchú”, è stata premiata “in riconoscimento dei suoi sforzi per la giustizia sociale e la riconciliazione etno-culturale basata sul rispetto per i diritti delle popolazioni indigene”. Bene. Il problema, ancora controverso, è che sembra però che Rigoberta Menchú si sia inventata quasi tutto della sua storia. Un antropologo americano, David Stoll, si recò in Guatemala e, indagando su Rigoberta, disse di avere scoperto, per esempio, che la Menchú non era un’analfabeta (aveva studiato dalle suore cattoliche) e che il padre era proprietario di duemilasettecento ettari di terreno e non un povero indigeno che faceva la resistenza. Il New York Times confermò le ricerche di Stoll e la conclusione fu che Rigoberta Menchú architettò tutto quanto (o che la storia di Rigoberta fu architettata) per confermare la tesi secondo cui la lotta di classe teorizzata da Marx può e deve avere un’origine spontanea. Forse sono sospetti teoreticamente eccessivi, ma intanto chissà dov’è la verità? Certamente i giudici, quelli che Fo elogiava, i giudici del Nobel, hanno le idee chiarissime. Anche quando hanno assegnato, nel 2005, il Nobel per la pace a Mohammed El- Baradei, responsabile dell’agenzia Onu contro la proliferazione delle armi nucleari. Anche in questo caso, come per Jimmy Carter, la motivazione autentica è semplice: Mohammed ElBaradei si opponeva alla politica americana in Iraq e con i regimi iraniani e iracheni manteneva una posizione politicamente conciliante. Ci sarebbe da scrivere anche qualcosa sul premio assegnato ad Arafat? Lasciamo perdere. Il senso del Nobel, questo funebre atto di fiducia nei confronti dell’umanità, sta tutto nella sua capacità di riconoscere i mostri. Lo scriveva Manganelli: “Lo spettro dell’inventore della dinamite, questa zia povera degli esplosivi recenti, protende un ectoplasma di mano per accarezzare i Migliori: è una carezza che dà i brividi”.
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