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Il Manifesto Rassegna Stampa
30.04.2006 Un programma per distruggere Israele
esposto molto chiaramente da Calchi Novati sul giornale comunista

Testata: Il Manifesto
Data: 30 aprile 2006
Pagina: 2
Autore: Giampaolo Calchi Novati
Titolo: «Israele dietro lo schermo delle bandiere bruciate»

Giampaolo Calchi Novati, una vita dedicata al terzomondismo più schierato e alla critica più insensata contro Israele. Leggerlo sul MANIFESTO, dove scrive abitualmente, non concede novità ma riconferme. L'articolo di oggi,30.4.2006, si preoccupa di riportare a Israele la responsabilità persino del rogo delle bandiere d'Israele a Milano il 25 aprile scorso.Espone poi in maniera chiara e particolareggiata le ragioni per cuio Israele divrebbe confluire,annullandosi, in uno stato arabo multietnico. Un mare di ditttature che al giornale comunista stanno bene, mentre gli dà un fastidio boia la democrazia israeliana. Per facilitarne la lettura, di per sè faticosa,sottolineiamo le righe più significative. Se ne faranno un baffo,ma un po' di e-mail al MANIFESTO per chiedere conto di certe affermazioni non sarebbero male.

Ecco l'articolo:

Quante bandiere con la Stella di Davide dovranno essere bruciate per far dimenticare definitivamente e a tutti, proprio a tutti, da destra a sinistra passando per l'ambasciatore di Israele, i contenuti reali della questione arabo-israeliana o israelo-palestinese? Il compito della politica alta è di commentare le bravate di alcune decine di vandali autonomi o organizzati o di cercare i rimedi per sanare il vulnus recato alla legge e all'etica internazionale e, nel concreto, ai diritti dei palestinesi? Se si brucia una bandiera a Milano fra corso Buenos Aires e piazza San Babila il dramma della Palestina non ne è nemmeno scalfito. E dunque il gesto, oltre che riprovevole, riprovato e riprovabile, è politicamente irrilevante. L'occupazione non finisce e la politica, senza farsi distrarre o fuorviare dalle bandiere, dovrebbe continuare ad averla presente come la priorità assoluta. Ci sono innumerevoli risoluzioni dell’Onu a ricordarcelo: risoluzioni, tutte, come è ampiamente noto, ignorate da Israele. Ma nessuno sembra inquieto per la presenza incombente dei carri armati con la Stella di Davide e la perpetuazione di quel poco o tanto di «governo» esercitato da Israele in Cisgiordania, non più su Gaza dall 'estate scorsa, anche se le forze armate israeliane entrano ed escono dalla Striscia per compiere i loro raids punitivi o intimidatori. Che senso ha celebrare la Resistenza il 25 aprile e negare il diritto di resistenza al popolo palestinese, che è sotto occupazione da quasi quarant'anni, due generazioni, una decina d'anni in più dell'occupazione italiana della Libia, e che vegeta in una specie di limbo giuridico da cui non è uscito né con quel pallido simulacro di stato che è l'Autorità nazionale né con lo svolgimento di elezioni. Tutti hanno preso atto che il voto per il parlamento è stato free and fair,ma purtroppo i risultati non sono piaciute a Israele, a Solana e alla Rice. E tanto basta. Senza volerlo, in perfetta buona fede, è come ammettere che certi diritti valgono solo per alcuni popoli, per alcune fattispecie storiche. Certo, la lotta dei palestinesi - a parte l'uso improprio della violenza, che ha i civili come vittime principali, non diversamente tuttavia da quanto avviene per le ritorsioni di Israele e per le «nuove guerre» censite da Mary Kaldor - è sempre sul limite di riproporre una negazione che travolgerebbe lo stato di Israele. Il «rifiuto» arabo all'epoca della nascita di Israele è un dato di fatto. Al rifiuto si sono variamente associati tutti gli arabi, anche gli stati costituiti, chi per convinzione e chi per opportunismo, alimentando con quella opposizione il complesso dell'Olocausto e fornendo nuova linfa alla strategia d'attacco condotta da Israele all’ombra dello scudo garantito dagliUsa. Con qualche buon argomento si è sostenuto che, per come si è svolta, la seconda Intifada potrebbe aver rivelato che nella percezione dei palestinesi la legittimità di Israele è ancora un tabù. Israele però hamesso in atto a sua volta un suo «piccolo rifiuto» contro la Palestina, che a torto non gli ha meritato e non gli merita una stessa sanzione sul piano internazionale. Questa asimmetria ha falsato dall'inizio la gestione della questione araboisraeliana addossando agli arabi e in particolare ai palestinesi l'onere di provare le proprie ragioni come se Israele avesse il diritto di «difendersi» con tutti i mezzi. In un sistema che riconosce solo gli stati, la Palestina ha sempre patito la mancanza di uno stato e si è continuamente trovata a fare i conti con questa sua inferiorità, tanto più quando le è venuto meno o ha scartato l'aiuto in surroga degli stati arabi. La «minaccia» a Israele non viene solo dal mancato riconoscimento, ieri del mondo arabo nel suo insieme e oggi, si suppone, ma le circostanze sono comunque più complesse, da parte di Hamas. La minaccia principale per la sopravvivenza di Israele è rappresentata pur sempre dall'occupazione in sé. Intanto perché diffonde rancore, risentimenti e guerra. Ma soprattutto perché se il disegno da cui è sorto Israele ha un valore intrinseco e universale, deve accordarsi con fattori come la demografia e la democrazia, che l'occupazione di terre palestinesi comprendenti un popolo estraneo ai miti del sionismo e privato dei diritti principali non è in grado di padroneggiare almeglio. Perché non ammettere allora che la storia ha unito in modo indissolubile i due popoli e spingersi oltre tutti i progetti nazionali o pseudo-nazionali fino a rimettere in discussione anche lo schema apparentemente razionale dei «due stati per due popoli »? In qualsiasi mobilitazione politica su base comunitaria o etnico-religiosa al fine di costituire nazioni «omogenee», anche se le intenzioni sono ottime (il che è quanto meno da dimostrare), si celano prevenzioni che attizzano gli integralismi e fomentano la violenza. Non per niente, dopo tanti anni l'accordo di Oslo, che in quell'ottica aveva tutti i crismi per essere un atto rivoluzionario, non ha permesso di compiere nessun passo avanti. In effetti, muovendo da un'ostilità preconcetta e dall'inclusione in sfere di sovranità, ambiti culturali e mercati differenti, i due popoli, di guerra in guerra, si sono sempre più integrati, sul territorio (da cui sono scomparsi i confini, sostituiti da «linee verdi» labili e spezzettate anche quando si è costruito un muro) e nell'economia, nell'habitat e nei comportamenti. Lo stesso ritiro unilaterale iniziato da Sharon e che in teoria dovrebbe essere continuato da Olmert con la benedizione del Labour ricalca la divisione senza sovranità esistita prima e dopo il 1967 dando per scontata la prosecuzione di un intreccio perverso. A dispetto della retorica profusa per accreditarsi come unico stato democratico emoderno del Medio Oriente, Israele non ha creduto abbastanza nella forza propulsiva della sua esperienza collaborando senza riserve mentali con i governi, i movimenti e le idee del mondo arabo per allargare, tutti insieme, l'area dello sviluppo e della libertà in un Medio Oriente assuefatto o rassegnato alla sua presenza. Se Israele è più attrezzato a fronteggiare le scadenze della globalizzazione, essendo parte del «centro» malgrado l'isolamento e l'inefficienza di cui soffre, è proprio con la Palestina e il mondo arabo, e non contro di loro, che le sue performances possono uscirne esaltate. E' sconsolante la povertà d'analisi, e la sostanziale ipocrisia, che si riscontra in Italia, negli editorialoni dei giornali leaders e nel dibattito politico, anche fra i partiti di centro-sinistra. L'opinione pubblica è zittita e sta perdendo l'uso della parola. Invece di tante inutili prediche, si dovrebbe porre al centro la possibilità che israeliani e palestinesi (e arabi) hanno di rispondere alle sfide del post-colonialismo e del post-bipolarismo preoccupandosi della realtà socio-economica dei loro paesi rispettivi, delle emergenze e potenzialità della regione mediorientale, della qualità degli stati (o dello stato) più che della quantità. Israeliani e palestinesi non hanno una «madrepatria» presso cui riparare e dovranno restare comunque sul posto, più uniti che separati, al di là o al di qua di una frontiera pacificata o blindata.

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