In un'intervista al CORRIERE della SERA del 28 aprile 2006 Oliviero Diliberto chiede l'immediato ritiro delle truppe italiane dall'Iraq (l'obiettivo politico degli autori della strage di Nassirya) e le definisce "truppe di occupazione".
Posizioni insultanti e irresponsabili che non sono una novità.
Segnaliamo però un passaggio particolarmente significativo dell'intervista dal quale emerge qualcosa di inedito, e inquietante.
Chiede la giornalista Daria Gorodisky:
A proposito di Hamas, proporrete il dialogo?
«Ha vinto elezioni democratiche. Non ne sono contento, tifo da sempre per Fatah, abbiamo legami antichi con i palestinesi laici; ma…» Perché non sostenete le ragioni di un altro partito che nel '92 vinse elezioni democratiche, il Fis algerino? Un colpo di Stato militare annullò quel risultato.
«Non ci piacciono, sgozzavano le persone»
Come noto Hamas fa a pezzi gli israeliani negli atentati suicidi , circostanza che non appare meno grave degli sgozzamenti degli algerini da parte degli islamisti locali. Sempre, che per Diliberto gli ebrei israeliani siano persone tanto quanto gli algerini...
Ecco il testo completo:
ROMA — «La mia posizione è nota: io non avrei mai inviato truppe in Iraq. Ma, visto che un governo scellerato le ha mandate, è evidente che ora vanno ritirate subito. Prima dell'estate devono essere tutti a casa». Sono questi i tempi che Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti italiani, vuole dettare al futuro governo. Tempi, anzi, che per quanto lo riguarda sono già scritti nel programma dell'Unione «sottoscritto da tutti i leader della coalizione». «In Iraq — aggiunge — c'è una guerra di occupazione, che non ha nulla a che fare con le armi di distruzione di massa o con la democrazia, e c'è una guerra civile in corso. Il governo italiano ha spedito dei soldati perché ha assecondato servilmente l'azione unilaterale di Bush. Ora che cosa ci restiamo a fare? Forse dobbiamo stare ad aspettare altri funerali di Stato?».
Diliberto, il programma dell'Unione in realtà non parla proprio di ritiro immediato. È scritto «immediatamente proporremo al Parlamento italiano il rientro dei nostri soldati nei tempi tecnicamente necessari…».
«Sì, il tempo necessario a smontare i campi e tornare».
… e, prosegue il testo, «in consultazione con le autorità irachene».
«Questo vuol dire che lo comunichiamo alle autorità irachene: cioè, se anche ci dicono "restate", noi andiamo via lo stesso, è chiaro».
Va bene un rientro entro l'anno?
«No, prima. La fine dell'anno è la scadenza di cui hanno parlato anche gli Stati Uniti... No, noi non arriveremo neppure a discutere il rifinanziamento della missione, che dura fino al 30 giugno. Al primo Consiglio dei ministri dovremo finanziare il rientro. Questo è nel programma della coalizione: e, se si inizia a modificarlo, allora significa che si va verso l'ingovernabilità».
In questi anni dal vostro partito si è sentito spesso parlare di «resistenza irachena»: dopo i fatti di ieri di Nassiriya, conferma questa definizione?
«Io non ho mai parlato di resistenza irachena. Ma distinguo tra chi attacca civili inermi e chi attacca i militari; è una distinzione che il mondo riconosce da quattrocento anni. La lotta contro un esercito di occupazione è cosa diversa dall'uccisione di civili innocenti: a monte c'è il problema di una guerra».
Ieri diversi esponenti politici, trasversalmente, hanno chiesto di non speculare con polemiche politiche sulla morte dei militari italiani.
«Niente polemiche infatti, io rivolgo le condoglianze alle famiglie dei soldati. Però, per il mestiere che faccio, non mi posso esimere dal fare dichiarazioni politiche».
Dalla sua coalizione molti intervengono per dire che i fatti di ieri non devono condizionare l'agenda del futuro governo.
«Infatti, nessun condizionamento. Il programma è stato scritto molto prima di ieri».
Cossiga dice che bisogna ritirarsi rapidamente, anche perché ora c'è «una maggioranza con fortissime componenti pacifiste, antiamericane e filoresistenza palestinese — Hamas compresa —, irachena ed afghana…».
«Con tutto il rispetto, ricordo a Cossiga che la nostra amicizia con il popolo palestinese data diversi decenni; e che fu lui, nella veste di presidente del Senato, a ricevere Yasser Arafat ben prima che diventasse premio Nobel per la pace. La mia non è una posizione estremistica. Ritengo che si debba recuperare per l'Italia un ruolo di centralità e di equivicinanza con Israele e palestinesi».
A proposito di Hamas, proporrete il dialogo?
«Ha vinto elezioni democratiche. Non ne sono contento, tifo da sempre per Fatah, abbiamo legami antichi con i palestinesi laici; ma…» Perché non sostenete le ragioni di un altro partito che nel '92 vinse elezioni democratiche, il Fis algerino? Un colpo di Stato militare annullò quel risultato.
«Non ci piacciono, sgozzavano le persone».
Hamas è entrata nella lista delle organizzazioni terroristiche. Che cosa farete invece sul rifinanziamento delle altre missioni?
«Vedremo caso per caso, ne discuteremo nella coalizione. Potremmo anche modificare la natura di alcune missioni».
Prendiamo ad esempio l'Afghanistan, allora.
«Quella è una missione di pace
sui generis, è servita a ratificare la prima delle attuali guerre americane. Io resto contrario, ma non sono così pazzo da mettere a rischio la coalizione su questo. Certo, non mi si venga a dire che in Afghanistan oggi c'è la democrazia: ci sono ancora i signori della guerra, le fazioni tribali, tutto come prima; solo che sono funzionali a un equilibrio utile agli Stati Uniti».
Il Papa ieri ha detto che «i militari italiani hanno perso la vita insieme con un commilitone rumeno nel generoso adempimento di una missione di pace». Lei invece sostiene che si tratti di missione di guerra.
«Il Papa parla su un piano diverso da quello della politica. Io sono un semplice segretario di partito
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