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Il Foglio Rassegna Stampa
21.04.2006 Un testimone (autentico) della guerra in Iraq
e una riflessione di Paul Berman sull'attualità di Tocqueville e l'"esportazione della democrazia"

Testata: Il Foglio
Data: 21 aprile 2006
Pagina: 1
Autore: Christian Rocca
Titolo: «Dove sono i B-52? - Il sessantotto e l'undici settembre»

Plauso a Christian Rocca per l'intervista al fotografo di "Time" e comunista "anomalo" Franco Pagetti sulla guerra in Iraq, pubblicata dal FOGLIO di venerdì 21 aprile 2006.
Ecco il testo:

 Milano. Franco Pagetti ha 56 anni e il fisico asciutto di un ragazzino. Da tre anni vive gran parte del suo tempo in Iraq, al fronte. E’ il fotografo del settimanale americano Time, l’autore di formidabili scoop come, per esempio, quello con cui un mese fa ha mostrato sui giornali di tutto il mondo il volto della bambina sopravvissuta alla strage americana di Haditha. Pagetti probabilmente è l’italiano che più di ogni altro conosce la vera situazione irachena. Non è un tipo da starsene in albergo a bere tè alla menta, protetto dal filo spinato della Green Zone. Va spesso in prima linea, a volte dalla parte americana, altre tra i baathisti o i jihadisti. Pagetti ha partecipato alla battaglia di Fallujah del novembre 2004, era al seguito delle forze speciali a Tal Afar, è stato lui a passare a Giuliana Sgrena i contatti per intervistare i profughi di Fallujah ma, al contrario della giornalista del Manifesto, c’è andato scortato e ha capito quando era giunto il momento di allontanarsi. Su ciascuna di queste vicende, Pagetti ne racconta a raffica e si inalbera particolarmente quando sente i colleghi italiani criticare i giornalisti e i fotografi “embedded” nell’esercito americano. “Censure? Non mi hanno mai controllato una foto né mai messo una mano davanti all’obiettivo, magari avessi avuto la stessa libertà quando ero in Kosovo con gli italiani…”. Pagetti è stato un fotografo di moda, ma cinque o sei anni fa ha abbandonato modelle e soldi facili per fotografare la guerra in Africa, in Asia, in medio oriente, in Arabia Saudita prima per il New Yorker e per Newsweek, ora in esclusiva per Time.
Pagetti è comunista, lo rivendica con orgoglio e lo ripete spesso agli ufficiali e soldati americani che per sfotterlo lo chiamano “fucking communist” (ma sono gli stessi che quando un cecchino gli ha sparato contro sono corsi a proteggerlo con i loro corpi). Pagetti era contrarissimo alla guerra in Iraq, anche se favorevole a destituire Saddam. Tre anni dopo ha una diversa opinione sul conflitto, sull’Iraq e sugli americani. La sua controstoria è di quelle che non ti aspetteresti di sentire da un “fottuto comunista”. “Se mi chiedi la soluzione, ti dico che ci vogliono i B-52”, dice al Foglio con una naturalezza che neanche Dick Cheney. “Le guerre non si combattono con i guanti, con i fiorellini, costringendo i marines a fare i vigili urbani”. La guerra o si fa o non si fa, aggiunge Pagetti.
La tesi del fotografo italiano di Time è questa: gli americani sono troppo democratici, hanno una fede sconfinata nella democrazia e una eccessiva fiducia nell’interlocutore che si trovano di fronte. Fa parte della loro natura. La democrazia è alla base della loro stessa esistenza. Credono che la gente possa riscattarsi, cambiare idea, redimersi se solo gli venisse concessa la possibilità e la libertà di farlo. Ma, secondo Franco Pagetti, con gli iracheni non può funzionare, almeno nel breve periodo. Le elezioni, aggiunge, hanno dimostrato che sunniti e sciiti non hanno la coscienza politica di considerare il voto come uno strumento per cambiare, migliorare o indirizzare le sorti del loro paese. Sono andati a votare perché era una novità, perché era un giorno di festa. Solo chi ha una fede così assoluta nella democrazia poteva pensare che un anno dopo la caduta del regime si potesse riuscire a instaurare una democrazia normale.
“Il fallimento in Iraq è il fallimento di un certo establishment di Washington – dice Pagetti – ma allo stesso tempo è un grandioso monumento alla democrazia”. Il paradosso è spiegato con una frase di moda in Iraq: i politici hanno come tutti due occhi, ma con il primo guardano la realtà e con il secondo la Cnn. Da quando è cominciata la guerra, l’occhio di Washington guarda più la tv che la situazione sul campo, sicché ai generali non viene consentito di fare ciò che devono fare per vincere. “Andare via non si può, quindi la strada per vincere è una soltanto – argomenta Pagetti – piano Marshall e legge marziale”. Gli americani hanno fatto il contrario. Con l’occhio rivolto verso l’opinione pubblica hanno scelto di non forzare la mano, e ora si trovano nei guai. “Falluja? Falluja andrebbe rasa al suolo. Come Ramadi, come le altre roccaforti. Mi fanno ridere quelli che criticano i marines per aver attaccato Falluja: lì c’era il terrore, le esecuzioni per strada... Contro questi che fai? Mandi un ambasciatore a parlare di pace?”.

Segnaliamo anche la conclusione dell'intervista di Rocca a Paul Berman, pubblicata dal FOGLIO il 20 aprile. Nella l'intellettuale liberal americano spiega perché ha deciso di insegnare alla New York University il pernsiero di Alexis De Tocqueville: 

Qui alla New York University lei insegna Alexis de Tocqueville. Perché Tocqueville conta nell’America di oggi? Tocqueville conta nell’America d’oggi. Tocqueville dovrebbe essere letto in tutte le parti del mondo. Tocqueville è stato una specie di genio. Tocqueville ha scritto il suo libro sull’America, “Democrazia in America”, negli anni 30 del XIX secolo. Ha visitato gli Stati Uniti nel 1830 e ha scritto il suo resoconto: è un racconto illuminante che gli americani leggeranno sempre, perché è il miglior libro mai scritto sul carattere nazionale americano. Se sei un americano e leggi una o due pagine di Tocqueville non puoi non dare una manata sul tavolo e dire: ‘Esatto, esatto’. E’ un gran libro. Quello che colpisce è che Tocqueville ha scritto il libro con la quasi certezza che ci sarebbe stata una rivoluzione democratica mondiale, che lui pensava sarebbe cominciata negli Stati Uniti. Riteneva che ci sarebbe stata una rivoluzione mondiale. Ha scritto il libro perché voleva dare consigli ai concittadini francesi su come procedere per portare avanti una rivoluzione democratica. Non credeva che tutto negli Stati Uniti fosse perfetto. Sapeva che non era così: era a conoscenza della schiavitù negli Stati Uniti, sapeva del razzismo negli Stati Uniti… Uno dei motivi per cui l’americano d’oggi deve battere il pugno sul tavolo quando legge Tocqueville è per come costui ha saputo descrivere in maniera fedele anche gli aspetti peggiori della cultura americana. Tocqueville ha scritto questo libro per dare lezioni su come operare la transizione da un sistema autoritario a uno democratico, su come imparare dagli Stati Uniti, seguendo l’esempio di ciò che gli Stati Uniti hanno fatto bene ed evitando le cose che gli Stati Uniti hanno fatto male. Sapeva benissimo che la Francia era impegnata nella transizione iniziata nel 1789, che nel 1830 era ancora in atto. I francesi sono andati incontro a molti successi ma anche a numerosi fallimenti disastrosi, sfociati in guerre, nella guerra civile… Innumerevoli persone sono state uccise, nuove tirannie sono nate e ci sono stati infiniti problemi. Ma tutti erano impegnati in questa battaglia e Tocqueville ha scritto qualcosa che noi oggi possiamo e dobbiamo riconoscere come assolutamente moderno. Ha scritto un testo che la gente del medio oriente, in Iraq o in Afghanistan dovrebbe poter riconoscere come proprio… e anche in Europa, dove la battaglia per la democrazia è lungi dall’essere finita. Nei Balcani non è affatto finita. La questione è ancora del tutto aperta: come si esce da un sistema autoritario del passato e come si crea una società democratica? Qual è il modo giusto di farlo? Oggi sappiamo che si può fare. Anche Tocqueville lo sapeva e per questo scopo fece il suo viaggio negli Stati Uniti nel 1830. Noi sappiamo che si può fare, ma sappiamo anche che si può fallire strada facendo. Che si possono prendere decisioni sbagliate e finire nel dispotismo o che si possono commettere tutti gli errori del mondo. Oggi, però, possiamo girare il mondo e individuare gli errori che si stanno facendo. E leggere Tocqueville è testimoniare il primo vero lucido esame globale sul come affrontare la questione: come passare alla democrazia, come farlo non soltanto in un paese ma in tutti i paesi. In ogni nazione, a seconda delle sue esigenze e delle sue caratteristiche. Per tutto questo Tocqueville è un pensatore attuale”.

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