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L'Espresso Rassegna Stampa
20.04.2006 La strategia di Al Qaeda
nell'analisi di Ely Karmon

Testata: L'Espresso
Data: 20 aprile 2006
Pagina: 0
Autore: Ely Karmon
Titolo: «Così colpirà Bin Laden»

Dall'ESPRESSO datato 21 aprile 2006:

L'obiettivo strategico predominante, in tutti i discorsi e le dichiarazioni pubbliche di Bin Laden, è uno solo: porre fine alla presenza americana - civile e militare - in Arabia Saudita e nell'intera regione del Golfo. Secondo Anthony H. Cordesman e Nawaf Obaid (due studiosi di terrorismo), l'Arabia Saudita ha cominciato a sperimentare seri problemi di sicurezza interna solo dopo che Al Qaeda ha preso di mira la monarchia verso la metà degli anni Novanta nel tentativo di distruggerla. Ma questi attacchi sono rimasti sporadici fino al maggio del 2003, quando le cellule di Bin Laden hanno scatenato una campagna terroristica diretta contemporaneamente contro gli stranieri - in special modo gli americani - e il regime di Ryad.

Stando a quest'analisi, una struttura che si autodefiniva Organizzazione di Al Qaeda nella Penisola Arabica creò un complesso di rifugi, depositi di munizioni, piccole unità operative e relative reti di sostegno. Ma in Afghanistan sorsero dissensi fra i suoi dirigenti circa la tempistica e i potenziali obiettivi degli attacchi contro l'Arabia Saudita e il capo locale di allora, Yousef al-Uyeri, sostenne che i membri dell'organizzazione non erano pronti a entrare in azione. A questo gruppo va ricondotta la paternità degli attentati del 2003, dai quali emerse che Al Qaeda era divenuta ormai una delle principali minacce per la penisola arabica. E da allora, l'Arabia Saudita è rimasta uno dei principali obiettivi dei Bin Laden.

Questo però non spiega perché Al Qaeda cercò di colpire il detestato regime saudita soltanto dopo la sua disfatta in Afghanistan. Sembra plausibile ipotizzare che vi fosse una sorta di tacito accordo fra Bin Laden e il governo di Ryad per risparmiare il territorio e gli interessi dell'Arabia Saudita. Il che spiegherebbe anche come mai quest'ultima fosse uno dei tre soli paesi (insieme al Pakistan e agli Emirati Arabi Uniti) che riconoscevano il regime dei talebani in Afghanistan, sostenendolo finanziariamente e mantenendo rapporti diplomatici con esso fino all'ultimo.

Secondo Sa'ad al-Faqih, considerato da molti uno dei maggiori esperti di Al Qaeda, i combattenti della jihad hanno abbandonato la loro tattica precedente che consisteva nell'attaccare gli occidentali e le forze di sicurezza nella penisola e stanno ora concentrando la loro attenzione sulla famiglia reale. Essi "ritengono che l'opinione prevalente in Arabia Saudita - e probabilmente nel più ampio mondo islamico - sia che la famiglia reale è infedele e meriti un duro trattamento, non temono più nemmeno l'avvento di un regime non religioso nell'eventualità di un crollo improvviso della dinastia dei Saud". Al-Fatiqh è convinto che, verso la fine degli anni '90, Bin Laden pensava che se quest'ultima fosse stata spodestata, il paese sarebbe caduto nelle mani di forze laiche. Al Qaeda giunse così alla conclusione che, come dimostrava la lezione dell'Iraq, il collasso del regime saudita avrebbe favorito l'intervento straniero o creato il caos. Un'invasione americana sarebbe stata pertanto l'occasione per un massiccio reclutamento che avrebbe condotto a una vittoria sicura.

è interessante osservare che, secondo al-Fatiqh, il governo saudita aveva preso "parecchie decisioni sbagliate" nel recente passato e "sul piano operativo esiste oggi un legame molto tenue fra Bin Laden e gli attuali capi di Al Qaeda in Arabia Saudita". A giudizio di Reuven Paz, un esperto israeliano di organizzazioni estremiste islamiche, gli attacchi contro l'Arabia Saudita hanno segnato una svolta importante nella strategia dei combattenti del jihad e un ritorno dal lontano Afghanistan al territorio arabo. Un passaggio ancor più evidente dopo i loro primi attentati nel Sinai, il 7 ottobre 2004, a distanza di sette anni da una sospensione di fatto di ogni attività terroristica entro i confini dell'Egitto.

In un articolo del saudita Abu Abbas al-Aedhi, l'attacco nel Sinai viene presentato come il primo di una serie diretta contro l'Egitto nel quadro di una strategia dei mujahiddin in Arabia Saudita, Iraq ed Egitto. La guerra santa in questi ultimi due paesi viene vista come "il mezzo per rafforzare la jihad in Arabia". I passi successivi saranno la sua estensione nello Yemen e nel Kuwait e l'unificazione dei gruppi combattenti nordafricani, in Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Mauritania e Sudan.

Ma lo scopo principale della strategia di Al Qaeda è quello di porre al centro la jihad in Arabia Saudita, coordinando l'attività tra i due fronti dei gruppi fondamentalisti in Iraq e in Egitto. Questo disegno venne concepito, fra gli altri, dal defunto Yousef al-Uyeri, ucciso nel giugno del 2003 dalla polizia saudita. In base a quest'analisi, al-Uyeri segna il passaggio della più giovane generazione dei teorici della jihad mondiale sotto l'influenza saudita e dovrebbe essere considerato come il principale architetto di questo movimento in Iraq.

Un'altra analisi della stessa scuola, basata sul libro di 1.601 pagine sulla jihad, scritto da Abu Mus'ab al-Suri, si riferisce agli attentati del Sinai dell'ottobre 2004 e a quelli successivi del Cairo nell'aprile 2005 e di Sharm al-Shaykh nel luglio dello stesso anno. A detta di al-Suri, il bersaglio principale dei fondamentalisti in questa fase erano i turisti. Da questo punto di vista, gli attentati del Sinai sono stati l'esempio più significativo di questa strategia volta a colpire il governo egiziano e, contemporaneamente, a seminare il panico fra gli occidentali. Essi appaiono inoltre come un tentativo di aprire nuovi fronti nel mondo arabo, oltre a quello dell'Iraq.

Secondo Paz, molto probabilmente ci ritroveremo ad affrontare due strategie distinte ed anche due movimenti in competizione fra loro sul terreno della guerra santa mondiale, con Zarqawi in Iraq e al-Suri in altre parti del mondo arabo. Non va inoltre sottovalutato il coinvolgimento dei sauditi nella rivolta fondamentalista in corso in Iraq, dal momento in cui essi rappresentano il 61 per cento dei caduti e il 70 per cento dei kamikaze arabi. Finora, a quanto pare, essi costituiscono non solo il gruppo che ha pagato il maggior tributo all'insurrezione in Iraq, ma anche quello che ha contribuito ad alimentarla. Una spiegazione interessante di questo fenomeno potrebbe essere l'ostilità wahabita verso gli sciiti, percepiti come infedeli, e la relativa convinzione che sia necessario sostenere la minoranza sunnita.

A quanto pare, la strategia proposta dai nuovi ideologi della guerra santa mondiale trova applicazione sul terreno. Nel gennaio del 2005, otto soldati del Kuwait, cinque dei quali con le stellette, vennero arrestati dopo che il governo saudita svelò un piano d'attacco contro le truppe americane elaborato da una cellula di Al Qaeda operante in questo paese. Fra i sospetti, rastrellati in seguito a questa soffiata, c'era un imam ritenuto la mente dell'organizzazione. Il 19 marzo 2005, un'autobomba guidata da un kamikaze egiziano a Doha, la capitale del Qatar, esplose in un teatro gremito di occidentali e danneggò una scuola di lingua inglese, provocando un morto e una cinquantina di feriti. Fu il primo attentato compiuto in questo paese - sede del comando centrale americano che ha coordinato l'invasione dell'Iraq nel 2003 - avvenuto due giorni dopo l'appello, lanciato dal presunto capo di Al Qaeda in Arabia Suadita, ai militanti del Qatar e di altri paesi del Golfo, a scatenare una guerra santa contro i "crociati" nella regione.

Le Brigate dei Martiri di Abdulaziz al-Moqrin, un gruppo prima sconosciuto, balzato agli onori delle cronache dopo l'uccisione di uno dei leader di Al Qaeda in Arabia Saudita durante uno scontro a fuoco con la polizia, pubblicarono una dichiarazione su un sito Web in cui minacciavano di compiere altri attentati in Kuwait. Chiari legami con i sauditi sono emersi inoltre durante la caccia ai terroristi nel Bahrain. Almeno sei cittadini di questo piccolo Stato furono arrestati nel 2004 perché sospettati di pianificare attentati dinamitardi contro edifici governativi e obiettivi stranieri e di collaborare con gruppi terroristici d'oltreconfine. Nel gennaio 2005, le autorità dell'Oman arrestarono un centinaio di estremisti islamici che intendevano lanciare un attacco contro un noto centro commerciale e un festival culturale.

L'ascesa di Zarqawi

Stando a un opuscolo a puntate pubblicato da un giornalista giordano nel luglio del 2005, la futura strategia di Abu Mus'an al Zarqawi si basa sull'estensione del conflitto con gli Stati Uniti e Israele e sul coinvolgimento di nuovi soggetti. Contemporaneamente, un ampio movimento di combattenti della jihad cercherà di modificare lo stato di cose finora prevalso nella regione e di dar vita a un califfato in sette fasi, assumendo l'Iraq come base di partenza. La Turchia, che confina con la parte settentrionale di questo paese, è considerata come il più importante Stato islamico in virtù delle sue grandi risorse economiche ed umane e della sua importante posizione strategica. Abu Mus'ab e Al Qaeda ritengono che esso sia privo di autodeterminazione e di libertà poiché "gli ebrei della Dunma" controllano l'esercito e l'economia e sono i veri detentori del potere nel paese. Pertanto, il riassurgere della Turchia al rango di nazione "non avrà luogo senza una forte reazione contro la presenza ebraica al suo interno". L'attuale strategia di Al Qaeda è quella di infiltrarsi lentamente in Turchia e rinviare grandi operazioni entro i suoi confini fino a quando non verranno conquistate importanti posizioni in Iraq.

L'Iran è il secondo paese che Al Qaeda cerca di coinvolgere nel conflitto. Teheran si aspetta che gli Stati Uniti e Israele colpiscano alcuni impianti nucleari, industriali e strategici sul suo territorio. E Abu Mus'ab ritiene che lo scontro sia inevitabile e possa riuscire a distruggere l'infrastruttura dell'Iran. Ma Teheran è pronta a reagire e ad usare le ottime carte che possiede. L'area del conflitto si estenderà, gli sciiti filoamericani in Iraq e in Afghanistan si ritroveranno in imbarazzo e potrebbero riconsiderare le loro alleanze, e tutto questo fornità ad Al Qaeda ampia occasione per sviluppare le sue attività su un'area più estesa di vitale importanza.

Ma, secondo al-Faqih, "Al Qaeda è segretamente convinta di aver commesso probabilmente un errore nominando Zarqawi suo principale rappresentante in Iraq", poiché "è un comandante troppo prepotente" e arrogante. Secondo alcune indiscrezioni, "i gruppi combattenti della jihad stanno cercando di mettersi in contatto con Bin Laden per convincerlo a sostituire Zarkawi come capo di Al Qaeda in Iraq", perché sono scontenti di lui e "lamentano la sua imprudenza e temerarietà". Basandosi sulla lettera inviata a Zarqwawi da Zawahiri, al-Faqih giunge alla conclusione che quest'ultimo rimane il principale stratega di Al Qaeda.

Conclusioni

Da questa breve esposizione, come pure dagli eventi in corso, appare chiaro che la situazione attuale in Medio Oriente è al tempo stesso complessa e mutevole e che gli sviluppi in un singolo paese o in una regione influenzano i paesi e i conflitti vicini. La guerra contro il terrorismo richiederà pertanto una lunga e difficile campagna. Il pericolo delle reti di gruppi estremisti islamici può essere scongiurato nel lungo periodo solo prevenendo la formazione di "un'area fondamentalista liberata" - secondo il concetto di Zawahiri - in Iraq, Arabia Saudita, Pakistan, Asia centrale, Indonesia o altrove nel mondo musulmano.

Il rischio non è oggi quello di un Fronte Islamico Mondiale unificato e della sua vittoria, ma piuttosto quello di un Medio Oriente politicamente e socialmente destabilizzato e di una comunità internazionale sempre più paranoide e non democratica. Sul piano strategico-militare, solo la collaborazione e il coordinamento operativo fra i governi e i servizi di sicurezza e informazione delle grandi potenze internazionali - Stati Uniti, Europa, Russia, Cina e India - può prevenire questo pericolosa situazione, mentre sul piano ideologico e politico le tendenze radicali nelle società musulmane possono esser sconfitte solo dai musulmani moderati.

traduzione di Mario Baccianini


 
Così L'ESPRESSO presenta l'autore dello studio:
 Pubblichiamo in queste pagine, in esclusiva per l'Italia, un estratto dell'approfondito studio di Ely Karmon apparso sulla 'Middle East Review of international affairs' con il titolo 'Al Qaeda e la guerra al terrorismo dopo la guerra in Iraq'. Karmon è un ricercatore dell'Istituto di politica internazionale anti-terrorismo di Herzliya (Tel Aviv) ed è considerato tra i massimi esperti mondiali della materia. Si è occupato di Al Qaeda fin dalla comparsa sulla scena

mondiale dell'organizzazione terroristica di Bin Laden.

Nello studio ripercorre la storia di Al Qaeda fin dalle origini distinguendo tre fasi. La prima, negli anni Ottanta con

le attività in Pakistan, Arabia Saudita e Stati Uniti. La seconda, tra il 1990 e il 1996, quando, dalla base in Sudan, cercò di esportare la propria 'rivoluzione islamica' in Egitto, Algeria, Arabia Saudita ed Eritrea. La terza, tra il 1996 e il 2001,

con la stretta alleanza col regime dei talebani in Afghanistan. Un capitolo importante è naturalmente dedicato all'Iraq, alla comparsa sulla scena di Al Zarqawi come responsabile dell'area, alla discussione accesa che, anche nel mondo del terrorismo, ha provocato l'uccisione di molti musulmani (in particolare sciiti) in seguito agli attentati kamikaze. Quanto all'Europa, si sottolinea l'importanza che ebbe la decisione della Nato di intervenire al fianco dei musulmani di Bosnia e Kosovo che impedì a Bin Laden una massiccia penetrazione nel Continente. Infine, ed è la parte che proponiamo ai lettori, la strategia futura del network terroristico.

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