Un articolo di Maurizio Debanne su EUROPA di giovedì 20 aprile 2006 approva la decisione francese di non tagliare i fondi all'Anp di Hamas, una pericolosa rottura del fronte della fermezza.
Ecco il testo:
L’attentato di Tel Aviv non poteva giungere in un momento peggiore per il governo Hamas. È il commento dello specialista sulle questioni palestinesi Danny Rubinstein su Haaretz. Hamas si trova infatti isolata sia sul piano interno che su quello esterno. Il premier Haniyeh è tornato a chiedere con insistenza alla galassia delle fazioni palestinesi di appoggiare il suo governo sotto un indefinito ombrello di unità nazionale nel tentativo di aggiungere un altro colore al governo palestinese tinto solo di verde.
Sul versante esterno la strage della paninoteca Rosh Hair, firmata dallo Jihad islamico, e le successive dichiarazioni dei dirigenti islamici che l’hanno giustificata stanno rendendo ancor più ardui gli sforzi del ministro degli esteri Mahmud Zahar nello smarcarsi dalla morsa dell’isolamento.
L’apertura del governo norvegese, che si è detto pronto a incontrare esponenti di Hamas, non può essere letta come un vero e proprio successo politico.
Né i 50 milioni di dollari promessi dall’Iran sono una boccata di ossigeno per le casse palestinesi perché il legame con Teheran, nell’attuale contesto geopolitico regionale, mette ancor più nell’angolo il governo palestinese targato Hamas, oltre che ridurre sul lastrico buona parte del sistema su cui poggia la società palestinese.
«Da un mese non prendo più lo stipendio. E come me tutti i dipendenti pubblici», racconta a Europa un insegnante palestinese di un liceo di Ramallah. «Se la situazione non cambierà sono sicuro che i palestinesi scenderanno in piazza e costringeranno Hamas ad indire elezioni anticipate », prevede. Omar Abdelrazeq, ministro delle finanze palestinesi, non nasconde lo stato di crisi finanziaria. L’Autorità nazionale palestinese ha debiti per un miliardo e 300mila dollari e sta esaurendo il credito presso le banche.
La colpa, sostiene il ministro, ricade sulla corruzione di Al Fatah e sulle migliaia di assunzioni fatte negli ultimi giorni del precedente governo per mettere i conti fuori controllo. Nello specifico, sempre a detta del ministro di Hamas, ammonterebbero a circa 640 i milioni di dollari che l’Anp deve alle banche e sui 660 milioni i debiti con il settore privato.
La situazione è drammatica e in fondo a nessuno conviene il collasso dell’Anp.
Èla Francia a farsi portatrice di questa politica. Parigi ha precisato, infatti, che non intende tagliare i propri aiuti umanitari alla popolazione palestinese perché «sarebbe un errore politico enorme ».
«Se non li aiutiamo noi lo faranno altri », ha osservato il ministro degli esteri Philippe Douste-Blazy. Una mano tesa è giunta soprattutto dall’Arabia Saudita pronta a versare poco più di 92,4 milioni di dollari in aiuti. L’intesa è stata raggiunta durante un incontro tra il ministro degli esteri palestinese Zahar con il collega saudita, principe Saud el Feysal.
Tale somma copre il periodo ottobre 2005-ottobre 2006 e va ad aggiungersi al altri 20 milioni di dollari di aiuti d'urgenza che Riyadh aveva già dato per aiutare l’Anp a pagare i salari dei dipendenti pubblici.
Decisamente più tesi invece i rapporti con la Giordania.
La visita di Zahar ad Amman «è stata rinviata fino a nuovo ordine in seguito alla scoperta di armi, esplosivi e razzi presso un nucleo di Hamas in Giordania», si legge in una nota diffusa dal portavoce del governo giordano Nasser Jawdeh. «Il governo considera (il ritrovamento delle armi, ndr.) una prova che il movimento Hamas sta conducendo una doppia politica con la Giordania », continua il comunicato. Oltre a specificare che tra le armi sequestrate fi- gurano «mitra, esplosivi e razzi», Judeh ha spiegato che i servizi di sicurezza giordani da tempo stanno tenendo d'occhio alcuni esponenti di Hamas dediti alla sorveglianza di «obiettivi sensibili ad Amman ».
«La posizione della Giordania è stata chiara fin dall'inizio: il governo ha rispettato la scelta del popolo palestinese ed è davvero triste constatare che nonostante questo gli apparati di sicurezza abbiano dovuto scoprire tali operazioni », ha commentato Judeh.
Hamas ha rispedito al mittente tutte le accuse ed ha espresso rammarico per la decisione del regno di annullare la visita di Zahar. «Queste accuse sono false e contraddicono totalmente il ben noto atteggiamento di Hamas di non interferenza negli affari interni degli altri paesi», ha tagliato corto il portavoce del movimento Sami Abu Zuhri.
L'editoriale di Janiki Cingoli in prima pagina ipotizza un percorso di pacificazione del Medio Oriente fondato sul piano arabo presentato in Libano nel 2002.
Se Hamas lo accettasse, argomenta Cingoli, farebbe cadere la pregiudiziale al riconoscimento di Israele.
In realtà come riconosce lo stesso Cingoli, Israele non potrebbe accettare di subordinare il riconoscimento della sua esistenza al soddisfacimento di richieste negoziali non certo di compromesso, come prevede il piano del 2002.
L'accettazione del quale da parte di Hamas comporterebbe dunque soltanto un riconoscimento di Israele condizionato. Condizionato a qualcosa che molto difficilmente accadrebbe nella realtà e, del resto, molto pericoloso per Israele soprattutto per le clausule riguardanti il diritto al ritorno dei profughi.
Cingoli ha ragione a lamentare i rischi dell'unilateralismo e lo stallo della Road map.
Ma ha torto a rifiuatare a priori l'ipotesi che davvero Israele manchi di un interlocutore e a supporre troppo facilmente che passi assolutamente non impegnativi possano rendere Hamas, con la sua storia e il suo statuto (e con il triste precedente dell'Olp di Yasser Arafat) adatta a quel ruolo.
Ecco il testo:
La condanna dell’ultimo attentato dello Jihad islamico contro inermi civili israeliani, così come del rifiuto del governo guidato da Hamas a prenderne le distanze, è certo necessaria, ma forse insufficiente.
Non si può nascondere la sensazione di un rituale già troppe volte percorso, la necessità di analizzare più a fondo una situazione che appare modi ficata nel profondo, dopo la vittoria di Hamas alle recenti elezioni legislative.
L’ottica appare ancora quella di Oslo, degli accordi di Washington, della road map, di un processo di pace destinato a procedere per tappe e per rassicurazioni progressive. Ma forse questo quadro non esiste più, e se si continua a riproporlo è perché si fatica a individuare un nuovo quadro di riferimento.
La stessa cautela della reazione di Olmert, che ha evitato una risposta su larga scala, testimonia della sua consapevolezza della complessità della attuale fase politica e diplomatica.
La piattaforma politica di Hamas appare certo fuori dal tempo, con la sua visione di una Palestina vuotata di israeliani e anche di ebrei, tutta islamica. Ma è probabile che i governanti di Hamas siano disponibili a un approccio più realistico, se non altro per avere il tempo di radicarsi e di stabilizzarsi per il loro nuovo e probabilmente inatteso ruolo di governo.
Hamas ripete pertanto che la lotta armata contro l’occupante è legittima e non può essere condannata, anche in considerazione della recente escalation degli attacchi mirati israeliani, ma invita i propri militanti a sospendere le azioni militari.
La formazione islamica, quindi, appare orientata a mantenere la tregua annunciata un anno fa, ma fatica a imporla ai gruppi armati concorrenti, che non sono solo quelli dello Jihad, spesso alleati a quelli di Al Fatah, per rubare terreno ad Hamas, vincolato dal suo ruolo di governo. Qui si pone una prima questione importante.
È possibile introdurre una distinzione tra lotta armata contro l’occupante e attacchi rivolti contro i civili? Certo è un argomento spinoso, ma è stata Tipzi Livni, ministro degli esteri israeliano, a ricordare di recente questa differenziazione in una tormentata riunione di governo, tenendo testa a duri attacchi di alcuni colleghi.
La legalità della lotta armata contro l’occupante è infatti riconosciuta dalla giurisprudenza internazionale, ed è un diritto dei popoli occupati anche se la scelta se praticarla o meno risente, è ovvio, di valutazioni politiche e strategiche che non possono prescindere dal contesto in cui i movimenti di liberazione nazionale operano. E quella scelta è ovviamente incompatibile con gli accordi di Washington del 1993.
Del tutto diversa è la pratica del terrorismo rivolto contro i civili, che non può trovare spazi di tolleranza nel mondo contemporaneo, come l’onorevole Caruso dovrebbe sapere. Certo, nel passato, una certa ambiguità al riguardo si era diffusa e il terrorismo era sembrato la naturale prosecuzione dello lotta armata come la guerra della diplomazia. Ma questi atteggiamenti sono scomparsi dopo l’11 settembre 2001.
Hamas oggi può accettare questa distinzione, e rinunciare al terrorismo, mantenendo altresì la decisione di sospendere la stessa lotta armata per un certo periodo di tempo? E la decisione di bloccare gli attacchi contro i civili può essere imposta dal governo palestinese agli altri gruppi armati? Questo è sicuramente un primo e praticabile terreno di intervento per la comunità internazionale. D’altronde l’atteggiamento prudente di Hamas, su questo terreno, è una carta da non buttar via a cuor leggero, come sa bene Israele.
La seconda questione è quella degli aiuti internazionali.
La linea di strangolare economicamente il governo Hamas, spinta dagli Stati Uniti (più che dagli israeliani che si sono accodati) e non rifiutata dall’Ue, è giusta? Non rischia di spingere la formazione islamica nelle braccia dell’Iran, da cui la divide l’impronta sunnita, contrastante con quella sciita di Teheran? Il fossato non è piccolo ma, per così dire, à la guerre comme à la guerre… D’altronde, se la condizione economica e sociale della popolazione palestinese dovesse precipitare drasticamente, e l’Anp dovesse crollare, la responsabilità delle condizioni civili nei territori ricadrebbe sulla potenza occupante, secondo la stessa giurisprudenza internazionale, e Israele sarebbe costretta a sobbarcarsi il peso dell’amministrazione civile e dei relativi stipendi.
E certamente non arde di arrivare a questo. Appare pertanto urgente individuare forme positive, attraverso la presidenza di Abu Mazen o la creazione di agenzie internazionali o altro, che consentano urgentemente di far pervenire gli aiuti internazionali necessari per evitare il crollo, evitando possibilmente gli scandali iracheni dei programmi Oil for Food.
Infine, la prospettiva diplomatica. La questione del riconoscimento di Hamas del diritto all’esistenza di Israele può probabilmente essere perseguita attraverso l’accettazione, da parte di quel governo, del Piano arabo di Beirut del 2002, che prevede il riconoscimento da parte di tutti gli stati arabi di Israele dopo il suo ritiro dai territori occupati, la creazione di uno stato palestinese, con capitale Gerusalemme Est e una soluzione equa e condivisa della questione dei rifugiati palestinesi.
Questo porrebbe il governo palestinese in condizioni di parità con gli altri stati arabi, e lo renderebbe presentabile alla comunità internazionale.
Certo, il Piano arabo non è accettabile per Israele, che chiede che il riconoscimento sia prioritario, secondo quanto convenuto a Washington nel 1993. C’è qui una questione di sostanza, e cioè quella del riconoscimento degli accordi presi dai governi palestinesi pregressi.
Ma l’accettazione di Hamas del Piano arabo farebbe cadere la pregiudiziale ideologica al riconoscimento di Israele, facendone una possibilità collegata all’esito stesso della trattativa sul Final Status. I contenuti dell’accordo definitivo di pace ritornano quindi al centro della questione: quale stato palestinese, quali confini, quali garanzie di sicurezza per Israele, Gerusalemme, i rifugiati, i coloni, l’acqua.
Su questi aspetti, sarà necessario promuovere un negoziato parallelo e informale, che consenta di individuare una piattaforma di pace condivisa e accettabile, sancita internazionalmente. Le linee guida di questo possibile accordo sono state già scritte a Camp David e Taba, e ulteriormente precisate negli Accordi di Ginevra, oggi più che mai attuali.
Da qui è necessario ripartire, consapevoli che in Medio Oriente il processo di pace a tappe è oramai esaurito e non ha più alcuna possibilità di rivivere.
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