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La Stampa Rassegna Stampa
19.04.2006 Iran e democratizzazione del Medio Oriente
analisi della strategia statunitense

Testata: La Stampa
Data: 19 aprile 2006
Pagina: 13
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Iran, Bush si tiene la carta militare - L'imam nascosto gli ha dato l'incarico - Frum: troppa fretta Mr. President»

Gli Usa tengono aperta l'opzione militare nella crisi iraniana. Dalla STAMPA di mercoledì 19 aprile la cronaca di Maurizio Molinari:

Guerra di parole sull’Iran: Ahmadinejad avverte che «saranno tagliate le mani agli aggressori», Bush risponde che «tutte le opzioni sono sul tavolo» mentre a Mosca le grandi potenze si sono consultate sull’ipotesi delle sanzioni senza raggiungere un accordo. Il confronto a distanza fra i presidenti di Iran e Stati Uniti ruota attorno ai colloqui di Mosca, dove il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha accolto gli inviati degli altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Cina) più la Germania per decidere come procedere al Palazzo di Vetro quando il 28 aprile sarà superato il termine dato a Teheran per interrompere un arricchimento dell’uranio che invece continua a pieno ritmo.
È la prima volta che i negoziati delle sei grandi potenze si svolgono a Mosca e il Cremlino ha dato inizio ai colloqui con un comunicato del portavoce Mikhail Kamynin nel quale si ribadiva l’opposizione alle sanzioni. Anche Pechino è su questa posizione mentre Usa e alleati europei puntano proprio ad approvare un regime sanzionatorio che - secondo indiscrezioni trapelate dal Palazzo di Vetro - congeli i beni iraniani e impedisca ai leader di recarsi all’estero.
Pur accomunate dal patto di Londra - siglato in febbraio - favorevole al blocco dell’arricchimento dell’uranio in Iran le sei potenze restano divise sulle sanzioni, come hanno dimostrato proprio i colloqui di Mosca terminati in serata senza l’annuncio di un accordo, ma con la dichiarazione del sottosegretario americano Nicholas Burns sul fatto che «l’ipotesi delle sanzioni è stata affrontata».
La partita diplomatica si gioca però su più tavoli: domani il presidente cinese Hu Jintao vedrà George W. Bush alla Casa Bianca, sabato un inviato di Teheran sbarca a Tokyo e già da qualche giorno l’economista iraniano Mohammad Nahavandian, impegnato come consulente nei negoziati sul nucleare, è in visita a Washington dopo aver ricevuto l’invito per una imprecisata «conferenza» della quale il Dipartimento di Stato ha detto di non sapere nulla. Non è chiaro chi e perché abbia invitato Nahvandian a Washington ma è noto che da due settimane alcuni leader repubblicani del Congresso premono sulla Casa Bianca per avviare un negoziato diretto con Teheran sulla corsa all’atomo.
La girandola diplomatica è in pieno svolgimento e dal suo esito dipende cosa deciderà l’Onu dopo il 28 aprile. Da qui la scelta di Ahmadinejad e Bush di farsi sentire. Il primo a parlare è stato il presidente iraniano, cogliendo l’occasione della parata per la festa delle Forze Armate per ammonire chiunque pensasse ad attacchi militari: «Taglieremo le mani a ogni aggressore - ha detto - l’esercito iraniano è fra i più potenti del mondo perché può contare su Allah, i nemici conoscono il coraggio e la fede dei nostri soldati, difenderemo i confini politici e l’integrità della nazione e infliggeremo disgrazia sulla fronte di chiunque ci aggredirà». Sono parole destinate da un lato a fare leva sul nazionalismo interno e dall’altro a recapitare a Mosca il messaggio che Teheran non farà passi indietro.
La risposta di Bush è arrivata dal prato della Casa Bianca dove, conversando con i giornalisti, ha prima ribadito che «tutte le opzioni sono sul tavolo» - e dunque anche quella militare - e poi precisato che «vogliamo risolvere la questione con la diplomazia e stiamo lavorando duro per riuscirci». «Serve uno sforzo comune da parte di tutte le nazioni che riconoscono il pericolo di un Iran nucleare - ha detto il presidente americano - e noi stiamo lavorando a stretto contatto con alleati come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania».
Il duello di dichiarazioni fra Ahmadinejad e Bush cela un opposto approccio ai negoziati di Mosca: Teheran paventa scenari militari con l’obiettivo di spingere cinesi e russi a continuare ad opporsi a sanzioni che potrebbero innescare un’escalation di tensione in tutto il Medio Oriente mentre Washington ribadisce il sostegno alla diplomazia perché punta a un’intesa fra le potenze.
A Wall Street gli analisti di mercati petroliferi danno anche un’altra lettura di quanto sta avvenendo: Ahmadinejad soffia sul fuoco per far crescere il costo del petrolio - già oltre i 71 dollari - e mettere in difficoltà occidentali e cinesi mentre Bush ha l’interesse opposto, vuole negoziare all’Onu tenendo i prezzi bassi.

Il fanatismo religioso di Ahmadinejad alla base della sua pericolosa strategia:

Ex direttore del più diffuso giornale iraniano «Kayhan» ed ora alla guida del parigino «Politique International», Amir Taheri è fra i più ascoltati analisti di affari persiani a Washington. Da qui l’attenzione suscitata da un articolo sul «Sunday Telegraph» nel quale ha svelato un inedito retroscena del recente annuncio da parte del presidente Mahmud Ahmadinejad sull’entrata dell’Iran nel club nucleare grazie all’inizio del processo di arricchimento dell’uranio. «Prima dell’annuncio Ahmadinejad è scomparso per diverse ore ed ha poi detto di aver avuto un "khalvat" (faccia a faccia ndr) con l’imam scomparso, il XII ed ultimo imam sciita occultatosi nel 941» ha scritto Taheri, aggiungendo: «Secondo lo sciismo l’imam è una figura di tipo messianico che, sebbene nascosta, resta il vero sovrano del mondo ed in ogni generazione sceglie trentasei uomini - e non donne - definiti "owtad" (unghie ndr) la cui presenza martella continuamente l’umanità ed impedisce all’Universodi crollare».
Il punto è che «sebbene l’identità delle “unghie” non è nota ai comuni mortali a volte è possibile identificarne una dalle azioni che compie». E Ahmadinejad si ritiene proprio una di queste «unghie» del XII imam, come dimostra il fatto che quando viene identificato in questa maniera da alcuni dei suoi più stretti sostenitori evita di smentire o di scoraggiare simili paragoni.
«Fu dopo un altro “khalvat” che Ahmadinejad annunciò la volontà di candidarsi a presidente - sottolinea Taheri - ed ora afferma che è stato proprio l’imam nascosto a conferirgli l’incarico al fine di provocare uno scontro di civiltà che porterà il mondo musulmano, guidato dall’Iran, a prevalere sull’Occidente e sugli Stati Uniti, sconfiggendo gli infedeli al termine di un lungo conflitto a bassa intensità che assomiglia molto ad una guerra asimmetrica».
Un altro momento nel quale Ahmadinejad affermò sovente di aver avuto un incontro ravvicinato con il XII imam è il discorso che fece all’Assemblea Generale dell’Onu rivendicando il diritto a perseguire il possesso dell’energia nucleare

Un'intervista a David Frum sulla strategia di democratizzazione del Medio Oriente:

 

 La democrazia in Medio Oriente ha bisogno di tempi lunghi, è stato un errore pensare che potesse arrivare nello spazio di un mattino». Così David Frum, politologo neoconservatore dell’American Enterprise Institute di Washington, commenta gli ultimi sviluppi in Medio Oriente, imputando al presidente George W. Bush - del quale è stato stretto collaboratore - tre errori: aver scommesso sul successo di svolte democratiche in tempi brevi, non aver consolidato nuove istituzioni nell’Iraq del dopo-Saddam ed aver chiuso gli occhi di fronte alla corruzione della leadership palestinese. Ma ciò non significa che la strada delle riforme democratiche sia errata perché «resta l’unica possibile». Hamas giustifica gli attentati terroristici contro Israele, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad insegue il nucleare e dall’inizio di aprile 43 soldati americani sono morti in Iraq. Come giudica l’andamento della rivoluzione democratica in Medio Oriente promossa da George W. Bush? «È evidente che la rivoluzione democratica non sta andando bene, ma l’errore non è nei valori né nella direzione strategica, quanto nei tempi: lo sbaglio è stato di immaginare come possibili grandi riforme in tempi molto, troppo brevi». Che cosa intende dire? «Che il Medio Oriente ha di fronte a sè due scenari possibili: da un lato c’è il precedente delle svolte democratiche che avvennero in America Latina negli anni Ottanta e che oggi sappiamo che non hanno prodotto risultati duraturi a causa di carenze di leadership, dall’altro c’è quanto avvenne in Europa nel 1848 quando i primi moti rivoluzionari fallirono, gettando però i semi per quella che sarebbe stata in seguito l’affermazione delle libertà». Possono oggi i popoli arabi e musulmani del Medio Oriente seguire il cammino dell’Europa del 1848? «Dipenderà dai popoli della regione e soprattutto dai loro leader. Guardiamo a cosa sta avvenendo sul terreno: i palestinesi hanno votato in maggioranza per un partito come Hamas che persegue la lotta armata mentre gli iraniani non hanno dato seguito al sommovimento riformista che molti si aspettavano nell’estate del 2003. Se non saranno questi popoli a battersi per le riforme, per raggiungere modelli istituzionali ispirati alle libertà, nessuno potrà farlo al loro posto. Neanche l’America». Quale è stato l’errore di approccio della Casa Bianca? «Puntare su risultati veloci. Immaginare che la trasformazione democratica potesse davvero avvenire in tempi rapidi. Raramente questo è avvenuto nella Storia. Ricordiamoci che il regime di Pinochet in Cile ha resistito per venti anni nonostante il fatto che fosse pressoché isolato nella comunità internazionale». E in Iraq? «Anche qui servono tempi lunghi. Al momento la sorte delle riforme, di un’idea di democrazia, è legata a un uomo solo: l’ayatollah sciita Ali Sistani. Un grande leader religioso che ha capito quale è la strada da seguire. Dobbiamo solo sperare che possa vivere fino a trecento anni». Perché Ali Sistani resta un personaggio così decisivo? «Perché l’errore fatto dall’amministrazione Bush dopo la deposizione di Saddam Hussein nel 2003 è stato di non far consolidare istituzioni capaci di funzionare. In loro assenza continuano a contare solo gli uomini». E nel caso dell’Autorità palestinese qual è stato l’errore commesso da Washington? «Puntare sulla leadership di Al Fatah per far nascere la Palestina indipendente. La corruzione di Yasser Arafat e dei suoi collaboratori era evidente sin dall’inizio ed ha provocato un rigetto popolare dal quale ha tratto giovamento un’organizzazione terroristica come Hamas». Ma se la ricetta democratica in Medio Oriente non funziona nel breve termine perché mai dovrebbe avere successo nel lungo termine? «Non sappiamo se funzionerà nel lungo termine ma sappiamo che non ve n’è un’altra possibile. La trasformazione democratica è l’unica strada per emancipare il Medio Oriente dalle dittature e dalla violenza».

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