Dal MATTINO di martedì 18 aprile 2006:
Negli anni del potere «dimezzato» di Yasser Arafat, nonchè durante l’ultima stagione dei moderati di Al Fatah, si usava misurare la sincerità della condanna di atti terroristici ai danni di Israele, con il tempo intercorso tra un attentato e la presa di distanza ufficiale della leadership palestinese. Un rito, di valore essenzialmente simbolico, si consumava regolarmente nel tentativo di contenere le reazioni della parte offesa e di scongiurare la glorificazione popolare di kamikaze che avevano colpito indistintamente nel mucchio. La politica, con tutte le sue ambiguità, provava a ricondurre in un alveo circoscritto la responsabilità e la matrice della violenza. Iscritti gli ultimi morti nel lungo elenco di vittime del conflitto arabo-israeliano si metteva cinicamente nel conto che la reazione avrebbe teso in qualche misura a pareggiare i conti in attesa di una nuova fase di ipotetico dialogo. Da ieri molto, e in peggio, è cambiato. E non per la sfida che ha fatto nove morti portata a Tel Aviv, con un corpetto esplosivo innanzi a un banchetto di felafel, da Sami Salim Hammed, un giovane di 21 anni allevato nell’odio dalle parti di Jenin dove le ruspe di Israele spianarono molte case nel corso dell’ultima intifada. Nella Pasqua di sangue, il governo di Hamas dismesso in fretta il doppiopetto, indossato per migliorare la propria immagine internazionale dopo la presa del potere, ha salutato controfirmandola la fine di una tregua che sembrava aver imposto a se stesso e ai gruppi armati. Sami Salim Hammed non è ancora un «martire», ma non è detto che non lo diventi presto dal momento che il suo gesto è stato definito, da uno dei portavoce del movimento islamico un «atto di autodifesa di fronte all’occupazione» e come tale giudicato legittimo anche se condotto ai danni della popolazione civile e al di fuori dei «Territori». Il partito di lotta, che ha intercettato la protesta dei palestinesi mostra di non essere ancora in grado di diventare partito di governo. Anzi fa riemergere la sua piena natura fondamentalista legittimando non soltanto l’attentato di Tel Aviv ma anche le azioni terroristiche che probabilmente verranno. Il voto popolare che a gennaio ha messo fuori la vecchia guardia arafatiana e i suoi non proprio integgerimi eredi ha creato soltanto il simulacro di una democrazia, senza sottrarre i vincitori alla tentazione di uno scontro frontale di natura religiosa ed ideologica. Poco conta se a progettare l’ultima strage siano state le schegge più oltranziste delle «Brigate Al Aqsa» residuo armato di Al Fatah o gli irriducibili integralisti della Jihad insofferenti persino al nuovo potere palestinese. L’ampio mantello di Hamas tutto ricopre e protegge evitando di sciogliere le milizie nonchè attraverso il pericoloso richiamo indiretto all’alto valore morale che i Codici talvolta attribuiscono a più di un delitto. Volutamente il movimento islamico non si sottrae ad una grave forma di corresponsabilità lasciando che la sua scelta venga più o meno interpretata come un atto di guerra destinato a seppellire la road map e i tentativi sempre più tenui di tenere vivo il negoziato. Ininfluente, in questo contesto, appare la moderazione espressa dal presidente Abu Mazen. In teoria è dotato di poteri in grado di rallentare le spinte oltranziste. Nei fatti vede decrescere, giorno dopo giorno, il peso delle sue prerogative. Non c’è dietro l’atteggiamento espresso anche attraverso un ministro dal nuovo esecutivo palestinese, che di riflesso legittima le dure mosse preventive e repressive cui Israele ha abituato, soltanto una sinistra coerenza. Hamas che rifiuta di riconoscere lo Stato di Israele e che vede nel disimpegno annunciato da Olmert una minaccia alla sua ragione sociale, ha trovato l’approdo sulla sponda iraniana nel momento in cui navigava a vista nell’isolamento cui l’ha posta l’Occidente. Nè mancano, sia pure collocati in seconda fila, sponsor arabi come i siriani disposti a promuovere attraverso il sostegno economico, una ampia manovra di sdoganamento. Un gioco più grande degli interessi di cui sono portatori i nuovi padroni di Gaza ha dotato il movimento islamico di un valore aggiunto fino a qualche mese fa assolutamente impensabile che si accompagna alla presa di natura emotiva su masse sempre di più impoverite dalle sanzioni di Israele e di altri. Gli embrioni di nuovi «assi» formati da duri e puri che si intravedono in Medio Oriente proprio mentre Israele insegue unilateramente nuove soluzioni territoriali, inducono Hamas a rendere più alto il livello di una sfida che potrebbe trovare consensi nella società palestinese se le speranze di sopravvivenza dovessero sempre di più essere affidate, almeno nella percezione popolare, soltanto al fraterno aiuti dei musulmani. Era fatale che la presa del potere degli islamici a gaza e nella West Bank fosse destinato a creare ulteriori tensioni. Ma in qualche misura in alcuni ambienti progressisti israeliani si era manifestata anche la speranza che il nuovo interlocutore «obbligato» potesse approdare, dopo qualche sfuriata iniziale, a scelte di realpolitik pur dalle posizioni di grande intransigenza che avevano indotto l’Europa e gli Stati Uniti a chiudere i cordoni della borsa in attesa del riconoscimento di Israele e della rinuncia alla violenza. Aver dato ieri ragione, da parte di Hamas, al terrorismo rappresenta un colpo di frusta per il partito trasversale della buona volontà la cui incidenza nei contesti internazionali potrebbe ulteriormente ridursi. Il potere islamico inorgoglito dalle alleanze con forti sfumature antisemite preferisce restare aggrappato ai propri miti. Rendendo un servizio a se stesso, ma non certamente al popolo palestinese.
Di seguito, alcune nostre osservazioni:
1 - Dell’Uva, in un modo o in un altro, cerca sempre di rendere quantomeno corresponsabile Israele del terrorismo palestinese. L’indottrinamento all’odio, fin dalla nascita, dei palestinesi non è elemento centrale della strategia terrorista per ottenere delle menti plagiate pronte ad uccidersi per uccidere, piuttosto una conseguenza del comportamento israeliano. Si Legge: ”Sami Salim Hammed, un giovane di 21 anni allevato nell’odio dalle parti di Jenin dove le ruspe di Israele spianarono molte case nel corso dell’ultima intifada”.
2- Lungo l’intero pezzo è possibile leggere i soliti eufemismi (ma ce n’è uno nuovo: hamas diventa un “partito di lotta”) adoperati per non definire le organizzazioni terroristiche per quello che sono.
3- Le azioni da sempre intraprese da Israele per evitare le stragi come quella di ieri a Tel Aviv sono: “dure mosse preventive e repressive cui Israele ha abituato”. Dell’Uva ora è molto preoccupato, scrive che l’attentato di ieri e le reazioni compiaciute di Hamas di riflesso legittimano le misure israeliane. Bontà sua.
4- Se le masse palestinesi sono sempre più impoverite le responsabilità sono delle sanzioni di Israele e di altri. La colpa è sempre degli altri.
5- Se le strampalate analisi, di cui Dell’Uva in questi mesi si è fatto portavoce dalle colonne de Il Mattino, che volevano una Hamas più pragmatica perché forza di governo si rivelano sempre più infondate, meglio rifugiarsi nella retorica autoreferenziale che prendere atto dell’abbaglio (non si sa quanto involontario). Dell’Uva, a tal proposito, scrive: “Aver dato ieri ragione, da parte di Hamas, al terrorismo rappresenta un colpo di frusta per il partito trasversale della buona volontà la cui incidenza nei contesti internazionali potrebbe ulteriormente ridursi”. Seguendo questo ragionamento chi ha detto che le cose non sarebbero andate in questo modo non può essere considerato parte del “partito della buona volontà”. Sarà forse un incallito guerrafondaio
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