Da La REPUBBLICA di martedì 18 aprile 2006, l'editoriale di Sandro Viola:
I segni d´una possibile nuova escalation s´erano fatti nelle ultime settimane sempre più evidenti, e il terribile attentato di ieri a Tel Aviv è venuto a confermarli. Le bombe umane, i cannoni, i missili aria-terra sono infatti, ancora una volta, il solo linguaggio che i protagonisti del conflitto israelo-palestinese siano capaci di parlare.
Fin dalle prime righe dell'articolo Viola propone l'equiparazione tra la violenza terrorista palestinese e la risposta militare israeliana.
Per il resto, silenzio. Hamas non parla con gli israeliani, gli israeliani non parlano con i palestinesi, e di tutti i piani di pace discussi nell´ultimo quindicennio non restano che rottami.
Israele parla con Abu Mazen, non con Hamas, che non la riconosce neppure
Né si può dire che niente sia cambiato rispetto agli scenari precedenti. No, tutto precipita. Sino alla vittoria di Hamas alle elezioni di gennaio, il vecchio governo dell´Autorità palestinese condannava infatti (e dopo la scomparsa di Arafat lo ha fatto con accenti via via più sinceri) gli attentati della Jihad islamica e delle altre bande terroristiche.
Non riusciva a sventarli,
Non faceva nulla per sventarli e, con Arafat, li incoraggiava sotto banco
ma almeno li censurava come «contrari agli interessi del popolo palestinese». Adesso il governo islamista li considera invece incensurabili, anzi legittimi, in quanto «costituiscono una risposta ai quarant´anni dell´occupazione israeliana». Tanto è vero che ieri Hamas non ha neppure accennato a distanziarsi dalla strage di Tel Aviv.
Una nuova "intifada", come quella durata sino a un anno e mezzo fa e che ha lasciato sul terreno poco meno di mille israeliani e tremila palestinesi, potrebbe quindi essere alle porte. E questo perché sui due versanti del conflitto non si scorgono più, al momento, intelligenza politica, misura, timore del peggio.
Quando mai Viola ha visto in Israele "intelligenza politica, misura, timore del peggio"? Per lui le scelte di Israele sono sempre, in ogni momento, le peggiori possibili. Anche quando portano, nell'evidente assenza di un interlocutore, a un ritiro che potrebbe essere usato dai dirigenti palestinesi per far nascere finalmente uno Stato e al quale invece si risponde con altro terrore e altra violenza.
Certo, gli israeliani bisogna capirli. In maggioranza, essi sono ormai favorevoli – e lo hanno dimostrato col voto alle elezioni di marzo – alla restituzione di gran parte dei Territori occupati. È infatti probabile che nei prossimi tre anni il nuovo governo guidato da Ehud Olmert evacuerà l´esercito e le colonie ebraiche dall´80-90 per cento della Cisgiordania. E allora a che cosa mirano, con i loro orrendi attentati, i palestinesi? Vogliono davvero, adesso che gli israeliani hanno rinunciato al progetto del Grande Israele, una Grande Palestina, vale a dire l´eliminazione d´Israele così com´è prevista nella Carta di Hamas? Sì, gli israeliani bisogna capirli. Ma il fatto è che bisogna capire anche i palestinesi. I Qassam, i missili artigianali che la Jihad islamica lancia sul Negev o su Ashkelon, non hanno mai fatto vittime.
Falso: i qassam hanno fatto numerose vittime, e tra di esse vi sono bambini ed adolescenti
Al contrario, i bombardamenti sulla Striscia di Gaza, da terra e dall´aria, con cui gli israeliani rispondono al lancio dei Qassam, fanno molti morti. Nell´ultima settimana, tra bombardamenti su Gaza e sparatorie per catturare gli uomini della Jihad, quattro bambini palestinesi hanno perso la vita.
Viola dimentica di scrivere che i lanci vengono effettuati da centri abitati e che i terroristi portano con se dei bambini nei loro campi militari.
E a voler definire la politica attuale del governo Olmert nei Territori occupati, l´espressione più precisa è quella usata da un editoriale nell´edizione inglese di Haaretz: "Collective punishment", castigo di massa.
E' davvero la definizione "più precisa" ?Vediamo:
Stop al versamento delle tasse doganali spettanti di diritto ai palestinesi, circa 50 milioni di dollari al mese.
Israele dovrebbe finanziare un governo che vuole distruggerla?
La Cisgiordania divisa in tre parti da decine e decine di posti di blocco che le rendono in pratica incomunicanti. I continui passaggi dei supersonici su Gaza, al solo scopo di squassare i timpani e i nervi della popolazione. Stop all´uscita dei prodotti agricoli palestinesi, con caterve d´ortaggi e frutta che marciscono ai valichi.
Si tratta di ovvie misure di sicurezza nel momento in cui prosegue l'offensiva terroristica
Nessuna misura contro i raid dei coloni estremisti che tagliano alla base gli ulivi, o spiantano le coltivazioni, dei palestinesi.
Falso. A parte il fatto che in alcuni casi é stata dimostrata la falsità delle accuse ai coloni , Israele é intervenuta per bloccare il taglio degli ulivi
Frequenti chiusure dei valichi alle organizzazioni umanitarie che portano a Gaza generi essenziali (farina soprattutto) per i 6-700.00 abitanti più poveri.
Perché e quando i valichi sono minacciati dai terroristi
E mai, o quasi mai, una vera inchiesta, una punizione esemplare, quando l´esercito miete vittime civili, passanti, anziani che non riescono ad allontanarsi dal luogo degli scontri, bambini che giocano nei cortili.
Falso: le inchieste e le punizioni per gli abusi ci sono.
Insomma, il messaggio più stolido e brutale che si potesse dare ai palestinesi (e al mondo) circa il carattere e le intenzioni del prossimo governo d´Israele.
S´aggiunga a tutto questo la sospensione degli aiuti che Stati Uniti ed Europa versavano all´Autorità Palestinese, circa 800 milioni di dollari all´anno. Gli stipendi di marzo per i 150.000 dipendenti dell´autorità non sono stati infatti pagati, il che significa che – contate le famiglie – un milione di persone è già da un mese e mezzo senza soldi. Beninteso, la motivazione politica che ha fatto decidere agli americani e agli europei di sospendere gli aiuti, è comprensibile. La decisione di non sovvenzionare Hamas, era anzi inevitabile. Resta il fatto che bisogna chiedersi quali effetti possano avere sulla massa palestinese la tremenda durezza dell´occupazione israeliana, e adesso il taglio netto degli aiuti economici. Ci sarà una rivolta per defenestrare il governo di Hamas, o s´ingrosserà la fila dei giovani che chiedono, come aveva fatto il ventunenne andato a farsi esplodere ieri a Tel Aviv, una cintura al tritolo per diventare martiri della guerra santa? Lo s´è detto, gli israeliani bisogna capirli. Grazie al Muro, gli attentati terroristici s´erano rarefatti al punto che per la Pasqua sono confluiti in Israele oltre due milioni di pellegrini e turisti, cosa che non accadeva da parecchi anni. La gente cominciava a sentirsi meno esposta, più sicura. E invece ecco il macello di Tel Aviv venuto a ricordare l´intensità, l´inesorabilità del rancore palestinese. A rendere chiaro ancora una volta che la sola forza militare non può risolvere il conflitto.
All´inizio dell´anno, i vertici dell´esercito avevano assicurato di possedere già la capacità tecnologica per sventare la minaccia dei razzi Qassam. Ma i Qassam hanno continuato a cadere sul territorio israeliano: e domani, quando vedesse che non le si permette di governare, Hamas potrebbe rompere la tregua. Ai Qassam artigianali s´aggiungerebbero allora i suoi Katyusha a più largo raggio, e ai martiri della Jihad islamica, i suoi martiri.
Mentre in assenza del minimo tentativo negoziale, nella disperazione provocata dal taglio degli aiuti, i palestinesi si stringerebbero attorno al movimento integralista, marginalizzando una volta per tutte i moderati vicini al presidente Mahmud Abbas.
Nessun dialogo con Hamas, organizzazione islamica, estremista e terrorista che non riconosce ad Israele «il diritto d´esistere»? La posizione è più che comprensibile: ma dove porterà? È un interrogativo che bisogna porsi non solo guardando al presente, ma anche al futuro. Pensando ai dirigenti di Teheran che sembrano muoversi senza più freni, e pensando al giorno (che non è tanto lontano) del ritiro americano dall´Iraq, d´un Iraq destinato probabilmente a diventare la testa di ponte più avanzata del terrorismo islamico. A quel punto, vale a dire nel prossimo futuro, non aver parlato ad Hamas potrebbe rivelarsi un altro grave errore.
L'interrogativo posto da Viola é fuorviante, se contemporaneamente non se ne pone un altro, ad esso complementare. E cioé: che cosa accadrebbe se ad Hamas si desse una legittimazione senza contropartita. Se si trattasse con essa e si facessero concessioni senza aver prima ottenuto né la rinuncia alla violenza, né il riconoscimento di Israele?
Non sarebbe forse un modo di preparare la prossima guerra, indebolendo nel contempo la posizione di Israele?
L'analisi di Renzo Guolo, pubblicata sempre da REPUBBLICA é più equilibrata di quella di Viola, ma contiene comunque passaggi criticabili.
Ecco il testo:
NEL GIORNO del ritorno degli uomini-bomba nelle città israeliane, anche le parole sembrano preparare il salto nel vuoto. Secondo Hamas l´attentato di Tel Aviv è il «risultato naturale dei crimini israeliani» e una forma di autodifesa per un popolo che ha diritto a utilizzare tutti i mezzi per difendersi. Una presa di posizione che non avrebbe certo sorpreso qualche mese fa, quando il Movimento di Resistenza Islamico era fuori dalle istituzioni; ma che suona oggi come una sorta di suicidio politico per un organizzazione che ha responsabilità di governo e chiede alla comunità internazionale di non tagliere i fondi di cui ha sin qui beneficiato l´Anp.
Ne é ben consapevole il presidente Abu Mazen che, disperato e impotente, ha definito all´opposto l´attacco della Jihad islamica un atto terroristico.
Le parole di Hamas segnalano una grave difficoltà per il gruppo fondato dallo sceicco Yassin, impegnato sino a qualche giorno fa a discutere se prolungare o meno l´hudna, la tregua nei confronti di Israele che rispetta già da un anno. Al suo interno vi sono settori che guardano con favore a quest´ipotesi poiché ritengono, realisticamente, che lo scontro frontale con il potente vicino non conduca né alla liberazione della Palestina né alla reislamizzazione della società palestinese, e fazioni decise a proseguire, sia pure dopo una fase di riorganizzazione, la lotta armata
Posta in questi termini l'alternativa é falsa. Infatti anche i fautori di un' "hudna", cioé di una tregua sono intenzionati a riprendere la "lotta armata", come indica lo stesso termine da loro scelto.
La discussione non ha prodotto esiti visibili. Il rapido precipitare della crisi finanziaria, provocato dal blocco dei finanziamenti all´Anp da parte di Usa e Ue, ha canalizzato le energie del gruppo in quella direzione. Uno sforzo ripagato, parzialmente, dall´annuncio dello stanziamento di ingenti, anche se non ancora sufficienti, somme da parte dell´Iran. Un finanziamento politicamente pesante quello di Teheran. Tanto più ora che la Jihad islamica ha sparigliato i giochi, mandando un suo giovane shahid a seminare morte in Israele nel giorno in cui si insedia la nuova Knesset.
Ostile al processo elettorale e fautrice della lotta armata contro "l´entità sionista", la Jihad islamica ha così tagliato gordianamente il nodo che stringeva Hamas. Colpendo Tel Aviv il gruppo guidato da Ramadan Shallah ha dettato i temi dell´agenda politica, riducendo drasticamente le opzioni a disposizione di Hamas: sarà la risposta militare di Israele a sciogliere il suo dilemma. La giustificazione dell´attentato è sembrata, in un primo momento, la fuga in avanti di un movimento che, a poche settimane dall´ascesa al potere, sembra incapace di dissolvere l´ambiguità tra l´essere partito di lotta e di governo in un particolare contesto come quello mediorientale e con quell´ideologia alle spalle. In realtà quella presa di posizione permette a Hamas di rimuovere le proprie contraddizioni politiche, serrando le fila con le altre organizzazioni armate.
Il fatto che l´attentato sia stato computo dalla Jihad anziché dai gruppi legati a settori di Fatah, come le Brigate al Aqsa, favorisce quella rimozione. La Jihad non è solo un ristretto gruppo militarista, lontano dal livello di organizzazione e consenso di Hamas. Un gruppo che, per altro, già negli anni Novanta ha insidiato l´egemonia di Hamas costringendolo a inseguire nel devastante terreno delle cosiddette "operazioni di martirio". La Jihad è, soprattutto, un´organizzazione che ha strettissimi rapporti con l´Iran. In particolare con i Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione, il braccio armato del regime di Teheran. Lo stesso regime che annuncia ora con enfasi la donazione di 50 milioni di dollari al governo di Haniyeh. E´ chiaro che l´Iran intende saldare la sua partita, quella del nucleare negato, alla questione palestinese. In entrambe le vicende Israele, che considera quella iraniana la sola minaccia davvero strategica per la propria esistenza, è direttamente coinvolto. Anche se, nel caso di una possibile replica dell´operazione Osirak, che provocò la distruzione della futuribile bomba di Saddam, l´operazione militare sarebbe gestita direttamente dagli Usa per evitare di provocare una deflagrazione nell´intero mondo islamico. Anche per questo speciale linkage, Khamenei e Ahmadinejad concedono la loro protezione a Hamas. Sperando un giorno di poter offrire al movimento palestinese anche il solido riparo dell´ombrello nucleare.
In questo intricato e intrecciato scenario Hamas, ora meno che mai, non potrebbe neutralizzare, anche se lo ritenesse utile, i gruppi ostili alla tregua. E in particolare la filoiraniana Jihad. I suoi nuovi sponsor finanziari, tatticamente spregiudicati, come si può vedere dal ruolo che svolgono nello scenario iracheno, non lo permetterebbero. Così il gesto del giovane "martire" Sami, apparso assai poco entusiasta nel suo video-testamento, conduce Hamas a sposare le tesi di Khaled Meshaal, leader del comando politico esterno rifugiato in Siria, che intende "legare il potere alla resistenza". Un tipo di potere che, a sua volta, il premier israeliano Olmert, facendo propria parzialmente l´espressione usata dai gruppi islamisti per indicare il suo paese, definisce tipico di "un´entità terrorista".
Il paragone tra chi definisce Israele "entità sionista", negandone il diritto all'esistenza e Olmert che definisce l'Anp di Hamas "entità terrorista" é assurdo. In un caso ci si trova di fronte all'espressione del rifiuto totale dei diritti del "nemico", nell'altro alla constatazione contingente di dati di fatto (Hamas é un'organizzazione terrorista e governa l'Anp).
Anche le parole, ieri, oltre alle armi, hanno lasciato il loro segno nel martoriato Mediorente: non lasciando presagire nulla di buono.
Scorretto il titolo scelto da REPUBBLICA: "Hamas: "E' solo autodifesa contro i crimini israeliani" ". A pagina 3, accanto alla cronaca della strage di Tel Aviv campeggiano così senza repliche le giustificazioni e le accuse cariche d'odio a Israele di un'organizzazione terroristica.
Accuse e giustificazioni che fin dalle prime righe sono al centro della lettura dell'attentato data da Michele Giorgio sul MANIFESTO. Un articolo di pura propaganda, che riportiamo:
Sami Hamadah, arruolato appena adolescente dalle «Brigate Al-Quds» del Jihad Islami, ha aperto la borsa come gli aveva intimato la guardia privata all'ingresso della vecchia stazione degli autobus di Tel Aviv. Un attimo dopo c'è stato il boato, forte e devastante, che lo ha ucciso assieme a nove civili israeliani e che ha lasciato ferite sul terreno decine di altre persone. Si è trattato del primo attentato suicida compiuto dal Jihad da quando il movimento islamico Hamas ha formato il nuovo governo palestinese e giunge al termine di settimane di grande tensione. Soprattutto a Gaza - sempre stretta nella morsa delle forze armate israeliane che da settimane tengono chiusi i valichi - dove si sono alternati lanci di razzi artigianali palestinesi verso il Neghev e pesanti bombardamenti israeliani in cui ha trovato la morte anche una bambina, senza dimenticare i continui assassinii «mirati» di attivisti dell'Intifada compiuti dall'aviazione dello Stato ebraico. L'attacco suicida di ieri ha inoltre evidenziato, in tutta la sua drammaticità, la spaccatura all'interno dell'Anp. Il governo di Hamas ha parlato di un atto di «legittima difesa» contro «i crimini compiuti dall'occupazione israeliana». Per il presidente Abu Mazen invece l'attentato è stato un atto di terrorismo. Il primo ministro designato Ehud Olmert ha avvertito che Israele risponderà «come necessario». «Sapremo come reagire e lo faremo nel modo necessario, useremo tutti i mezzi a nostra disposizione per prevenire futuri attacchi», ha detto. Israele ha anche puntato l'indice contro l'Iran, accusato di essere l'ispiratore di molte delle azioni del Jihad Islami. La rappresaglia israeliana è già cominciata a Nablus, (nel nord della Cisgiordania), dove decine di jeep e mezzi corazzati sono entrati subito dopo l'attacco a Tel Aviv. Un gruppo di soldati israeliani, asserragliato in un'abitazione, ha aperto il fuoco contro una folla di manifestanti che lanciavano pietre, ferendo due persone, fra cui un adolescente di 13 anni. Una volontaria straniera, Ana Laura Espinoza, ha raccontato che i militari, che avevano occupato il tetto dell'edificio, sono stati raggiunti da numerosi manifestanti palestinesi che hanno cominciato a lanciare pietre e costruito barricate di fortuna. In qualche caso hanno anche sparato con armi leggere. L'esplosione a Tel Aviv è avvenuta davanti a un piccolo ristorante di felafel nell'affollatissimo quartiere di Neve Shaanan, già teatro il 20 gennaio scorso di un attentato suicida rivendicato dal Jihad che aveva provocato il ferimento di quindici persone. Una guardia privata ha impedito al kamikaze di entrare nel locale, evitando quindi una strage di proporzioni maggiori. L'attentatore infatti era in possesso di un ordigno molto potente. «È accaduto tutto all'improvviso - ha raccontato Rachel, una donna che stava parcheggiando l'auto - c'è stata l'esplosione e subito dopo ho visto volare resti umani. È stato orribile, ho urlato terrorizzata». Lo stesso miracolo non si ripete due volte, ha detto da parte sua uno dei proprietari del ristorante dove a gennaio un altro kamikaze aveva fatto molti feriti. «Questa volta è stato molto piu duro», ha commentato Pini Gershon, «tutti questi morti... È stato terribile da vedere». Le forze di sicurezza israeliane ieri erano impegnate a cercare di localizzare un furgoncino di colore blu, visto allontanarsi poco prima dell'esplosione. La radio militare ha parlato di tre persone che avrebbero portato il kamikaze sul luogo dell'attentato. In serata le televisioni locali e quelle arabe hanno trasmesso le immagini dell'attentatore ripreso in piedi davanti a uno striscione con l'insegna del Jihad, la fronte cinta da una benda nera, in una mano un fucile, nell'altra il Corano. «Noi diciamo al nemico criminale che ci sono altri (palestinesi) che desiderano il martirio», ha dichiarato nel video, annunciando il suo gesto. L'attentato è coinciso con la prima riunione del nuovo parlamento israeliano (Knesset) uscito dalle elezioni del 28 marzo. La vigilia della convocazione è stata segnata da tensioni interne. Un deputato di estrema destra ha proposto l'autoscioglimento del parlamento dopo che un altro parlamentare, Ahmad Tibi, aveva presentato una proposta di legge per impedire di entrare al governo a qualsiasi partito che miri alla revoca della cittadinanza o alla espulsione per gli arabi israeliani. Donne, ebrei sefarditi e arabi sono sottorappresentati nel nuovo parlamento, rispetto a un numero molto elevato di generali dell'esercito in pensione ed ex capi dei servizi di sicurezza. Soltanto 14 donne sono state elette, pari al 14 percento del parlamento: Israele si piazza in questo modo in 74esima posizione nel mondo per rappresentanza femminile, dietro il Sudan e la Sierra Leone, come ha rilevato il quotidiano Ha'aretz.
In prima pagina il titolo del quotidiano comunista é ancor più apertamente giustificazionista: sotto una fotografia della strage recita "I frutti del male", che sarebbe, naturalmente quello imputato a Israele.
Ugo Tramballi sul SOLE 24 ORE annuncia l'"inevitabile rappresaglia" israeliana (bloccata da Olmert, in realtà) e descrive una "Palestina sola contro tutti", negando la realtà di un sostegno e di un cautela diplomatica che sfidano ogni giorno di più la realtà.
Ennio Di Nolfo, sul MESSAGGERO, conclude così il suo editoriale:
il compito dei paesi occidentali, legati a una tradizione di democrazia e di ragionevole appoggio a Israele
Forse Di Nolfo pensa che l'appoggio a Israele rischi di diventare, in certe forme, "irragionevole". Dovrebbe specificare in quali.
é quello di trovare, al di sotto delle parole, le ragioni del dialogo, per impostare un lavoro comune, che non eluda i problemi e, al contrario, ne faciliti la soluzione.
E il compito di combattere il terrorismo e le dittature che lo generano?
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