Da AVVENIRE di oggi, 16.4.2006, riportiamo l'intervista a padre Pierbattista Pizzaballa, custode francescano dei beni religiosi in Terrasanta. Abbiamo già avuto occasione di criticare la sua posizione nei confronti del terrorismo, l'equiparazione che fa tra governo israeliano e governo palestinese oggi nelle mani di Hamas, che è, fino a prova contraria, un movimento terrorista che si propone la scomparsa dello Stato ebraico. Per Pizzaballa le due realtà statuali sono equivalenti e questo è inaccettabile. L'intervista che segue ha diversi aspetti criticabili, per lo meno tutte le dichiarazioni così dense di ambiguità. Preferiamo però lasciarne la valutazione ai nostri lettori. Se in questa giornata pasquale avranno voglia di leggersi le valutazioni di Pizzaballa (in particolare quanto risponde alle ultime due domande) e poi inviare la loro opinione a AVVENIRE faranno una cosa saggia. La storia ci ha insegnato che nessuna religione protegge i suoi fedeli venendo a patti con i barbari che vogliono distruggerla. Nel mondo fondamentalista e terrorista islamico non sono in pericolo solo gli ebrei, è in pericolo lo stesso cristianesimo.
Ecco l'intervista di Lorenzo Rosoli:
«Sono in Terra Santa da sedici anni e non avevo mai visto tanti fedeli e tanti pellegrini come in questa Pasqua del 2006». C'è gioia nella voce di padre Pierbattista Pizzaballa, frate minore, dal maggio 2004 Custode di Terra Santa. Gioia grande. E un pizzico di lieto affanno: «Sono giunti a decine di migliaia da tutto il mondo, impegnandoci al massimo sul piano dell'accoglienza».
Buone nuove da Gerusalemme. Buone nuove da una terra tormentata che fa notizia quasi esclusivamente per i fatti di sangue, per la violenza, le bombe, le rappresaglie, i muri eretti fra i popoli e dentro i cuori. Ma questi sono giorni speciali. Giovedì cadeva la Pasqua ebraica. Oggi festeggiano Pasqua i cattolici; domenica prossima gli ortodossi. In questi giorni così fitti di celebrazioni, riti, preghiere, Avvenire ha bussato alla porta di Pizzaballa. Il custode non si è sottratto.
«Quanta gente - racconta -. Le liturgie e le cerimonie nei Luoghi Santi prevedono il rispetto rigoroso di orari, turni, protocolli che regolano l'accesso e la fruizione da parte delle diverse comunità cristiane. Ebbene: a causa della folla, del traffico, della difficoltà a muoversi agevolmente da un luogo di culto all'altro, tutta questa architettura di orari e protocolli è saltata. Un traffico che ha richiesto alla polizia una mobilitazione supplementare».
Da dove vengono i pellegrini?
Da tutto il mondo, letteralmente. Molti dal Sud Europa, com'era già in passato. Ma molti quest'anno anche dai Paesi arabi, dall'Egitto, dall'America latina, dalle Filippine, dal Canada. E tanti italiani.
Come si spiega questa crescita del flusso di pellegrini?
Hanno influito, senza dubbio, fattori esterni, di "contesto", come la relativa tranquillità che da alcuni mesi garantisce maggiore sicurezza. Ma credo ci siano ragioni più profonde. A partire dalla crescita dell'importanza della Terra Santa e dei Luoghi Santi nella coscienza delle Chiese cristiane. Forse dopo stagioni di assenz a o di disattenzione, le Chiese cristiane hanno riscoperto il bisogno di riprendere e rafforzare il legame con i Luoghi Santi, come se finalmente avessero avvertito una "nostalgia" per i luoghi delle radici. D'altronde: il cuore del mondo sta in Terra Santa, il cuore del mondo batte a Gerusalemme. E non solo per i cristiani.
Oltre i numeri, che cosa l'ha stupita di più in questi giorni di Settimana santa, in questa vigilia di Pasqua?
La presenza e lo spirito dei pellegrini arabi, così carichi di gioia, di devozione, di fede per un viaggio - per un'esperienza - che forse, per loro, è meno agevole che per i pellegrini di altre provenienze. Un viaggio che magari hanno dovuto rimandare chissà quante volte, e che ora riescono finalmente a vivere.
Che cosa significa vivere e celebrare la Pasqua a Gerusalemme?
Qui come in ogni angolo del mondo è la festa di Cristo che muore e risorge. Ma qui è e resta un fatto ancora più sconvolgente. Ebraismo e islam, pur con il loro profondissimo senso di Dio, non possono concepire l'idea di un Dio che muore e risorge. Ma rispettano la nostra fede e le sue manifestazioni, com'è in questi giorni capaci di chiamare così tanti pellegrini.
Dal Santo Sepolcro alla Via Dolorosa agli altri Luoghi Santi, in questi giorni è tutto un fiorire di celebrazioni e liturgie. Per i figli di una società secolarizzata come la nostra, espressioni di un passato che ha poco o nulla di vitale da dire al presente, del ripiegarsi in un "altrove" rispetto allo scorrere della storia. E di una storia che in queste terre pare condannata alla paura, all'odio, alla violenza...
Forse è così in Occidente. Ma qui siamo a Gerusalemme, siamo in Oriente, dove il senso del rito è forte, vivo, non è una fuga nel passato ma è eloquenza che parla all'oggi. Il rito è un fatto importantissimo, che identifica le diverse comunità religiose - cristiane ma anche ebraiche e islamiche.
In queste terre dove a volte si pratica la violenza e si uccide anche "nel nome di Dio", quali segni di speranza sanno offrire i credenti?
Qui il dialogo e l'incontro sono forse più difficili che altrove, ma anche più fecondi. Qui dialogare significa "compromettersi". E tanti lo fanno: associazioni e realtà istituzionali, ma anche persone semplici, laici e religiosi. Senza fare notizia, senza fare chiasso, semplicemente condividendo la vita quotidiana e il servizio agli altri negli ospedali, nelle scuole, nelle attività economiche. Persino nella polizia: non una volta sola in questi giorni ho visto poliziotti cristiani spiegare ai loro colleghi ebrei cosa stava succedendo e come agire e comportarsi prestando servizio durante le celebrazioni religiose.
Nei giorni scorsi i patriarchi e i capi cristiani di Gerusalemme hanno lanciato un nuovo appello alla riconciliazione fra Israele e Palestina e hanno chiesto alla comunità internazionale di non tagliare gli aiuti al popolo palestinese quale reazione alla vittoria elettorale di Hamas. Quale risonanza ha avuto?
Qualsiasi valutazione è prematura, anche perché in questi giorni siamo coinvolti profondamente nel cammino della Settimana santa, che ha la priorità su tutto. Quell'appello - che ho sottoscritto anch'io - non esprime giudizi politici, ma ribadisce la necessità del riconoscimento reciproco fra israeliani e palestinesi, il diritto d'entrambi a vivere in libertà e sicurezza, la necessità di costruire insieme un futuro di pace e giustizia, il no a ogni forma di violenza e discriminazione. Di sicuro il blocco degli aiuti internazionali ai palestinesi rischia di aggravare ancor più la disperazione dei poveri, così come il muro che Israele sta erigendo è il simbolo eloquente di una paura reciproca, di una indisponibilità all'incontro, una situazione che invece chiama la politica a una maggiore creatività e lungimiranza di fronte alle sfide della pace e della giustizia.
I cristiani della Terra Santa e in particolare dei Territori palestinesi come hann o reagito alla vittoria elettorale di Hamas?
Anche qui è presto per fare valutazioni. Al di là delle dichiarazioni estemporanee, restiamo in attesa di conoscere le scelte concrete sul piano dei programmi politici e degli uomini che li realizzeranno.
In che modo celebrare Pasqua a Gerusalemme può alimentare il dialogo fra le Chiese cristiane?
Attenzione: i cristiani a Gerusalemme non fanno "dialogo", ma vivono insieme. Convivono e condividono: i Luoghi Santi, le liturgie, la preghiera, la vita stessa, ecco gli spazi della prossimità nei quali crescono le relazioni e le amicizie. Le divisioni fra i cristiani sono e restano forme di contro-testimonianza, ai nostri occhi e agli occhi dei musulmani e degli ebrei più sensibili al valore della nostra presenza a Gerusalemme.
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