Fiamma Nirenstein
La sabbia di Gaza. Cronache di uno sgombero forzato
Rubbettino, pagine 136, e 10
Sabbia, lacrime. Il vento che ingiallisce in un amen il verde smeraldo dei prati, soffiando e distribuendo la polvere che si alza dalle macerie delle case, quelle case che fino a poco prima riflettevano nel loro biancore superbo la luce accecante della torrida estate di Gaza. E che ora si afflosciano per gli insulti di bulldozer talmente imponenti da sembrare robot usciti da un cartone animato giapponese. Grida, insulti, il pianto disperato dei settler irriducibili, i coloni che hanno trasformato il deserto in un'oasi accerchiata dall'odio; la commozione dei soldati mandati da Sharon a rimuovere da quella terra allucinata gli — un tempo — amati «pionieri» di un'era mai giunta a compimento. La cronaca diventata ormai Storia, epopea al contrario, di un gruppo di israeliani che si ritenevano portatori di una missione di riscatto, affidata loro dalle generazioni perdute sin dai tempi dei Romani, emerge dall'ultimo libro di Fiamma Nirenstein nella forma di un diario della disperazione annunciata. La giornalista, corrispondente de La Stampa da Gerusalemme, osservatrice «laica» di uno scontro messianico, racconta i fatti giustapponendo il mondo così come è alle pretese escatologiche dei settler. Ne emerge un quadro quasi cubista della vicenda che ha capitalizzato l'attenzione del mondo nell'agosto di un anno fa, una vita fa. Una scena che acquista chiarezza se osservata da lontano. La sabbia di Gaza. Cronache di uno sgombero forzato (Rubbettino, pagine 136, e 10) non è però un racconto distaccato o un giudizio severo di un mondo — quello dei coloni — guardato per lo più con malcelato fastidio se non con vero e proprio disprezzo in Occidente (ma anche da gran parte degli israeliani). Fiamma Nirenstein entra nelle case dei coloni, osserva la loro «umanità solidale» in lotta con l'ostilità di tutti coloro che si trovano al di là dei confini, molto concreti, di filo spinato, garitte e check-point; così come al di là di una concezione religiosa che non ammette vie di mezzo, sfumature: le donne da una parte, gli uomini dall'altra. Gli ebrei nella loro Terra, assegnata da Dio per l'eternità, i palestinesi altrove, non importa dove. Ma non qui. L'autrice non fa sconti. Ma non condanna: narra. Il filo del racconto inizia a un anno circa dalla data decisa per lo sgombero, nel settembre 2004, e termina nello stesso mese del 2005. In mezzo, il mondo ormai perduto dei coloni, le loro motivazioni, i loro sogni impossibili, la loro cecità evidente. I loro insulti al «traditore» Sharon, l'uomo che li aveva tanto coccolati e che, per salvare Israele, aveva deciso di abbandonarli. E poi, compiuta la missione, si è addormentato. Per non svegliarsi mai più.
Paolo Salom
dal Corriere della Sera di lunedì 10 aprile 2006