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Il Foglio Rassegna Stampa
06.04.2006 Hamas "dialoga" solo per finta, l'Iran si fa beffe dell'Europa, Israele vorrebbe la normalità
analisi sul Medio Oriente

Testata: Il Foglio
Data: 06 aprile 2006
Pagina: 2
Autore: Carlo Panella - la redazione - Kenneth Stern
Titolo: «Finché Hamas non dice»

Dal FOGLIO di giovedì 6 aprile 2006, un articolo di Carlo Panella spiega perché le "offerte di dialogo2 di Hamas non vanno credute:

Roma. Dalla vittoria elettorale di Hamas in poi, un equivoco tiene banco su molti media circa la richiesta di riconoscere Israele avanzata dal Quartetto. Leggendo i commenti giornalistici o le frasi pronunciate dai ministri degli Esteri russo o cinese, il problema si limiterebbe soltanto a trovare una formula verbale che dia un contentino a Gerusalemme e uno a Gaza. Un gioco che alimenta la posizione oltranzista di Hamas, che isola Israele e che alimenta anche la strategia del principale alleato di Hamas, quell’Iran di Mahmoud Ahmadinejad che vuole cancellare Israele dalla faccia della terra. Due giorni fa, questo equivoco si è riproposto col primo messaggio che il ministro degli Esteri palestinese, Mahmoud Zahar, ha inviato a Kofi Annan. L’ovvio accenno alla volontà di “vivere nella pace e nella sicurezza a fianco dei nostri vicini” è stato scambiato per un riconoscimento implicito di Israele. Con un’ennesima smentita, lo stesso Zahar ha dovuto negare di essersi riferito a “una soluzione con due stati per la fine del conflitto in medio oriente”. Ma sicuramente questi equivoci si ripeteranno. Di tutto, peraltro, si può accusare Hamas e i suoi alleati e finanziatori iraniani (per nulla in difficoltà a causa delle differenze religiose tra sciiti e sunniti) tranne che di scarsa chiarezza. Lo Statuto di Hamas è esplicito e definitivo: “Hamas crede che la terra di Palestina sia un deposito legale (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’Islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare a nessuna parte di essa. Nessuno stato arabo, né tutti gli stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e i presidenti messi assieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite, hanno il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’Islam sino al giorno del Giudizio. Chi, dopo tutto, potrebbe arrogarsi il diritto di agire per conto di tutte le generazioni dell’Islam fino al giorno del Giudizio? Questa è la regola nella sharia, e la stessa regola si applica a ogni terra che i musulmani abbiano conquistato con la forza, perché al tempo della conquista i musulmani l’hanno consacrata per tutte le generazioni dell’Islam fino al giorno del Giudizio”. Riconoscere Israele, per i dirigenti di Hamas non è dunque un problema politico, ma una violazione grave della sharia. Un atto inconcepibile, equivalente all’apostasia. Naturalmente Hamas sa fare politica, sa che in Francia, in Russia e in Cina (e altrove) si è disposti a firmare non uno, ma cento nuovi patti di Monaco pur di approvvigionarsi di petrolio e mettere in difficoltà gli Stati Uniti colpendo Israele, e quindi lavora sull’equivoco. Parla così di una “tregua generazionale”, che può durare decenni, accenna a “riconoscimenti de facto”, ma ovviamente non è disposta a rinunciare all’obiettivo strategico che è la distruzione della Entità Sionista,prima o poi. D’altronde c’è una sola e unica formula per soddisfare le richieste poste dal Quartetto. E’ la strada percorsa dall’Olp, quando abbandonò la strategia di distruzione di Israele e affidò al poeta Mahmoud Darwish il compito di scrivere la mozione che fu approvata ad Algeri il 15 novembre 1988, che stabilisce, nel suo passaggio centrale: “Nonostante l’ingiustizia storica imposta al popolo arabo palestinese, che ne ha prodotto la dispersione e l’ha privato del suo diritto all’autodeterminazione al seguito della risoluzione 181 del 1947 dell’Assemblea generale dell’Onu che istituiva la spartizione della Palestina in due stati, l’uno arabo e l’altro ebraico, dobbiamo riconoscere che, in ogni caso, questa risoluzione assicura ancora oggi, le condizioni di legittimità internazionale che garantiscono ugualmente il diritto del popolo arabo palestinese alla sovranità e all’indipendenza.” Riconoscere o no la risoluzione 181 del 19 novembre 1947: questa è la richiesta preliminare del Quartetto, senza alternative. Ma Hamas non lo farà, anche perché ben 17 stati arabi su 22 tutt’oggi si rifiutano di farlo. La strategia di abbandono unilaterale dei Territori, elaborata da Sharon, è dunque l’unico rimedio anche per ovviare all’oltranzismo di Hamas. Nel suo sviluppo essa infatti avrà due sbocchi in campo palestinese: o dividerà la dirigenza di Hamas in due o convincerà i palestinesi che vogliono una patria che devono solo toglierle il governo che le hanno incautamente assegnato.

Un'intervista a Leon De Winter sulla minaccia iraniana a sull'icapacità a farvi fronte:

Roma. “Se voi italiani aveste un arsenale atomico stoccato dentro i silos nelle vostre basi militari, sarebbe una vostra responsabilità. Lo stesso, per ipotesi, varrebbe anche nel caso di un Liechtenstein nucleare. Quando si parla di paesi ragionevoli e liberi, dove è in piedi un’autentica democrazia, non c’è un problema reale, perché le democrazie hanno solidi motivi per fidarsi le une delle altre. Ma il caso dell’Iran è di genere completamente diverso. Abbiamo a che fare con una tirannia religiosa, è un gruppo di potere che è determinato a sfruttare le risorse di una nazione intera per i propri piani”. L’olandese Leon de Winter, una delle voci più chiare della letteratura europea, riprende il discorso iniziato sabato da André Glucksmann, filosofo e saggista francese, dalle colonne del Foglio. “Gli iraniani hanno oggi le stesse evidenti ambizioni che aveva il dittatore iracheno Saddam Hussein. Estendere il proprio controllo su tutta la regione del Golfo Persico, diventare la potenza dominante e mettere le mani sulle fonti del petrolio. Il disegno di Teheran non è nuovo. E’ l’ossessione antica e ricorrente di tutti i regimi mediorientali: controllare il flusso di greggio dell’area, e quindi anche del mondo. E’ la ragione per cui Saddam ha mosso prima la sanguinosissima guerra contro l’Iran e poi ha invaso il Kuwait, con il suo sottosuolo desertico gonfio di petrolio”. Ieri, parlando dalla televisione di Teheran, è stato il comandante della Guardia rivoluzionaria iraniana, Yahya Rahim Safavi, a dire che “gli Stati Uniti devono decidersi ad accettare il ruolo dell’Iran come potenza regionale”, dopo giorni di annunci trionfalistici da parte della Repubblica islamica di test di nuovi missili e siluri. “Ci sono un paio di differenze, in peggio – spiega al Foglio de Winter – Saddam non aveva un programma segreto nucleare che va avanti da vent’anni, come i mullah, e quindi non stava mettendo da parte nessuna ‘garanzia atomica’. Nella prima guerra Roma. “Se voi italiani aveste un arsenale atomico stoccato dentro i silos nelle vostre basi militari, sarebbe una vostra responsabilità. Lo stesso, per ipotesi, varrebbe anche nel caso di un Liechtenstein nucleare. Quando si parla di paesi ragionevoli e liberi, dove è in piedi un’autentica democrazia, non c’è un problema reale, perché le democrazie hanno solidi motivi per fidarsi le une delle altre. Ma il caso dell’Iran è di genere completamente diverso. Abbiamo a che fare con una tirannia religiosa, è un gruppo di potere che è determinato a sfruttare le risorse di una nazione intera per i propri piani”. L’olandese Leon de Winter, una delle voci più chiare della letteratura europea, riprende il discorso iniziato sabato da André Glucksmann, filosofo e saggista francese, dalle colonne del Foglio. “Gli iraniani hanno oggi le stesse evidenti ambizioni che aveva il dittatore iracheno Saddam Hussein. Estendere il proprio controllo su tutta la regione del Golfo Persico, diventare la potenza dominante e mettere le mani sulle fonti del petrolio. Il disegno di Teheran non è nuovo. E’ l’ossessione antica e ricorrente di tutti i regimi mediorientali: controllare il flusso di greggio dell’area, e quindi anche del mondo. E’ la ragione per cui Saddam ha mosso prima la sanguinosissima guerra contro l’Iran e poi ha invaso il Kuwait, con il suo sottosuolo desertico gonfio di petrolio”. Ieri, parlando dalla televisione di Teheran, è stato il comandante della Guardia rivoluzionaria iraniana, Yahya Rahim Safavi, a dire che “gli Stati Uniti devono decidersi ad accettare il ruolo dell’Iran come potenza regionale”, dopo giorni di annunci trionfalistici da parte della Repubblica islamica di test di nuovi missili e siluri. “Ci sono un paio di differenze, in peggio – spiega al Foglio de Winter – Saddam non aveva un programma segreto nucleare che va avanti da vent’anni, come i mullah, e quindi non stava mettendo da parte nessuna ‘garanzia atomica’. Nella prima guerra del Golfo, i suoi soldati hanno dovuto battere in una disastrosa ritirata. Se Baghdad fosse stata in possesso di uno ‘scudo’ atomico, i paesi intervenuti a difesa del piccolo Kuwait che cosa avrebbero potuto fare? Teheran sta progettando di dotarsene. In quel momento gli equilibri cambieranno. Potrà decidere le sue mosse, e gli altri dovranno stare molto più attenti prima di potersi mettere di traverso”. “La seconda differenza sta nella qualità della classe al potere. I membri del Baath erano assetati di potere e pronti a manipolare il fervore religioso per i propri scopi, ma non erano i fanatici sciiti dell’Iran. Questi hanno una visione millenaristica, credono che la fine dei tempi sia vicina, e aspettano il fatidico ritorno del Mahdi, il dodicesimo imam. Il caos e le violenze – nella loro logica deragliata – non faranno altro che accelerare i tempi della sua venuta, e accorciare quelli della loro attesa”. A marzo Leon de Winter ha firmato l’editoriale del Wall Street Journal in cui è stata sancita definitivamente l’inettitudine dell’Europa a trattare con un regime così duro e bellicoso come è l’Iran. Gli europei – scriveva – ormai sono inermi, ripiegati su loro stessi, attenti soltanto alla misura dell’assegno che piove dal loro sistema di welfare. “I mullah devono essersela veramente spassata – dice de Winter – a seguire da Teheran le manovre diplomatiche della troika europea. Loro sono assuefatti ai rapporti di forza, il forte vince e il debole obbedisce, anzi, conoscono e seguono soltanto quel tipo di calcolo. E sono anche astuti. Se fiutano che non c’è un fronte compatto, deciso a usare le armi anche se soltanto come opzione estrema, allora sanno condurre il gioco come vogliono. Ed è quello che hanno fatto. Hanno captato che l’occidente non è disposto ad attaccare. Il risultato è che ora non abbiamo più una scelta ‘buona’, l’attacco contro le infrastrutture nucleari, e una ‘cattiva’, la rassegnazione al loro programma nucleare. Entrambe le scelte sono ‘cattive’. Se gli americani, o un’alleanza occidentale, o gli israeliani attaccassero adesso sarebbe una scelta con potenziali conseguenze catastrofiche. Ma loro, a Teheran, hanno avuto in anticipo la percezione esatta che noi non l’avremmo fatto e non eravamo nemmeno intenzionati a farlo. Invece c’è soltanto un approccio possibile con il regime di Ahmadinejad. Negoziare, esibendo allo stesso tempo la sincera volontà di usare la forza”. Ieri da Parigi Alain Finkielkraut ha ammesso che gli iraniani dispongono in Iraq di una leva di pressione efficace. “Se riescono a mobilitare gli sciiti contro l’America – ha detto al Foglio – crolla tutto”. Anche Leon de Winter vede il pericolo, ma esclude la possibilità di un accordo, seppure a muso duro, tra la Casa Bianca e i mullah. Non si può negoziare l’ingresso nel club nucleare in cambio della rinuncia a soffiare sul fuoco nelle regioni sciite. “Non funzionerà mai. La storia ci insegna che non ci si può mai fidare di una dittatura. Questi agiscono sull’impulso di motivazioni che non sono le nostre, è difficile stringere un patto per far cessare le violenze tra sciiti e sunniti, se in Iran credono e aspettano la fine dei tempi, e sono convinti anzi che sia loro compito preparare la venuta con la guerra santa. Come si può credere a un accordo?”. “C’è un’unica soluzione, una e una soltanto per risolvere la situazione generale: diminuire drasticamente la nostra dipendenza dal petrolio, in misura anche maggiore di quella auspicata dal presidente Bush. E’ la chiave di tutti i problemi. Togliamo quella rendita smisurata e svuoteremo di potere il regime di Teheran, taglieremo i finanziamenti alle madrasse pachistane in cui si insegna il fondamentalismo e il denaro di cui dispone la casa regnante saudita, in cui si annidano i sostenitori del terrorismo, e taglieremo anche i finanziamenti di al Qaida. In occidente siamo così ingenui da credere che l’espansione dell’estremismo sia dovuta a un’ideologia di riscatto vincente. C’è invece un miraggio di grande potenza alimentato a petrolio, e che ha il petrolio come fine”.

Un'analisi di Kenenth Stern, docente di Storia mediorientale e Scienze politiche all’Università Emory, Atlanta, sul mandato degli lettori israeliani ai vincitori delle ultime elezioni politiche:

I risultati delle elezioni israeliane potrebbero spingere a un’interpretazione di carattere talmudico. Nessun partito politico è riuscito a conquistare un quarto dei 120 seggi parlamentari. Senza un qualsiasi tipo di apparato politico capace di influenzare il voto, Kadima – che cinque mesi fa nemmeno esisteva – si è assicurato 29 seggi. L’uomo che ha fondato questo partito, il primo ministro Ariel Sharon, è ricoverato in coma nell’ospedale di Gerusalemme. Perché gli israeliani hanno premiato Kadima e il suo leader, Ehud Olmert? La risposta è semplice. Vogliono un leader capace di portare a termine due compiti: svincolarsi dai palestinesi e creare le condizioni per una vita più normale. Gli israeliani sono frustrati dallo stallo politico con i palestinesi; vedono con preoccupazione la possibilità di una diffusione dell’instabilità in tutta la zona; vogliono continuare a poter determinare il proprio futuro, per rendere il paese più forte e meno vulnerabile agli attacchi contro i civili. Sono giunti alla conclusione che controllare tutta la terra a occidente del fiume Giordano è controproducente per Israele come stato ebraico e democratico. Dopo due anni di Intifada e di brutali attentati, un negoziato terminato in un cul de sac, un’economia dominata da grande inquietudine e un interlocutore palestinese che vuole la distruzione di Israele, gli elettori hanno sottoscritto l’idea dell’azione unilaterale. Hanno votato per la continuità. L’opinione diffusa in Israele è questa: se Hamas vuole la separazione, può averla. Dal momento che i palestinesi hanno votato per Hamas, “se ne stiano pure a cuocere nel loro brodo”. Da un punto di vista regionale, gli israeliani temono l’incertezza politica ed economica che domina nella regione. Pur avendo un’implicita fiducia nelle loro forze militari e nei loro servizi di sicurezza, comprendono che vi sono concrete minacce provenienti dalle direzioni più diverse, come Hezbollah, la Siria, l’Iran e al Qaida. Dopo aver messo tutte le carte sul tavolo, Israele è giunto alla conclusione che deve negoziare soltanto con se stesso. In 58 anni di storia queste sono state le elezioni meno entusiasmanti. Nessuna scottante questione di politica internazionale ha infiammato gli elettori. Nessun particolare problema ha diviso Israele dal suo principale alleato, gli Stati Uniti. L’Unione europea e l’Onu si sono allineati nella protesta contro l’Iran. Nessun singolo paese europeo né tanto meno l’Ue (che per decenni avevano accolto nelle proprie braccia Arafat), dopo la vittoria di Hamas, ha espresso critiche nei confronti di Israele. Nei mesi e nei giorni che hanno preceduto le elezioni non c’è stato alcun attentato terroristico. La Giordania e l’Egitto (paesi che hanno firmato trattati di pace con Israele) raccomandavano ai palestinesi di aprirsi ai compromessi. Infine, c’era un solo leader carismatico capace di attrarre l’attenzione dell’elettorato, l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu. Ma il suo partito, il Likud, è stato sconfitto. La consueta tattica elettorale usata da Bibi – cioè impaurire gli elettori – non ha sortito alcun effetto. Altri vecchi leader di partito si sono ritirati a vita privata, altri non si sono presentati e altri hanno cambiato partito. Nuovi volti, tra cui quelli di accademici, professionisti e tecnocrati, stanno per sostituire i vecchi, ormai usurati e privi di iniziativa. Gli israeliani vogliono rinunciare a territori che costa troppo mantenere e utilizzare i soldi destinati agli insediamenti per risolvere un’innumerevole serie di problemi socioeconomici. Un tempo, dopo le elezioni, si scatenava un’accesa competizione tra i leader di partito per l’assegnazione dei ministeri della Difesa e degli Esteri; questa volta, invece, la competizione si scatenerà su quale partito si accaparrerà i ministeri dell’Interno, della Finanza e del Welfare. I problemi maggiori che Olmert dovrà risolvere non consisteranno nella formazione di una coalizione, ma nella necessità di trovare i fondi per affrontare i costi del ritiro e di questioni socioeconomiche come il sistema pensionistico, l’istruzione, il sistema dei trasporti e la protezione dell’ambiente. Il dibattito si concentrerà su questo: se i fondi non destinati alla difesa debbano essere utilizzati per migliorare le condizioni del paese o per compensare gli oltre 65 mila settlers che dovrebbero abbandonare la loro casa. Olmert cercherà di formare una coalizione che rappresenti un’ampia maggioranza parlamentare. Nei prossimi mesi, ci si può aspettare che alcuni leader politici saranno messi fuori gioco a causa della loro mediocre performance elettorale. Inevitabilmente, all’inizio buona parte dei partiti più piccoli che contano sui fondi governativi per le loro iniziative educative e di welfare sociale si uniranno alla coalizione; ma quando sarà il momento di ritirarsi dai territori, alcuni di questi partiti l’abbandoneranno. Questo non metterà in pericolo il disimpegno unilaterale. Israele non sarà persuasa a negoziare con Hamas, un gruppo terroristico che vuole la sua distruzione. Con le elezioni di mid term nel 2006 e quelle presidenziali nel 2008, è improbabile che la Casa Bianca si impegni a tracciare confini per il ritiro di Israele. Con un’Ue che diventa più grande, tanto che bisogna avere un binocolo per vedere l’altro capo del tavolo, e di fronte a pressanti questioni di economia, immigrazione e integrazione, anche un concertato intervento europeo nei negoziati israelo-palestinesi appare improbabile. In questo momento della loro storia nazionale, gli israeliani hanno scelto di consolidare la propria forza. Hanno scelto l’unilateralismo. Sharon ha lasciato a Olmert e agli israeliani un’invidiabile eredità. Arafat, invece, ha lasciato ai palestinesi esattamente l’opposto: Hamas.

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