LA STAMPA pubblica due pagine intere dedicate alla guerra di liberazione dell'Iraq. Scriviamo liberazione a ragion veduta, e non occupazione. Le dittature si sconfiggono militarmente, lo conferma l'esperienza e la storia presente. Il popolo, da solo, non ne ha la forza. Bene hanno fatto gli alleati a sconfiggere Saddam Hussein e bene faranno ad intervenire ovunque il futuro democratico dell'occidente sarà minacciato. Accanto al testo di Fiamma Nierenstein, che qui riproduciamo, una cronaca di Paolo Mastrolilli da New York, e un'analisi di Barbara Spinelli, che ripropone le abituali posizioni "pacifiste".
Ecco l'articolo di Fiamma Nirenstein:
DOPO tre anni, quelli che erano a favore e quelli che erano contro la guerra in Iraq non si sono messi affatto d’accordo. E quel breve momento nel gennaio 2005, quando otto milioni di iracheni rischiarono la vita per andare a votare, in cui sembrò che fosse ormai chiaro che anche un popolo musulmano sofferente, decimato dal peggiore dei regimi dittatoriali può con tutte le sue forze anelare alla democrazia. Dopo quel breve momento, dicevamo, ha prevalso di nuovo l’immagine insanguinata e catastrofale di un’Iraq diviso e condannato da una cupa profezia di fallimento. Anche il fatto che l’attentato alla moschea di Samarra non abbia provocato una guerra civile, come tutti erano certi che sarebbe successo, non ha prodotto buon senso. E che in Medio Oriente si sia aperta una discussione mai vista prima sulla democrazia, con concrete riforme, elezioni, rivoluzioni, non aiuta. Come se a parlare fossero solo gli scoppi delle bombe terroriste.
Ma soprattutto, quanto più si è lontani dalla percezione di cos’è il terrore oggi tanto più si è contro l’azione americana e degli alleati in Iraq. L’Iraq è parte di una guerra in cui i terroristi non sono affatto dei poveri occupati da ricchi dominatori, ma membri di un esercito mondiale dalle convinzioni invincibili, fortissimi nell’idea che la vittoria sia inevitabile, ordinata da Dio, eroica, e che l’arma del terrorismo suicida sia (e hanno ragione) micidiale. Gli USA hanno tentato una strada dopo le Twin Towers per battere un nemico che Bush ha individuato come potentissimo, distruttivo anche del nostro sistema di valori. L’Iraq è stata una guerra sperimentale e quindi carica di errori, ma ricca di significati così innovativi che chi ha voluto, l’ha letta alla rovescia, specie nel suo aspetto morale. Questo è il punto di partenza per capire l’operazione americana e anche i suoi limiti.
Ma, prima di tutto: non c’è nessuna alternativa oltre a quella di seguitare ad aiutare gli iracheni che vogliono costruire la democrazia contro il terrorismo. Esploderebbe il disprezzo, l’eccitazione pomperebbe il jihadismo, la rivoluzione culturale costituita dalla messa in circolazione nel Medio Oriente dell’idea di democrazia apparirebbe pura vanità creando rappresaglie, la Libia tornerebbe alle armi di distruzioni di massa, il Libano ricadrebbe nelle mani della Siria, la Siria ricucirebbe le falle apertesi nel suo sistema, Ahmadinejad danzerebbe intorno alla sua nuova forza nucleare... per non parlare della gioia (operativa) di Hamas, degli Hezbollah, di Al Qaeda. Se si dicesse «abbiamo sbagliato» e facessimo le valige, allora sì che il mondo islamico salterebbe per aria, aprendo senza remissione lo scontro sciita-sunnita, inaugurando una nuova fase di caccia ai democratici e alle minoranze, galvanizzandosi in Europa.
La condanna della guerra si basa anche sulle immagini insanguinate che escludono una vasta parte della realtà. Giustamente non ignoriamo le code dei giovani che vanno ad arruolarsi negli apparati di sicurezza e saltano per aria. Ma alzi una mano chi sa che da luglio al gennaio scorso le forze armate irachene hanno aggiunto alle loro truppe 22 nuovi battaglioni, che 5500 nuovi poliziotti e 2000 agenti speciali sono stati istruiti e equipaggiati, che 20 delle basi operanti della coalizione sono passati all’esercito iracheno. Le forze irachene hanno reso sicure zone prima ritenute impraticabili; città come Najaf, Mosul, Tal Afra e persino Falluja, scrive su News Week Farid Zakarja, sono molto più sicure oggi di un anno fa.
Non sappiamo neppure che nonostante tutti gli sforzi dei terroristi, il reddito pro capite si è raddoppiato dal 2003 ed è del 30 per cento più alto di quanto fosse durante la guerra, e che nel 2006 ci si aspetta che cresca de 16,8 per cento. Ci sono cinque volte le auto che c’erano al tempo di Saddam, cinque volte i telefoni, e 32 volte le connessioni in Internet. Non c’erano tv o media independenti: ora abbiamo 44 tv commerciali, 72 radiostazioni, e più di 100 giornali. Sono nate 3 mila 404 scuole, 304 costruzioni di fognature e acqua, 257 stazioni di polizia e vigili del fuoco, 149 ambulatori pubblici e ospedali. Ma questi fatti riguardano un mondo di poveri, di gente che nel nostro snobismo occidentale percepiamo come aliena alla democrazia. Preferiamo, invece, scontrarci con gli archetipi che amiamo odiare, quelli che uniscono la famiglia intellettuale europea contro l’imperialismo, per l’autodeterminazine. Bush tuttavia decise per la guerra sulla scorta di informazioni certificate dall’ONU e di un voto del Consiglio di Sicurezza che unanimente passava la risoluzione 1441. Essa chiamava Saddam a disarmare o a «fronteggiare le peggiori conseguenze».
Le armi di distruzione di massa che non si sono trovate non furono una bugia per iniziare la guerra, le scoprì l’ONU: e ora esce di nuovo, dai documenti iracheni appena consegnati al pubblico che esistono contratti di acquisto per vari materiali chimici. A tutt’oggi nessuno può negare che il trattamento usato dagli USA a Saddam abbia tagliato la proliferazioni delle armi di distruzione di massa e abbia tagliato i fondi al terrorismo. E la possibilità che le boccette di botulinus o di antrace siano state trasferite per tempo, è sempre valida.
Chi in Medio Oriente ha osservato con regolarità l’eccidio terrorista di tanti innocenti, chi conosce il mondo dei terroristi, li ascolta, li vede, sa di quanti mezzi e di quanta fede dispongono, sa che ci troviamo di fronte a una guerra in cui non c’è che un’opzione: combattere. La guerra terrorista tre anni fa si dispiegava già da più di 40 anni, sempre più ricca di vittime e spietata verso i civili. Prima delle Twin Towers c’erano già state migliaia di vittime in tutto il mondo, sugli aerei, nei luoghi di ritrovo e di preghiera di mezzo mondo dakke Filippine a Israele. Chi oggi combatte questa guerra non intende dominare il mondo e al contrario mostra speranza e rispetto per l’umanità. Fuggire porterebbe conseguenze enormi.
Riportiamo anche il pezzo di Barbara Spinelli, osservando semplicemente che si fonda su un presupposto assolutamente falso: che cioè l'offensiva terroristivca di al Qaeda sarebbe cessata o diminuita senza la guerra all'Iraq.
Falso é anche che gli Stati Uniti abbiano mentito sulle armi di distruzione di massa: anche il ministro degli Esteri francese De Villepen, oppositore della guerra, era convinto della loro esistenza.
Falso é che non vifossero legami tra il regime di Saddam Hussein e al Qaeda. L'alleanza é ora documentata da migliaia di documenti.
Ecco il testo:
DICE Sofocle in una tragedia perduta (Creusa) che «non è bello dire menzogne, ma quando la verità potrebbe portare terribile rovina, allora anche ciò che non è bello è perdonabile». Questo vale per gli individui e ancor più per la politica, dove un certo tasso di bugie, anche se non bello, è in alcune circostanze scusabile. I mali sorgono quando il tasso viene con spensierata insolenza oltrepassato. In tal caso le rovine sono ingenti: primo perché le condotte costruite su falsi smisurati si fanno incongrue al punto di impazzire; secondo perché nessuna verità detta successivamente sarà creduta. La guerra di Bush è un esempio di menzogna smisurata. Tre anni son passati da quando la statua di Saddam fu abbattuta: la dittatura era feroce, non meritava di restare in piedi. Ma le ragioni per cui una coalizione di stati invase l’Iraq e ancora vi combatte si sono perse per strada: mentire con copiosa insistenza si è rivelato distruttivo e autodistruttivo.
La falsità ingarbugliò innanzitutto gli scopi dell’invasione. Era una guerra contro le armi di distruzione di massa? Contro il terrore? Contro Saddam? Ufficialmente era la prima, poi ci si aggrappò tenacemente alla seconda, in extremis si accennò a Saddam come vero obiettivo. Ma tale era la nebulosità che ogni coerenza s’infranse, e oggi siamo scivolati in una quarta fase: l’implicazione Usa in una guerra civile etnico-religiosa. Uscire da quest’ultimo stadio è difficile perché ancora s’insiste a parlare di guerra al terrore: è la menzogna che più fatica a morire.
La menzogna continua
Eppure non mancano i fatti che rivelano come anche questo scopo sia un inganno. Un inganno cui s’aggiunge il fallimento, perché oggi siamo alle prese con una recrudescenza del terrorismo locale e mondiale anziché con il suo contenimento. In Iraq c’era una dittatura totalitaria (in questi giorni al processo di Saddam viene evocato l’eccidio nell’88 di 50-80 mila curdi: un genocidio che non scandalizzò a quel tempo Washington) ma Al Qaeda non c’era. Il partito di Saddam lo avversava. E anche adesso che Al Qaeda ha messo radici in Iraq, i suoi rapporti con gli insorti sunniti del Baath sono tesi. Se l’invasione in Iraq è war on terror, ecco i risultati: contrariamente a quel che ripete Bush, la guerra precipita («Stiamo perdendo», esordiscono i due studiosi Daniel Benjamin e Steven Simon, nel libro The Next Attack, Times Book 2005). E questo proprio perché la menzogna ha varcato la misura, oscurando più che mai la natura del conflitto.
È stato lo stesso Powell a smentire per primo l’ottimismo governativo, nel giugno 2004: invece di diminuire, gli attacchi terroristi son passati da 2.013 nel 2002 a 3.646 nel 2003. Nel 2005, i calcoli non son più pubblici ma vengono lo stesso alla luce: gli incidenti terroristi nel mondo sono triplicati rispetto al 2003 (651 attacchi e 1.907 morti nel 2004). E anche il terrorismo più cruento (bombe umane) s’è dilatato. La Rand Corporation ha calcolato che ben tre quarti di tutti gli attentati suicidi dal ‘68 si sono svolti nei 4 anni successivi all’11 settembre 2001 (David Cole, New York Review of Books, 3-3-2006)
La trappola
Ma torniamo alle menzogne, al loro effetto distruttivo e autodistruttivo. La guerra in Afghanistan ha inferto colpi gravi a Al Qaeda, che s’è ancor più dispersa nel mondo e ha trovato in Iraq una base ideale. Non c’è dunque rapporto fra le due guerre, e se la prima fu un mezzo successo la seconda è franata. Un unico obiettivo per contesti che avrebbero richiesto strategie e tattiche diverse: questa la trappola in cui è caduta Washington. Quando alle armi di distruzione di massa, la menzogna può trasformarsi in gabbia: se vorrà essere coerente, Bush dovrà intervenire in Iran - che le armi le ha davvero - e ancora una volta volta senza alcuna preparazione.
Miscela letale
Secondo Benjamin e Simon non può esserci analogia tra i due avversari che sono Saddam e il terrorismo mondiale: perché le moderne lotte anti-terrore non sono conflitti classici con Stati, e richiedono metodi diversi dall’abbattimento di un regime. Richiedono metodi fondati sulla difensiva, su azioni politiche intese ad «evitare il passaggio del cerchio esterno di simpatizzanti al nucleo interno dei capi di Al Qaeda». Bush ha invece mescolato vecchi metodi e nuove dottrine, fondate sulla guerra preventiva e la rinuncia all’imperio della legge: una miscela letale. Non ha pensato le contraddittorie imprese militari in cui s’è gettato, ed è il motivo per cui nulla fu pianificato per il dopoguerra. Risultato: l’Iraq è diventato una base terrorista, Al Qaeda si nutre di questa guerra come si nutrì della guerra sovietico-afghana, e se in America non ci sono morti, in Iraq sono alte le perdite (più di 2000 americani, oltre 20.000 iracheni).
Non avendo deciso che guerra facevano, gli americani non hanno neppure capito quale fosse il nemico. Ora l’ambasciatore Usa a Baghdad, Khalilzad, lo ammette: «Abbiamo aperto il vaso di Pandora. Le potenzialità d’una guerra civile crescono», ha detto il 6 marzo. La conseguenza è che Washington ricomincia a negoziare con il partito del despota abbattuto: con il Baath e i suoi insorti, ritenuti baluardi contro l’estremismo sunnita e sciita-iraniano (Michael Ware, Time 15 marzo 2006). Alla vigilia del conflitto, circolava su internet un filmetto di cartoni animati che prevedeva proprio quest’itinerario, nella guerra per l’esportazione della democrazia: la caduta di Saddam, un totale caos, l’odio dell’Islam mondiale per l’occidente, un gran numero di morti, e alla fine il ritorno del Baath
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