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Il Foglio Rassegna Stampa
05.04.2006 Il vicolo cieco di Hamas, la crisi di Al Fatah, la stategia dei mullah iraniani
analisi ed editoriali

Testata: Il Foglio
Data: 05 aprile 2006
Pagina: 3
Autore: la redazione - David Frum
Titolo: «Arroganza e impotenza di Hamas - A Tunisi tutti danno al Fatah per morto, anche in tv non c’è più - Finkielkraut ci dice che l’Europa oppone al jihad nucleare un vuoto d’idee - Jihad nucleare»

Un editoriale sul governo di Hamas, dannoso per i palestinesi, pubblicato dal FOGLIO di mercoledì 5 aprile 2006:

Il nuovo governo palestinese costituito da Hamas si trova in una situazione difficilissima. L’isolamento internazionale, conseguente al suo rifiuto di riconoscere gli accordi stipulati dall’Olp con Israele e di rinunciare alla violenza terroristica, si somma all’indisponibilità dell’America e alla riluttanza dell’Europa a continuare a finanziare i palestinesi. Per reagire a questa situazione Hamas aveva sostenuto che degli aiuti occidentali avrebbe potuto fare a meno, alludendo a un impegno dell’Iran a sostituirsi nel sovvenzionamento, che però finora non ha ricevuto alcuna conferma. L’Iran sciita, che pure condivide l’odiosa aspirazione di Hamas a cancellare Israele dalla carta geografica, non è detto sia disposto a finanziare un movimento integralista sunnita, anche perché una simile scelta lo metterebbe ancora di più in contrasto con la comunità internazionale già allarmata per il suo programma nucleare. Anche se il premier palestinese Ismail Haniyeh sostiene che “i nostri amici hanno promesso di colmare le necessità che si verranno a creare”, le principali banche arabe, oltre naturalmente a quelle israeliane, hanno chiesto all’Autorità nazionale palestinese di chiudere i conti correnti.
A questo punto, forse rendendosi conto degli effetti economici della rottura con l’occidente, Hamas ha rivelato di avere contatti con la Francia, che si sarebbe impegnata a lavorare a suo vantaggio all’interno dell’Unione europea. Il governo di Parigi ha smentito recisamente, il che non significa che qualche rapporto riservato non possa esserci stato, ma è evidente che la sua rivelazione pubblica sia considerata dalla Francia una specie di provocazione e di tradimento. L’arroganza di Hamas, in questo modo, mostra tutta la sua impotenza, mentre l’atteggiamento di fermezza tenuto dall’occidente, per una volta passabilmente unito, comincia a pesare. E’ un peccato che la popolazione palestinese, per colpa dei governanti che si è scelta, rischi di peggiorare ancora le sue condizioni, ma le responsabilità di questa situazione diventano sempre più evidenti.

Un'analisi sulla crisi di Al Fatah:

Tunisi. “Fatah è da mesi in uno stato di coma permanente”, dicono al Foglio i suoi militanti a Tunisi. Il movimento nazionalista – fondato dall’ex rais Yasser Arafat nel 1958- 59 – si è disgregato a causa delle divisioni interne ed è destinato a scomparire. E’ questa la sensazione che hanno i membri del partito e pure gli elettori che, nel segreto delle urne, hanno penalizzato Fatah favorendo l’ascesa di Hamas. “Arafat era come il capo di una grande tribù: ci teneva uniti e sotto il suo supremo controllo – dice al Foglio un veterano del movimento in un caffè di Tunisi – Adesso, invece, non c’è alcun leader che possa guidarci e ricostruire Fatah”. Non esiste più un unico programma politico e nemmeno una persona carismatica che unisca il partito. Ognuno è diventato il portavoce del movimento, ognuno propone opinioni e strategie diverse. C’è chi vuole continuare il processo di pace con Israele – come il presidente dell’Anp, Abu Mazen – e chi si lamenta della trasformazioni del partito da “movimento di liberazione” a “movimento per i negoziati”, come il segretario di partito, Farouq Qaddoumi. L’attentato nell’insediamento di Kedoumim, rivendicato da un gruppo fuoriuscito dal braccio armato di Fatah, è una dimostrazione della spaccatura. C’è chi vuole liberarsi definitivamente della vecchia guardia di Tunisi – come Mohammed Dahlan, leader della corrente al Mustaqbal – e chi considera ancora importante l’ordine gerarchico per anzianità. Ognuno si lascia guidare dai propri interessi politici ed economici, trascinando così, inconsapevolmente, Fatah verso la sua fine. Arafat, invece, aveva il controllo assoluto del partito e dell’Anp, le sue “creature”. I poteri amministrativi, politici e militari erano tutti sotto il suo dominio. Non era possibile disobbedire all’ex rais e chi osava farlo era licenziato o punito con la violenza. Dopo la morte di Arafat, i membri di Fatah si sono fatti inebriare dalle nuove libertà acquisite. Abu Mazen – che si definisce un vecchio democratico – non ha voluto perpetrare lo stato di dittatura del suo predecessore: ha delegato i suoi poteri ai ministeri e soprattutto ha reso possibili le prime elezioni libere nei Territori. Il nuovo presidente però non ha lo stesso carisma di Arafat. Durante le elezioni presidenziali del 2005, infatti, la popolazione non inneggiava ad Abu Mazen, ma alla memoria di “Abu Ammar” (nome di battaglia dell’ex rais). Nella delegazione palestinese di Washington, così come in altre missioni, non c’è alcuna foto appesa dell’attuale presidente, ma appare invece all’ingresso una gigantografia di Arafat sorridente con la kefiah. I membri di Fatah hanno approfittato dei diritti concessi da Abu Mazen, che non riusciva a contenere le loro ambizioni, provando in un primo momento anche ad assassinarlo. Si sono poi scissi in diverse correnti, cercando in alcuni casi un maggiore potere politico personale e in altri di riportare il movimento alla “resistenza” contro Israele. Senza riuscirci, però. La crisi interna ha, infatti, causato la sconfitta del partito alle elezioni legislative: l’insediamento di Hamas al governo ha portato alla luce le profonde divisioni di Fatah. Abu Mazen ha provato a ordinare l’unità del partito per potere ritrovare la credibilità da parte dell’elettorato, ma le sue parole sono rimaste senza seguito, e la crisi è ormai irreversibile. “Il partito deve rifondarsi, ma non sa come. Per adesso Fatah non c’è più”, dicono i membri a Tunisi. Il leader dell’Anp lo sa, per questo ha riportato in vita l’Olp, come unica opposizione politica a Hamas. Su al Jazeera Abu Mazen compare come membro dell’Olp, non più di Fatah.

Dalla prima pagina, un'intervista ad Alain Finkielkraut sulla minaccia iraniana:

Roma. Di fronte al jihad nucleare c’è innazitutto un problema di idee. Ne è convinto Alain Finkielkraut, che spera che l’Europa prenda sul serio la minaccia iraniana, ma non si fa troppe illusioni, “perché esistono grandi differenze tra le nostre opinioni pubbliche”. Lo dimostra, a suo dire, la manifestazione di protesta contro le dichiarazioni antisioniste e antisemite del presidente, Mahmoud Ahmadinejad, organizzata in novembre dal Foglio davanti alla sede dell’ambasciata d’Iran, e la scarsa eco che un’identica mobilitazione ebbe in Francia nello stesso frangente: “Mi trovavo a Firenze e assistetti a un dibattito tv tra Rutelli e Fini, i quali, pur con sfumature diverse, facevano la stessa diagnosi. In Francia, invece, il Conseil des institutions juives de France riuscì a radunare a Parigi soltanto poche persone fra l’indifferenza generale”.
L’assenza di reazione per Finkielkraut si spiega con l’irenismo misto al progressismo, miscela tipica del Vecchio continente: “L’Unione europea è nata dalla comune decisione degli stati di interrare l’ascia di guerra. Non ci combatteremo più, decretarono le nazioni europee. Siccome la guerra è sempre nata dagli stati d’Europa, ora abbiamo difficoltà a capire che avere nemici non dipende soltanto da noi”. All’irenismo s’aggiunge il progressismo, per il quale esiste un solo tipo di conflitto. “Non una guerra di civiltà – spiega Finkielkraut – ma una guerra civile internazionale, lo scontro tra dominanti e dominati”. Il progressista è uno che non ha capito l’11 settembre, “non si è accorto che quel giorno sono comparse separazioni ben più profonde. Eravamo trascinati dalla passione dell’eguaglianza, della comunicazione, ma gli aerei quel giorno si sono trasformati in armi di guerra per abbattersi contro i simboli del commercio. L’umanità si è trovata di fronte all’impenetrabilità reciproca di due comunità umane. Alcuni però continuano a vedere un’unica guerra, tra dominanti e dominati, tra impero e moltitudini, come dice Toni Negri”.

Le armi convenzionali e l’Iraq
Dal pensiero all’azione, il passaggio è obbligato, anche perché continuano i “giochi missilistici” di Teheran nel Golfo Persico, che puntano a garantire ai mullah un bel po’ di armi convenzionali, come la “nave volante” festeggiata ieri. Ma “anche in termini di azione, l’occidente è sguarnito – dice Finkielkraut – Un certo numero di europei vorrebbe spiegare agli americani che in ogni caso con l’Iran è meglio mantenere i contatti. L’ambasciatore americano all’Onu, John Bolton, ha risposto: ‘We don’t do carrot’. Ma è possibile una politica del bastone?”. Le implicazioni sono tante. Ci sono gli ispettori dell’Agenzia atomica che, da venerdì, torneranno in Iran per controllare che cosa succede nei siti più pericolosi, a Natanz per esempio. La diplomazia prende una boccata d’aria, ma i fronti si ampliano, come quello iracheno, nel quale l’Iran vuole giocare la sua parte, con o senza un accordo con la Casa Bianca. “Gli iraniani, con l’Iraq, dispongono di uno strumento di pressione reale. Se riescono a mobilitare gli sciiti contro l’America, crolla tutto”, ammette Finkielkraut. Ma per un ebreo francese come lui, polacco d’origine e da sempre vissuto nella diaspora, l’idea più perniciosa è un’altra. “E’ l’egualitarismo terzomondista che non intende stabilire differenze tra gli stati e sostiene che siccome Israele ha l’arma nucleare, non si vede perché si dovrebbe impedire di averla all’Iran. Non esistono stati canaglia, stati ideologici. O l’atomica non ce l’ha nessuno o, se ce l’ha qualcuno, allora possono averla tutti”.
La contabilità del club nucleare ammalia la diplomazia, soprattutto quella europea: “Se ammetti che Israele possa avere l’atomica e l’Iran no, vieni subito tacciato di razzismo, almeno in Francia. In tutta Europa ci sono forze ideologiche in grado di annullare lo scandalo che la prospettiva di un Iran nuclearizzato rappresenta”. La minaccia del jihad nucleare è interna all’Europa: “E’ l’applicazione automatica di un ideale democratico, dove ci si rifiuta di stabilire differenze tra gli uni e gli altri, in nome dell’eguaglianza di ogni essere umano”.
Quanto ai “pragmatici” che terrebbero in scacco Ahmadinejad, Finkielkraut è sferzante: “Anche di Breznev si diceva che era meno pericoloso dei suoi generali. Ogni totalitarismo ha la sua cremlinologia. Il dramma è che la memoria della Shoah, un tempo acqua da gettare sul fuoco dell’antisemitismo, ora è l’olio per riattizzarlo. Quello che a Teheran predica Ahmadinejad in Francia lo ripete, da estrema sinistra, un comico con ambizioni presidenziali come Dieudonné”.

A pagina 2, un analisi di David Frum:

Provate a supporre di essere un folle mullah iraniano deciso a procurarsi armi nucleari il prima possibile. Vi mettereste a vantarvi, insuperbirvi e schernire l’occidente prima di avere raggiunto l’obiettivo? Oppure ve ne stareste zitti e tranquilli, negando tutto fino al momento di avere la bomba nelle proprie mani? La scelta sembra ovvia, vero? E invece gli iraniani scelgono costantemente la prima opzione, con tutto il rischio di provocare un attacco aereo contro un programma nucleare al quale danno certamente un grande valore. Perché? Ci sono tre possibili spiegazioni. Primo: gli iraniani hanno talmente fiducia nell’efficacia dei loro sistemi difensivi che ritengono di poter sconfiggere o neutralizzare un attacco aereo alleato. Questa settimana, per esempio, hanno annunciato di avere ottenuto un potente nuovo siluro da un paese non nominato (presumibilmente la Russia), facendo capire che l’Iran, se attaccato dall’aria, potrebbe cercare di chiudere lo Stretto di Hormuz. Ma gli iraniani possono davvero essere convinti di poter infliggere più danni agli Stati Uniti di quanto questi ultimi ne possano infliggere a loro? Si vantano della potenza dei loro siluri, fino a spingerla all’assurdo. Dicono che questi siluri potrebbero essere usati per attaccare “gruppi di navi da guerra”, ma soltanto un’arma nucleare sarebbe in grado di farlo, e neppure i russi sarebbero disposti a vendere agli iraniani un’arma del genere. In ogni caso, quanto più diventasse violento e duro un conflitto con gli Stati Uniti tanto maggiore sarebbe la certezza di una sconfitta iraniana. Forse l’Iran può riuscire a creare ancora maggior caos in Iraq di quanto ne stia già provocando ora (benché potrebbe avere già raggiunto il suo limite massimo). Forse potrebbe far aumentare il prezzo del petrolio. Ma gli Stati Uniti possono annientare le fondamenta della potenza militare iraniana e la forza repressiva dello stato. Sembra davvero uno scambio che nemmeno il più apocalittico dei mullah sarebbe disposto a fare. Secondo: gli iraniani credono che la volontà degli americani sia stata talmente indebolita dalla situazione irachena che gli Stati Uniti non oseranno attaccarli, malgrado la loro superiorità militare. Senza dubbio, gli iraniani hanno spesso dichiarato di esserne convinti. Nel agosto 2005, il neo eletto presidente Mahmoud Ahmadinejad ha inviato al Parlamento un documento politico nel quale si definiva l’Iran una potenza “in ascesa” e l’America una potenza “al tramonto” e “agonizzante”. Ma, anche in questo caso, perché affrettare un confronto con la potenza in declino prima di poterla affrontare ad armi pari? Quali che siano le fantasie che possa nutrire sulla situazione del mondo fra dieci, venti o trent’anni, anche Ahmadinejad comprende perfettamente che se il conflitto scoppiasse domani l’esito sarebbe, per usare un eufemismo, sfavorevole all’Iran. Il momento di tentare qualcosa di nuovo Il che ci lascia alla terza possibilità: i mullah non vogliono la guerra, ma vogliono questo scontro. Per qualche ragione, ritengono di trarre vantaggio da negoziati prolungati, polemici e infruttuosi con l’occidente. Se le cose stanno così, dobbiamo domandarci se questi infiniti negoziati abbiano davvero qualche utilità per l’occidente. Non stiamo invece dando ai leader iraniani tutti i benefici politici interni dell’intransigenza e dell’estremismo, senza che questo gli costi nulla? C’è qualche motivo concreto per pensare che il popolo iraniano accoglierebbe volentieri una crisi, con tutti i suoi dolori e pericoli? Ci viene spesso detto che, nel caso di una simile crisi, il popolo iraniano si schiererebbe al fianco dei suoi leader corrotti e oppressori; ma in realtà ci sono ben poche prove a sostenere questa tesi e molte invece che dimostrano il contrario. Ciò che sappiamo con certezza è che la situazione attuale va benissimo per i leader iraniani. Si avvicinano sempre più alla bomba e rafforzano l’immagine della propria fermezza di fronte alle forze più radicali presenti nel paese. Questa situazione, però, non funziona affatto per l’occidente. Stiamo guardando l’Iran muoversi rapidamente verso la nuclearizzazione e la nostra indecisione non serve certo a crearci nuovi amici. Non è forse giunto il momento di tentare qualcosa di nuovo?  (traduzione di Aldo Piccato)

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