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Una tromba nello uadi – Sami Michael Edizioni Giuntina Un vecchio egiziano dagli occhi verdi, finito chissà come in un ghetto arabo di Haifa, in Israele. Il suo disincanto ha dilavato ormai ogni rancore, ed è divenuto antico, come il profilo del mare che respira davanti alla città. Ancora vigoroso nonostante i suoi ottant’ani, nonno Elias accoglie il lettore alla prima pagina, con uno spunto di saggezza minimale che lascia indovinare la nota dominante del libro: “Le piccole seccature sono un dono divino per i disgraziati”. Il romanzo “Una tromba nello uadi” di Sami Michael è una cronaca di sconfitti, scritta col tono lieve di un divertissement. Gli eventi davvero tragici sono pochi, eppure il succedersi di piccole crudeltà, disegnate in punta di penna, trasmette un senso generale d’ingiustizia e rammarico. Certo è che i protagonisti vivono con impegno il loro destino di vinti, lo combattono con energia, e con altrettanta energia si fanno reciprocamente male e, talvolta, bene. Michael è scrittore ebreo di origine irachena, nato a Baghdad nel 1926. All’ambiente della sua giovinezza deve la capacità d’immedesimarsi in un’opera quasi impossibile, ovvero nella resa delle frustrazioni e delle speranze di una famiglia araba. Accanto al nonno Elias si affaccenda la nuora, una vedova sfiorita, chiusa nel rimpianto di una passata prosperità, che la nascita dello Stato di Israele ha sbriciolato. Poi le due nipoti, attratte dalla moderna libertà sociale, eppure incapaci di sottrarsi alla stretta della tradizione. Da una parte il mondo degli israeliani, ostile ma pur allettante, dall’altra i tenaci vincoli tribali, e i villaggi palestinesi in cui rifugiarsi, per poi volerne fuggire il prima possibile. Per le ragazze, il rituale millenario del matrimonio è scopo di vita e assieme suggello di una condizione succube. “Gli sposalizi stipulati all’antica sono come una battaglia” si ripete Mary, la sorella più avvenente e corteggiata.Ed è forse per questo che molti passi del libro hanno il piglio di un torneo, cavalleresco e violento. Un immigrato russo, miope e muscoloso, impacciato di parole ma forte di una sua ostinazione, riesce a sconvolgere la trama di fatale infelicità del microcosmo arabo di Haifa. Alex è approdato controvoglia in uno Stato ebraico che lo tratta con sufficienza. La sua figura silenziosa e un poco opaca fa risaltare l’inquietudine di Huda, ragazza bruttina, che sarebbe destinata a restare zitella, ma che di lui s’innamora. Per una curiosa ironia artistica, allo scrittore israeliano riesce forse più difficile dare rilievo alla malinconia nordica di Alex che non alla vitalità della giovane araba, che trascolora continuamente di gioia in tristezza. La passione ricambiata pare a molti un pericoloso sconfinamento tra le barriere dell’odio politico. Tuttavia, nelle pieghe del quotidiano esisterebbe forse la possibilità di comprendersi, sennonché – come ammonisce nonno Elias – “Satana riesce a far aceto marcio del vino dolce di Dio”. Sami Michael non ha voluto interpretare l’epos collettivo d’Israele, ma piuttosto si è spostato ai margini di una storia ebraica e araba condivisa nell’amarezza, per trarne linfa espressiva. Tra la facilità dello stile e la serietà delle intenzioni si avverte talvolta una certa tensione sperimentale. Se non fosse per la prosa disinvolta, che mette al riparo da qualsiasi intemperanza ideologica, verrebbe da evocare, con un po’ di nostalgia, la vecchia definizione di “letteratura impegnata”. Giulio Busi Il Sole 24 Ore |
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