Famiglia Cristiana nel numero on line del 2 aprile pubblica un’intervista di Saverio Gaeta allo scrittore israeliano David Grossman, intitolata “Due popoli una terra”
Lo scrittore è in Italia per ricevere il premio internazionale Grinzane- Terra d’Otranto e nell’intervista che riportiamo analizza i temi della pace, del dialogo, del collaborazione e del riconoscimento reciproco.
Purtroppo la visione ottimistica di Grossman, condivisibile nella sua essenza, si scontra con l’attuale situazione politica che vede Hamas, una formazione terroristica che non riconosce Israele e ne proclama la distruzione al governo dell’ANP e con i numerosi attentati che quotidianamente i servizi di sicurezza israeliani riescono a sventare.
La cessazione di ogni forma di terrorismo e il riconoscimento all’esistenza di Israele sono i primi passi affinché il processo di pace si concretizzi e non rimanga una semplice utopia.
Ecco il testo:
«Continuiamo a logorarci, ma la soluzione non può essere che la convivenza. Ci vogliono due leader coraggiosi, che siano capaci di portare ambedue le parti verso l’accordo».
In Terra Santa «in questo momento non esiste né pace, né un reale processo in tale direzione. Ed è una cosa terribile». È netta la posizione dello scrittore David Grossman, pur se temperata dalla consueta dose di speranza che lo ha reso uno degli intellettuali israeliani più lucidi e ascoltati, anche in Italia. Del resto, l’occasione per questa intervista è uno spiraglio di ottimismo: il premio internazionale Grinzane-Terra d’Otranto sui temi del dialogo, della tolleranza, della solidarietà e dell’integrazione.
Insieme con il vescovo Vincenzo Paglia, premiato in quanto ispiratore e animatore della Comunità di Sant’Egidio, il riconoscimento è stato quest’anno assegnato proprio a Grossman, con una motivazione priva di ombre: «In una situazione che appare senza sbocchi, i suoi scritti cercano di indicare ad arabi ed ebrei quella che sembra essere l’unica strada percorribile per raggiungere la pace: il dialogo, l’incontro, il riconoscimento del diritto dell’altro».
Con la radicalizzazione estremistica che in queste ultime settimane ha visto in Palestina la vittoria di Hamas (il movimento che intende creare un territorio islamico dove non ci sia spazio per Israele), e in quest’ultima nazione il successo del neonato partito-contenitore Kadima (nel cui programma è esplicito l’obiettivo di stabilire i confini definitivi dello Stato), non appare facile trovare una via d’uscita.
«Ovviamente», conferma Grossman, «io stesso intravedo una notevole distanza fra le mie speranze e le aspettative realistiche, a riguardo del futuro nei rapporti fra israeliani e palestinesi. Ambedue le parti in causa mostrano di non vedere possibilità concrete di pacificazione. Ed è proprio questo il motivo per il quale si stanno manifestando spinte ideologiche unilaterali, con la vittoria dei raggruppamenti focalizzati sulle proprie rivendicazioni più che sull’ascolto delle ragioni altrui».
- Ma lei vede davvero la possibilità di una cooperazione fra gli Stati di Israele e della Palestina?
«Ne sono assolutamente convinto. I due popoli potrebbero collaborare in un modo molto produttivo, perché fra loro vi sono più similarità che differenze. Io ho potuto sperimentarlo direttamente vivendo per un certo periodo a diretto contatto con alcune famiglie palestinesi. È davvero una vergogna come continuiamo a logorarci quando è evidente per chiunque che la soluzione non può essere la distruzione dell’uno o dell’altro o l’occupazione forzata di alcune aree. Ci vogliono due leader coraggiosi, capaci di portare ambedue le parti verso l’accordo. Ma in una situazione di violenza com’è quella attuale, la gente vota invece nella direzione opposta, chiamando al governo dei guerrieri e non degli uomini di pace».
- Quale può essere oggi il più adeguato punto di partenza?
«Credo che il miglior piano messo in campo finora sia "l’accordo di Ginevra", siglato il 1° dicembre 2003, nel quale si prevede la creazione di un confine definito in modo da definire l’identità precisa dei due Stati e dei loro abitanti. Un confine, però, lungo il quale ci siano molti varchi di passaggio. Abbiamo davvero bisogno di una svolta del genere. Anche la questione del muro in tal caso verrebbe risolta rapidamente, perché in gran parte si tratta soltanto di una recinzione, che può essere tolta senza difficoltà».
- Lei intravede il rischio che il conflitto travalichi anche nella dimensione religiosa?
«Il tentativo da parte di qualcuno è ben presente, ma nel contempo da più parti stiamo cercando di prevenire che il fanatismo religioso riesca a crearsi ulteriori spazi. Per questo sono molto utili le parole e i gesti che sta compiendo papa Benedetto XVI, per esempio incontrando il presidente egiziano Mubarak o i membri dell’American Jewish Committee. La principale necessità odierna è infatti che ci si parli non in termini assoluti, bensì in termini dialogici, che permettano concessioni reciproche. E poi ambedue i governi devono essere più capaci di costruire una società migliore, investendo in educazione, nell’assistenza sociale, nella protezione ambientale».