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La Repubblica Rassegna Stampa
30.03.2006 Sandro Viola cambia idea su Olmert e sul disimpegno unilaterale, ma continua a pensare che Israele abbia tutte le colpe
passate e future

Testata: La Repubblica
Data: 30 marzo 2006
Pagina: 1
Autore: Sandro Viola
Titolo: «Troppi partiti, pace a rischio»

Il risultato elettorale inferiore alle aspettative di Kadima ha trasformato, agli occhi du Sandro Viola, il suo leader  Ehud Olmert da intrigante politico corrotto in leader responsabile all'interno di una politica israeliana sguaiata e litigiosa.
Il governo di coalizione imperniato su  Kadima, Viola lo dà praticamente per certo, durerà poco.
Con esso fallirà probabilmente anche la politica di disimpegno unilaterale.
Anche su di essa il nostro ha radicalmente cambiato opinione: ora che ne intravede la sconfitta non é più un rischio e un segno di chiusura ai negoziati (non importa con chi e a quali condizioni) , ma una possibilità che però, plausibilmente Israele sprecherà.
C'é da rimanere sconcertati: Viola nel giro di una settimana sostiene una tesi e il suo esatto contrario, tenendo ferma soltanto un'incrollabile certezza: Israele ha e avrà tutte le colpe.
Certezza corroborata dalle presunte opinioni dei suoi spesso anonimi interlocutori e dall'autodenuncia di una immaginaria classe intellettuale israeliana pronta persino a farsi persuadere Stephen Walt e John Mearsheimer, i due  accademici  che hanno sostenuto che la politica americana sarebbe asservita, per opera della lobby ebraica, agli interessi di Israele.
Nell'Israele reale, però,  il  quotidiano di sinistra Ha'aretz ha definito il saggio "I protocolli di Harvard e Chicago", con riferimento al falso antisemita "I Protoccolli dei Savi Anziani di Sion".
Ecco l'articolo:

Tra quante ne conosco, la vita politica israeliana è quella che più somiglia alla vita politica in Italia. Preferisco non fare nomi, ma i personaggi che ho visto in queste sere, prima e dopo le elezioni, sui teleschermi d´Israele, sembravano venuti direttamente dai nostri canali televisivi. Logorrea, demagogia, litigiosità
Cocenti accuse reciproche piuttosto che esposizione dei programmi. Vene del collo turgide, bocche distorte, diti puntati. Ma su questo sfondo così concitato e rumoroso, ho anche visto affiorare, nell´ultimo paio di giorni, uno "stile Olmert". Lo stile, o per meglio dire la misura, del successore di Ariel Sharon, l´Ehud Olmert che sta per diventare primo ministro d´Israele.
Di Olmert, il pubblico internazionale sa ormai quasi tutto. Che è un uomo molto ricco sempre vestito correttamente di scuro, fumatore di costosi sigari cubani, e uso a muoversi assai più tra le quinte che non sul proscenio. Ma nella notte elettorale Olmert ha mostrato ancor meglio il suo modo d´essere, la sua diversità rispetto al contesto del mondo politico israeliano. Le cose gli erano andate male, nelle urne. Il suo partito, Kadima, s´aspettava infatti 34-35 seggi parlamentari, e a conti ultimati ne ha ottenuti invece 28. Tuttavia, la sua comparsa all´una di notte nella sede del partito ha avuto una scioltezza, una tranquillità, un decoro sorprendenti.
In più, il suo discorso è stato molto convincente. Ha ribadito il suo programma di ritiri progressivi dai Territori occupati, ha rivolto parole misurate, e tutto sommato incoraggianti, ai palestinesi. S´è soffermato a lungo sulla necessità d´una politica sociale che serva a migliorare le condizioni degli strati più poveri (c´è molta povertà, in Israele), s´è detto pronto a collaborare con gli Stati Uniti e l´Europa nella ricerca della soluzione al conflitto in Palestina. Insomma, ha fatto un´ottima impressione. Ha fatto pensare che potrebbe essere un buon primo ministro, l´uomo esperto, di poche parole ma con le idee ben chiare, che mancava alla politica israeliana.
Peccato, quindi, che la maggior parte degli analisti politici di qui preveda che il suo governo non avrà una lunga vita. Peccato, perché mai come adesso c´era stata nel Parlamento israeliano, la Knesseth, un numero tanto alto di deputati favorevoli al ritiro dalla maggior parte delle colonie della Cisgiordania, e dunque alla fine dell´occupazione. Una sessantina almeno, la metà di tutti i seggi. Una Knesseth, quindi, pronta ad appoggiare l´uscita degli israeliani dalla Palestina occupata, dando così voce alla maggioranza che s´è andata formando nel paese. Una maggioranza che nel voto si è divisa, ma i cui umori e tendenze sono ormai chiarissimi. Basta con le colonie e i coloni, basta con lo spreco di risorse cui costringe l´occupazione. Tutti a casa. Tutti al riparo del Muro, il Muro che ha ridotto di dieci-dodici volte almeno il numero degli attentati terroristici, e che quando sarà ultimato potrebbe ridurli ulteriormente.
Perché allora, con una maggioranza in Parlamento e una nella società, Olmert non dovrebbe riuscire a varare il suo piano di ritiri unilaterali dalla Cisgiordania? L´ho chiesto telefonandogli a Tel Aviv, al professore Ephraim Yaar, sociologo delle motivazioni elettorali e sondaggista. E Yaar mi ha detto: «Perché Kadima ha preso troppi pochi seggi. La caratteristica di queste elezioni è stata infatti il declino dei grandi partiti, che tutti e tre insieme non raggiungono neppure la metà dei seggi in Parlamento. Dei due vecchi partiti, il Likud e il Labor, il primo è infatti addirittura imploso, mentre il Labor s´è in parte salvato ma resta molto al di sotto delle sue rappresentanze parlamentari d´un tempo. Quanto al partito nuovo, Kadima, ha ottenuto sì il maggior numero di seggi, ma non sufficienti a dargli il peso sufficiente ad avviare una svolta politica decisiva….».
«Si sono invece notevolmente rafforzati - diceva ancora Yaar - i partiti minori. I Pensionati, il partito sciovinista e antiarabo di Lieberman, quello dei religiosi sefarditi e il Prn-Unità nazionale, che rappresenta i coloni. Il risultato è quindi una forte frammentazione degli interessi rappresentati dai partiti politici, una prevedibile pressione di questi interessi sul bilancio del governo, e non solo da parte dei partiti che entreranno nella coalizione ma anche di quelli che ne saranno fuori. Concludendo, il governo Olmert avrà una vita difficile, comincerà presto a zoppicare, e il piano dei ritiri unilaterali – che tra l´altro è molto costoso – rischia perciò di rimanere sulla carta o quasi. E a quel punto bisognerà indire nuove elezioni».
E´ quel che dicono in molti, se non addirittura tutti, qui a Gerusalemme. Ed è un peccato, ripeto, se si conviene sul fatto che la politica dei ritiri unilaterali contrasta – è vero – con le regole del diritto internazionale, può esacerbare ancor più di quanto non siano già esacerbati, i palestinesi, ma potrebbe dopo tutto rivelarsi una dinamica virtuosa, una rottura dell´immobilismo, una breccia da cui giungere a un regolamento del conflitto. E Olmert potrebbe, se non l´ostacolassero la vischiosità del sistema politico e la frammentazione di cui parla il professor Yaar, procedere col suo programma ed evacuare in due o tre anni una grossa parte dei territori.
Perché il clima è cambiato, ultimamente, in Israele. La questione della sicurezza e della risposta militare alla rivolta palestinese, non è più per gli israeliani, com´era dalla seconda Intifada nel 2000, la questione centrale. Oltre che a indurli a volgere le spalle alle colonie e ai coloni, il Muro è servito infatti anche a questo: a far riemergere i problemi d´ogni altra società, i salari, le pensioni, la disoccupazione, la scuola. E´ vero, i coloni non si danno per vinti. Il partito che li rappresenta in modo più diretto, l´Unione nazionale-Pnr, è persino aumentato d´un seggio. Ma mi diceva un amico: «I coloni sono oggi quel che eravamo noi, i pacifisti, vent´anni fa. Convinti delle loro ragioni, pronti a sfidare l´ "establishment", ma isolati. Un gruppo minoritario che sente d´avere contro la maggioranza del paese».
Se le previsione di chi intravede nuove elezioni a breve dovessero risultare infondate, se il suo governo durerà invece i quattro anni della legislatura, Olmert potrebbe consolidare il cambio che s´è profilato nella società d´Israele. Anche perché Olmert avverte la stanchezza dell´Occidente – dell´Europa ma anche degli Stati Uniti – nei riguardi di quest´interminabile, raccapricciante conflitto. James Wolfenshon, ex presidente della Banca Mondiale e inviato del Quartetto in Palestina, ha detto qualche giorno prima delle elezioni una frase che qui ha molto impressionato: «Avete fatto di tutto per mantenere ad ogni costo la centralità di questo conflitto, così da renderlo la maggiore crisi mondiale». Come dire che gli uni e gli altri, i palestinesi e gli israeliani, hanno avuto un interesse a non affrontarne la soluzione.
E una forte eco l´ha avuta anche lo studio di due docenti americani, Stephen Walt di Harvard e John Mearsheimer dell´università di Chicago, secondo cui la politica di Washington nella regione è stata per troppo tempo subordinata agli interessi d´Israele, compresa l´invasione dell´Iraq. Lo studio è fitto d´esagerazioni, ma come ha scritto uno storico israeliano, Tom Segev, è vero che l´avallo dato dal governo americano ad ogni fase della condotta d´Israele nei confronti dei palestinesi, ha contribuito al proliferare delle colonie ebraiche e al perdurare dell´occupazione.
Il fatto è che adesso anche il rapporto tra l´America e Israele è destinato a modificarsi. Un uomo avvertito come Ehud Olmert lo sa. Sa che un primo ministro israeliano non può più fare, come in passato, quel che gli pare. Ed è anche per questo che sarebbe meglio se lo strepitante serraglio del mondo politico israeliano lo lasciasse lavorare.

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