Il programma politico di Avigdor Lieberman intervistato da Fiamma Nirenstein
Testata: La Stampa Data: 30 marzo 2006 Pagina: 9 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «Avigdor, il falco russo che ha scosso Israele»
Fiamma Nirenstein intervista Avigdor Lieberman, leader di Israel Beitenu, divenuto nelle ultime elezioni il quarto partito israeliano. Ecco il testo:
E’ una dacia di legno su una delle montagne ornate di pini che circondano Gerusalemme, sembra un pò il Caucaso, forse. Quasi si fosse cercato l’ambiente più psicologicamente confortevole, Avigdor Lieberman si è trovato nel residence di Yad ha Shmonà per il giorno del trionfo il rifugio più consono a un cuore russo che ha portato alla Knesset 12 deputati. Israel Beitenu, letteralmente Israele casa nostra, partito di immigrati russi scontenti di tutto e di tutti, soprattutto del Likud dal quale venivano, ne aveva solo tre. Adesso, è il quarto partito e la prima grossa formazione della destra nazionalista, dopo che Netanyahu, a suo tempo mentore di Lieberman, ha guidato il Likud alla sconfitta. Lieberman, 48 anni, lo scoviamo in collina, grande e grosso, guardingo, parco di sorrisi, circondato da un gruppo bohemienne di politici russi con le toppe sui gomiti ma anche sulle ginocchia dei pantaloni di vellutino a coste; lo rincorre tutto il tempo con un’importante chiamata sul telefonino qualche bionda e fervente Irena o Galina con le unghie rosse, più femminile di un’israeliana sabre, con i segni della fatica negli occhi azzurri bistrati. Lo slogan elettorale di Lieberman era sfacciato da quanto era russo, rivolto ai suoi fratelli immigrati e scontenti, più di un milione di persone. Diceva: «Olmert? Niet! Peretz? Niet! Netanyahu? Niet!» E alla fine, cosa diceva alla domanda «Lieberman?». Indovinato, diceva proprio «Da!». Lieberman a Yad ha Shmona, sala riunioni e tavola calda insieme, con l’aria di essere il miglior posto in offerta a quella cifra, siede riunito con un gruppetto di amici. Quasi tutti sono venuti con la grande immigrazione del 1990, quando più di 600mila russi lasciarono l’ex Urss, che aveva tenuti chiusi i battenti salvo che per qualche valoroso refusenik fra il ‘68 e l’86. L’accoglienza israeliana non è stata fantastica: «Quanti pianisti o ballerine si sono trovate a fare gli spazzini e le cassiere al supermarket, una vera catastrofe intellettuale e umana», dice Sofia Landner, immigrata nel ‘79, il rossetto rosa confetto, due figli, marito dentista, per alcuni anni laburista e oggi finalmente approdata a un partito e a un leader che che le appare «risolutivo per tutta Israele, non solo per i russi». Lieberman, immigrato da 28 anni, sta al telefono con la Bbc di Mosca. Il suo portavoce Mark Kofliasky, camicia di lana a scacchi celesti, capelli lunghi, occhi spiritati dal romanticismo e dalla soddisfazione dice: «Saremo la voce dell’Israele che non si piega; lui è forte, sa, quando uno è cresciuto nello stalinismo sa come avere a che fare col mondo». «Lui» finalmente si libera, mi pianta in faccia uno sguardo rotondo azzurro porcellana e risponde alla accusa che girano. Dicono che lei sia razzista, che vuole buttare fuori gli arabi israeliani e chiede in cambio porzioni della Cisgiordania. «Non voglio buttare fuori nessuno dalla sua casa. Il mio piano è soltanto quello dello spostamento di confini così da consentire a ciascuno di vivere a casa sua. Che gli arabi israeliani appartengano anche di fatto alla loro nazione palestinese e gli ebrei alla nazione ebraica, così da evitare il conflitto e l’anomalia. Immagini che gli ebrei francesi invece di festeggiare ogni ricorrenza nazionale del loro Paese con orgoglio, mettessero il lutto quando si ricorda la presa della Bastiglia. Bene, da noi una minoranza enorme, il 20%, mette il lutto e bandiere nere quando è si celebra l’Indipendenza, desidera la nostra sparizione, chiama Nakba, disastro, la nascita dello Stato in cui vive. Penso semplicemente che questo non sia giusto: quindi, occorre ridisegnare i confini senza spostare nessuno: che ognuno sia parte del suo popolo e del suo mondo». Gli arabi israeliani non ci pensano nemmeno? «E’ un’idea ancora da discutere, da elaborare con gli interessati, ma ha una sua logica che infatti ha conquistato tanti elettori». Comunque, esclude la scelta centrale di Ehud Olmert, del ritiro da parte della Cisgiordania unilateralmente o con trattativa, se i palestinesi ci stanno? «Non voglio sentir parlare di abbandono della Cisgiordania senza contraccambio. Sarebbe una follia». Allora esclude una sua partecipazione al governo? «Questo governo non ha ancora delineato il suo programma, Kadima, Meretz e laburisti insieme non arrivano a 60 mandati... una forza come la nostra può cambiare tante cose». Allora vorrebbe entrare nel governo? «Non ho affatto detto questo. Ma voglio ribadire che la linea dello scambio è l’unica interessante per noi». Se vuole scambiare, ovvero trattare, vuol dire che è pronto a parlare con Hamas? «Non mi interessa scambiarci nemmeno una parola. Io voglio parlare con il Quartetto, con la Giordania e con l’Egitto. Mi basta discutere con loro; che siano le forze più credibili a fare da garanti e rappresentanti dei palestinesi». Pensa di diventare il leader della destra al posto di Netanyahu? «A Netanyahu non ho fatto niente. Noi abbiamo una piattaforma sulla demografia e sulla lotta al crimine, di cui non abbiamo parlato. Il Likud deve guardare ai suoi problemi interni, e non dare la colpa a nessuno. Noi siamo certi che rappresentiamo la leadership della destra più attuale, che saremo la forza leader della contrapposizione allo sgombero unilaterale della Cisgiordania, e che alle prossime elezioni saremo il partito di governo». In lingua russa? «I russi sono solo il 54% della nostra forza, ricordi che Israele è il solo Paese del mondo in cui gli immigrati sono la maggioranza. Siamo un’unione di popoli diversi, e di idee diverse». Vuole essere più popolare di Sharon? «Nessuno è come lui... ma saremo il primo partito».
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