Dalla prima pagina del FOGLIO di giovedì 30 marzo 2006:
Gerusalemme. “E’ arrivato il momento di agire”, ha detto il premier israeliano in carica, Ehud Olmert, martedì notte, nel suo discorso di celebrazione della vittoria alle urne. Il suo partito, Kadima, ha ottenuto 28 seggi alla Knesset, il Parlamento israeliano. Il secondo movimento del paese è Avoda, i laburisti, con 20 seggi. Lo storico partito della destra israeliana, il Likud, è caduto al quarto posto, 11 seggi, superato dai religiosi ultraortodossi dello Shas, 13, e dal fenomeno Avigdor Lieberman, che con il suo Israel Beiteinu ha conquistato 12 seggi, affascinando il forte elettorato russo. In molti, tra analisti e commentatori, hanno definito questo voto un referendum su futuri ritiri unilaterali da territori palestinesi, promessi dalla piattaforma di Kadima. “Nei prossimi tempi fisseremo i confini dello stato d’Israele, uno stato ebraico, con una maggioranza ebrea”, ha detto il premier.
La campagna elettorale che ha preceduto il voto è stata diversa in tono e modi da quelle passate. L’atmosfera nel paese è cambiata. Israele non è più sotto fuoco. Il numero degli attentati è diminuito (ieri ne è stato sventato uno: kamikaze fermato con dieci chili di esplosivo), grazie alla costruzione della barriera difensiva e a una dura politica nazionale incentrata sulla sicurezza e, in seguito al ritiro dalla Striscia di Gaza, voluto e portato a termine dal primo ministro, oggi in coma, Ariel Sharon, la popolazione sembra sentirsi più rilassata, sembra aver interiorizzato il concetto di unilateralismo introdotto in estate dal leader, e aver accettato l’impossibilità, almeno per un lungo periodo, di scendere a trattative con la controparte palestinese. Soprattutto ora che al potere c’è Hamas, movimento che non riconosce l’esistenza d’Israele.
La popolazione, come ha detto Olmert nel suo discorso, sembra aver compreso la fine del sogno della sinistra, pace e negoziati, e della destra storica, che si rifiuta di lasciare la terra. Al Foglio, Uri Reichman, presidente uscente del Centro Interdisciplinare di Herzliya, tra i fondatori del partito laico Shinui, e candidato a ministro dell’Educazione per Kadima, ha detto che “i cittadini hanno capito che la decisione sui territori di Giudea e Samaria è già stata presa. Non c’è altra maniera: per preservare uno stato ebraico a maggioranza ebrea ci saranno altri ritiri. Il dibattito sul disimpegno e sulle trattative non esiste più. Tutti vorremmo una pace negoziata, ma se non arriva tutti siamo d’accordo sul ritiro unilaterale. La vasta maggioranza ha accettato questo concetto”. E forse, dice, è un po’ anche per questo che l’astensionismo è stato alto: il tasso più significativo della storia del paese, il 63,2 per cento. La consapevolezza di cui parla Reichman ha creato una sorta d’atmosfera di normalità, in Israele, in cui non si pensa alla pace, ma sicuramente si pensa molto poco alla guerra. “Nessuno vede il processo di pace vicino – ammette con il Foglio il colonnello Othniel Schneller, candidato di Kadima ed ex segretario dello Yesha Council, l’associazione dei settler – vogliamo vivere in pace. Siamo esseri umani normali, vogliamo sentirci sicuri. Le persone vogliono sentirsi normali”.
Il team al lavoro in cerca di alleati
In questa condizione in cui non esiste stabilità certa, ma almeno non c’è la guerra, la parola pace non è entrata nella recente campagna elettorale dei partiti israeliani. Martedì sera, però, dopo i risultati, è ricomparsa, protagonista del discorso di Olmert, che ha perfino teso una mano al presidente palestinese Abu Mazen, dicendosi pronto a negoziare, ma sottolineando che Israele non aspetterà, e andrà avanti per la sua strada. “Cercheremo di raggiungere un accordo con i palestinesi (…). Se non fosse possibile, Israele prenderà il controllo del proprio destino e, con il consenso della popolazione e d’intesa con i nostri amici nel mondo, soprattutto il presidente americano Gorge W. Bush, agiremo”. Olmert ha nominato Menachem Begin, Ehud Barak, Itzhak Rabin, Shimon Peres, tutti leader israeliani legati in qualche modo al processo di pace, e Anwar el Sadat, il presidente egiziano che assieme a Begin, nel 1978, firmò gli accordi di Camp David; ha detto di voler seguire la loro strada. E’ aperto al negoziato e ha promesso ritiri unilaterali che porteranno a nuovi confini entro la fine del suo mandato, nel 2010.
Non sarà facile portare avanti la missione. Kadima ha vinto, è vero, ma non ha vinto abbastanza da poter affrontare il compito da sola. Ha bisogno di partner, e il suo team, composto tra gli altri dal ministro degli Esteri Tzipi Livni, dal candidato ed ex membro di Avoda, Haim Ramon, dal ministro del Turismo Avraham Hirchson, è già al lavoro. Domenica Olmert incontrerà il presidente Moshe Katzav e gli altri politici israeliani per negoziare una coalizione di governo. La più probabile, dicono a Gerusalemme, è quella con Avoda, i religiosi di Shas, che hanno 13 seggi, e l’altra grande sorpresa delle elezioni: il partito dei pensionati. Secondo la stampa israeliana, che cita fonti vicine a Olmert, questa è la composizione indicata dallo stesso premier in carica.
Menachem Ben-Sasson, uno dei 50 candidati sulla lista di Kadima, ha spiegato al Foglio di non essere sorpreso per l’inaspettata performance del partito dell’ex agente ottantenne del Mossad, Rafi Eitan, che ha ottenuto sette seggi; è stupito piuttosto che Kadima sia sceso sotto i 30. “Sì, pensavo avremmo preso più voti – ha detto al Foglio la sera dei risultati Marina Solodkin, d’origine russa, ministro per l’Immigrazione e l’assorbimento – ma ora siamo il partito di maggioranza e saremo in prima fila a costruire il prossimo governo”. E’ vero, Kadima ha preso molti meno seggi di quanto ci si aspettasse. I sondaggi indicavano, da settimane, un netto calo. Ma, nonostante tutto, si tratta di un neonato, creato dal terremoto politico innescato dal disimpegno dalla Striscia di Gaza e dalla volontà del premier Sharon: ha appena quattro mesi e la possibilità di formare un esecutivo.
Le speculazioni sulla composizione della prossima coalizione sono iniziate pochi secondi dopo l’uscita dei primi exit poll. Ben-Sasson crede sia possibile una partnership con i laburisti di Avoda, che hanno 20 seggi. Pensa che il prossimo governo penderà più a sinistra che a destra. Uri Drom, dell’Israel Democracy Institute, è d’accordo: “La coalizione di centrosinistra sarà formata da Kadima, Avoda, Shas e Pensionati”. Gid Greenstein, presidente del Reut Institute di Gerusalemme, opta invece per un’altra versione: “Olmert creerà un governo con la destra e porterà dentro i laburisti soltanto in un secondo momento. Ora il prezzo da pagare loro sarebbe troppo alto”. Avoda, infatti, ha già chiesto il ministero delle Finanze e quello dell’Educazione. Dare il portafoglio dell’Economia al laburista Avishay Braverman vorrebbe dire passare dall’approccio liberista inaugurato dall’ex ministro delle Finanze Benjamin Netanyahu a una politica che lo stesso Braverman ha definito, parlando con il Foglio durante la campagna elettorale, “in linea con la democrazia sociale”.
Secondo Daniel Doneson, esperto di teoria politica e relazioni internazionali, tenere i laburisti fuori dalla coalizione, in un primo tempo, permetterebbe a Kadima di raggiungere due obiettivi: non perdere importanti ministeri, mantenendo però Avoda a portata di mano, in caso di necessità, nel momento in cui servirà più sostegno per affrontare altri ritiri unilaterali. Per fare questo, però, Olmert avrà bisogno di formare una coalizione con Israel Beiteinu, la sorpresa di queste elezioni assieme al Partito dei pensionati, e con il Likud. La prima partnership, nonostante l’opposizione di Olmert durante la campagna, è plausibile, la seconda meno. Richiederebbe le dimissioni dell’attuale leader Netanyahu, sempre più impopolare, e l’entrata in gioco dell’ex ministro degli Esteri Silvan Shalom, numero due della lista, ex candidato alle primarie del movimento. In estate, appoggiò Sharon e il suo piano di disimpegno. Ma non seguì il premier nell’avventura di Kadima.
Di seguito la prima parte del discorso con il quale Olmert ha celebrato la vittoria di Kadima:
Oggi la democrazia israeliana ha detto la sua, con voce chiara e limpida: Israele vuole andare avanti (gioco di parole con Kadima, che significa “avanti”, ndt). (…) Torniamo a essere un solo popolo, unito, privo di schieramenti, legato dall’amore infinito di tutti noi verso questa terra, che non ha uguali al mondo. In questi attimi, sollevo il mio sguardo e il mio cuore verso l’ospedale Hadassa di Gerusalemme. Verso quell’uomo che ha dato inizio a tutto ciò, il primo ministro Ariel Sharon. Tutt’ora primo ministro. All’uomo che ha avuto il coraggio, la forza, la volontà e la perseveranza di vedere le cose in modo nuovo e di cambiare. A colui che ha cambiato la direzione e la speranza e ha proposto una nuova strada. All’uomo che ha ideato e promosso Kadima e che, proprio nel momento in cui stava per vedere realizzarsi il suo sogno, è stato colpito nel fisico. Grazie Arik, a nome mio, a nome dei parlamentari eletti di Kadima, a nome degli elettori di Kadima e a nome del popolo d’Israele. Mando un abbraccio ai suoi figli, Omri e Ghilad, che stanno con lui giorno e notte. Questa sera si conclude un capitolo storico di grande importanza nella vita dello stato (…). Mettiamo da parte tutte le dispute sul confronto tra il primo Israele e il secondo, sul Grande Israele e quello diviso, su un Israele solo delle minoranze e quello solo degli ebrei, sulla Terra d’Israele dei religiosi e quella dei laici, sugli ashkenaziti e gli orientali, sui nuovi immigrati e i cittadini di più antica residenza. Dobbiamo contribuire tutti a un Israele unito, primeggiante, forte, di successo, prospero, integro e in pace con se stesso. Dovremo arrivare a definire i confini definitivi di Israele, come stato ebraico, con una maggioranza ebraica determinata, e come stato democratico. Dovremo adoperarci in tal senso con trattative e accordi con i nostri vicini palestinesi. Questo è il nostro desiderio e la nostra preghiera. Non c’è niente di meglio di un accordo di pace. Non c’è una pace più stabile di quella basata su un accordo. Ma un accordo può essere basato soltanto su una trattativa, condotta sulla base di un riconoscimento reciproco, di accordi già sottoscritti in passato – i principi della road map – e, naturalmente, la cessazione della violenza, lo smantellamento delle organizzazioni terroristiche, la consegna delle armi. Questa sera mi rivolgo in primo luogo al capo dell’Anp, Abu Mazen, e a lui dico: per migliaia di anni abbiamo portato nei nostri cuori il sogno del Grande Israele. Questa terra sarà per sempre, nei suoi confini storici, il desiderio nei nostri cuori. I nostri sentimenti non si separeranno mai dai luoghi che sono stati la culla della nostra civiltà e in cui sono conservati i ricordi più cari per noi come popolo. Tuttavia, riconoscendo la realtà e comprendendone le cause, noi siamo pronti a un compromesso, a rinunciare a parti dell’amata terra d’Israele, nella quale sono sepolti i migliori dei nostri figli e dei nostri difensori, a trasferire, pur con grande dolore, ebrei che vi vivono, per creare le condizioni che renderanno possibile realizzare il vostro sogno e vivere accanto a noi, con un vostro stato in pace. Mi aspetto di sentire una dichiarazione simile da parte dell’Anp. E’ giunto il momento che i palestinesi e i loro dirigenti adattino i loro sogni alla realtà dell’esistenza, al loro fianco, dello stato d’Israele come stato ebraico. E’ giunto il momento che i palestinesi si facciano una ragione, come noi, di una realizzazione solamente parziale dei loro sogni, cessino con il terrorismo, rinuncino all’odio e diano vita a una democrazia e guardino a un futuro di compromesso e pace con noi. Noi siamo pronti. Aspettiamo questo momento (…). Abbiamo il dovere di operare con ogni mezzo per creare una speranza di vita diversa per le giovani generazioni nostre e dei palestinesi. Seguo la strada di David Ben Gurion, Menahem Begin, Itzhak Rabin, Shimon Peres, Ehud Barak e Ariel Sharon (…). Sono incoraggiato dagli esempi personali di leader arabi, come il grande presidente Anwar Sadat, l’illustre re Hussein e, dopo di loro, il presidente egiziano Hosni Mubarak e il re Abdallah II. Se i palestinesi riusciranno ad attivarsi tra breve, ci siederemo intorno al tavolo negoziale per definire una nuova realtà. Se invece non ci riusciranno, Israele prenderà il proprio destino nelle sue mani, e sulla base di un vasto consenso nazionale al nostro interno e di una profonda comprensione con i nostri amici nel mondo, in primo luogo gli Stati Uniti e George W. Bush, agiremo anche in mancanza di un accordo con loro. Non aspetteremo all’infinito. E’arrivato il momento di agire. (traduzione di Sharon Nizza)
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