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Storia
GRANDI BUGIE:Demolire i Miti della Propaganda di Guerra Contro Israele
terza parte

 

 

3. LA QUESTIONE DELL’OCCUPAZIONE

 

 

E DEGLI INSEDIAMENTI

 

 

 

 

Oltre al problema dei rifugiati, le due questioni più importanti nella propaganda di guerra araba contro Israele sono la conseguente occupazione ebraica di terre arabe e l’esistenza di insediamenti israeliani nella West Bank e nella Striscia di Gaza. Per eliminare i miti che avvolgono questi problemi e avvicinarsi alle realtà sottostanti, è necessario analizzare la storia nel contesto della guerra araba contro Israele, che prosegue senza interruzione fin dalla creazione dello stato di Israele nel 1948, e che costituisce il prosieguo dell’ostilità araba verso gli ebrei precedente tale creazione.

 

 

 

 

 

 

IL CONTESTO STORICO

 

 

 

 

Il Sionismo 

 

 

A partire dalla prima metà del XIX secolo, i pionieri Sionisti si unirono alle comunità ebraiche locali nel ricostruire la madrepatria ebraica in quella che era allora l’Impero turco, acquistando terra dalla Corona turca e da possidenti arabi (gli effendi). Non vi fu alcuna invasione, nessuna conquista, e nessun furto di terra araba – e certamente non di una terra della Palestina, essendo gli arabi che vivevano nella regione soggetti ai turchi da 400 anni. Disarmati e privi di una qualsiasi forza militare, gli ebrei comprarono così tanta terra dagli arabi che nel 1892, un gruppo di effendi spedì una lettera al Sultano turco, in cui chiedevano di rendere illegale la vendita di terra agli ebrei. I loro successori fecero la stessa cosa, mediante un telegramma, nel 1915. Evidentemente, la considerevole presenza di ebrei che possedevano terra in Medio Oriente – sebbene acquisita legalmente – era offensiva per alcuni.

 

 

È indiscutibile che non vi fu alcun furto, perché nessuno si lagnò di ciò. Nessun arabo fu cacciato via dalla sua casa. Infatti, come dimostra uno studio demografico di Justin McCarthy, La popolazione della Palestina, pubblicato dalla Columbia University nel 1990, la popolazione araba dell’area registrò un enorme sviluppo durante questo periodo in parte proprio grazie allo sviluppo economico che gli ebrei contribuirono a generare. Tra il 1514 e il 1850, la popolazione araba di questa regione dell’Impero turco era rimasta più o meno stazionaria e approssimativamente di circa 340.000 abitanti. Essa cominciò improvvisamente ad aumentare all’incirca dopo il 1855. Nel 1947 la popolazione araba si attestava a circa 1.300.000 unità, pressoché quadruplicata in meno di 100 anni. Le cause esatte di questo aumento di popolazione superano lo scopo di questo lavoro, ma la correlazione causale tra questo fenomeno indipendentemente documentato e l’impresa Sionista, è invece un argomento basilare.

 

 

 Lungi dal cacciare via alcun arabo, rubare la loro terra o rovinare la loro economia, con il proprio lavoro i pionieri ebrei nel XIX secolo e agli inizi del XX° in realtà permisero alla popolazione araba di quadruplicare, alla loro economia di entrare nell’era moderna, e alla loro società di espellere i germi della schiavitù che caratterizzava il rapporto tra effendi e fellah (proprietario terriero / contadino) nell’era Ottomana. Un lavorante arabo in una fabbrica o in una comunità agricola gestita da ebrei poteva guadagnare in un mese quello che suo padre guadagnava in un anno presso un effendi, conducendo l’esistenza che gli era permessa dall’uso di una tecnologia medievale. La mortalità infantile araba si ridusse drasticamente e la longevità aumentò grazie agli ebrei che condivisero coi loro vicini di casa arabi la loro conoscenza medica e la loro tecnologia moderna.

 

 

Molta della terra che i sionisti acquistarono era deserto o palude, inabitata e resa inabitabile dagli arabi. Le moderne tecniche introdotte dagli ebrei ed il sangue e il sudore di migliaia di idealisti sionisti riscattarono quella terra e la trasformarono in beni immobili di primo ordine con fattorie fiorenti e comunità in rapida crescita, fondate sulla tecnologia moderna ed una sana economia di mercato. Di conseguenza, gli emigranti arabi si riversarono a centinaia di migliaia nella regione dagli stati circostanti, in cerca di una migliore vita e di opportunità economiche superiori. Su questa base, è giusto affermare che un numero significativo, se non una maggioranza, di arabi che vivono oggi in Israele debbano la loro esistenza allo sforzo sionista.

 

 

Un supporto a questa storia (completamente diversa da quella fornita dalla propaganda araba ufficiale) viene da una fonte sorprendente. Il terrorista internazionale Yousuf al-Qaradhawi, sceicco arabo e luogotenente di Osama bin Ladin, in un discorso trasmesso dalla televisione nel maggio 2005[1] sgridò i suoi seguaci con le seguenti parole: «Sfortunatamente, noi [arabi] non eccelliamo in industrie militari o civili. Importiamo tutto, dagli aghi ai missili… Come è riuscita la banda sionista ad essere superiore a noi, nonostante fosse così poco numerosa? È divenuta superiore attraverso la conoscenza, attraverso la tecnologia ed attraverso lo sforzo. È divenuta superiore a noi attraverso il lavoro. Noi avevamo il deserto di fronte ai nostri occhi ma non ce ne facevamo niente. Quando loro lo presero, lo trasformarono in un’oasi verde. Come può progredire una nazione che non lavora? Come può crescere?»[2] (l’enfasi è nostra, n.d.A.).

 

 

Fu proprio il successo dell’impresa sionista che risvegliò la paura e l’ira dei leader arabi. Il progresso sionista, la tecnologia, l’economia e la buona volontà degli ebrei di condividere questa tecnologia coi loro vicini di casa arabi, minacciarono radicalmente il predominio medievale dell’effendi sul fellahin (la ruralità). I metodi turchi di assicurare la tranquillità sotto il Sultano erano piuttosto draconiani. Perciò, come parte dell’Impero turco, gli arabi della regione non desiderarono creare disordini e scontri, e sopportarono stoicamente la presenza ebraica, cosa che alcuni hanno interpretato come tolleranza. Ma la dominazione britannica che seguì la prima Guerra mondiale non fu così severa. Quando l’Inghilterra assunse il governo della Palestina Mandataria britannica (oggi gli stati di Israele e Giordania), i leader arabi capirono di avere mano molto più libera. Alimentando l’odio religioso e il risentimento del fellah diffondendo bugie sulle intenzioni degli ebrei di distruggere l’Islam, i rappresentanti delle principali famiglie di effendi condotti da Hajj Amin el-Husseini diedero vita ad un jihad islamico che provocò una serie di pogroms contro gli ebrei.

 

 

 

 

Il Piano di Partizione Peel

 

 

Da 1919 al 1936, la violenza araba contro gli ebrei allargò i suoi obiettivi e crebbe in brutalità. Gli inglesi non fecero quasi niente per farla cessare e qualche volta l’appoggiarono. Lord Earl Peel condusse una commissione di indagine nel 1936 allo scopo di trovare una soluzione alla violenza apparentemente senza fine. Il suo suggerimento fu la partizione. Lasciare che gli ebrei avessero il loro stato sul 15% delle terre che essi avevano acquistato e riscattato. Lasciare che gli arabi avessero il loro sul rimanente 85%. In altre parole, l’idea della partizione divenne un’agenda perché gli arabi non potevano vivere pacificamente accanto agli ebrei.

 

 

Nel 1922 l’Inghilterra rimise il Mandato su tutti i territori ad est del fiume Giordano all’emiro Abdullah. Questo divenne il Regno Hashemita di Giordania, con una maggioranza di popolazione palestinese le cui leggi non permettevano a nessun ebreo di entrare. Quando fu loro offerto di creare il proprio stato nel 1937 all’incirca sull’85% della Palestina Mandataria britannica ad ovest del Giordano, i leader arabi scelsero la guerra ed il terrorismo. Questa fu la “Grande Rivolta” araba del 1937-1939. Con la Seconda guerra mondiale che volgeva al termine, l’Inghilterra non perse tempo e schiacciò brutalmente la sollevazione. 

 

 

Nel frattempo, lo sforzo pionieristico dei sionisti continuò con l’acquisto di nuove terre della Corona inglese. È importante notare che secondo la legge internazionale, quella che era stata terra della Corona sotto l’Impero turco era allora giuridicamente terra della Corona sotto il Mandato britannico. Disporre di quella terra mediante l’acquisto legale era ben all’interno del diritto inglese ed era conforme anche ai parametri della legge internazionale. Quando l’Occidente emerse vittorioso dalla Seconda guerra mondiale, le organizzazioni sioniste possedevano approssimativamente il 28% di quello che è oggi Israele, mentre il resto era formato da proprietà privata araba o da terre della Corona inglese. 

 

 

Con la fine della guerra, il comando arabo promosse di nuovo violenza e terrorismo contro gli insediamenti ebraici e contro gli inglesi. La maggioranza dei leader ebrei predicò il contenimento ed esplorò la via di una soluzione politica presso le Nazioni Unite, formatesi di recente. Solo una ristretta minoranza praticò il terrorismo contro gli inglesi e le rappresaglie violente contro gli arabi.

 

 

 

 

Il Piano di Partizione ONU

 

 

Colpiti dalla violenza e trovatisi ad affrontare crisi politiche che scaturirono dai problemi economici causati dalla Seconda guerra mondiale, gli inglesi abbandonarono la maggior parte del loro impero e decisero di rimettere la “questione palestinese” nelle mani delle Nazioni Unite. Nel 1947 varie missioni esplorative dell’ONU giunsero alle stesse conclusioni tratte da Lord Peel una decade prima. Il 29 novembre 1947 l’ONU proclamò la nascita di due stati: un stato per gli arabi su circa il 45% della terra rimasta [dopo la nascita del Regno Hashemita di Giordania del 25 maggio 1946, n.d.t.], e lo stato di Israele per gli ebrei approssimativamente sul 55%. Ma più della metà della parte ebraica (circa il 60%) era costituito dal deserto del Negev e da terre della Corona largamente disabitate e ritenute prive di valore. Il Piano di Partizione ONU (Risoluzione ONU n. 181) creò confini incerti tra i due stati nascenti, basati sulla proprietà della terra e sulle densità delle rispettive popolazioni dei due gruppi.  

 

 

Gli stati arabi erano membri dell’ONU. Tale appartenenza avrebbe dovuto comportare almeno la buona volontà di attenersi alle decisioni prese dalla maggioranza dell’unione mondiale di stati formatasi da poco. Ma non lo fecero. 

 

 

In sprezzante rifiuto del piano di partizione ONU, lanciarono una guerra di aggressione che, secondo la loro propaganda ufficiale, doveva essere una guerra di annientamento. La loro intenzione non era correggere qualche disputa di confine o reclamare un campo fertile perso in una prima battaglia. La loro intenzione era distruggere lo stato di Israele appena creato e disfarsi dei suoi 605.000 ebrei, a qualunque costo.

 

 

Ma, per il loro dispiacere, gli stati arabi persero la guerra di aggressione da essi scatenata. La sconfitta gli costò molto del territorio che l’ONU aveva designato per lo stato della Palestina. E molto ancora di ciò che doveva essere la Palestina (la West Bank e la Striscia di Gaza) fu annesso dai due stati arabi vicini. L’Egitto mantenne l’occupazione illegale della Striscia di Gaza, e la Giordania annesse illegalmente la West Bank. Ambo le annessioni erano in spregio alla legge internazionale e alle Risoluzioni ONU nn. 181 e 194. Non vi fu protesta araba o palestinese per questo. Perché?

 

 

L’unica spiegazione plausibile è che nel 1949, i palestinesi non si consideravano “palestinesi” ma arabi, ed infatti il termine “Palestina” veniva usato universalmente per riferirsi allo stato ebraico.  

 

 

Ad aggiungere ulteriore imbarazzo per gli stati arabi, arrivò l’offerta di Israele del 1949 per un trattato di pace formale in cambio del quale Israele avrebbe restituito molta della terra conquistata nella guerra, permettendo il rimpatrio della reale quota di rifugiati arabi creati dalla guerra (colloqui in occasione dell’Armistizio di Rodi, febbraio-luglio 1949). Ma se le nazioni arabe fossero state disposte ad accettare il piano di ripartizione ONU, o ad accettare l’offerta di pace israeliana, non solo uno Stato della Palestina esisterebbe dal 1947, ma ci non sarebbe mai stato il problema dei rifugiati arabi.

 

 

Comunque, la risposta araba fu: niente pace. I rifugiati sarebbero tornati alle loro case solo quando avessero potuto sventolare la bandiera della Palestina sui cadaveri degli ebrei. Meglio costringere i palestinesi a rimanere accampati in squallidi campi profughi piuttosto che costringere gli stati arabi a riconoscere uno stato non musulmano in mezzo a loro.

 

 

Come nel 1937, i leader arabi rifiutarono la possibilità di uno stato palestinese scegliendo l’aggressione continuata contro Israele. Non fu la creazione dello Stato di Israele a provocare il problema dei rifugiati e gli altri problemi susseguenti; fu la guerra di annientamento intrapresa dagli stati arabi a creare i rifugiati, respingendo la seconda opportunità per la creazione di uno stato palestinese.

 

 

 

 

Il terrorismo contro Israele prima del 1967

 

 

Da 1949 al 1956 l’Egitto scatenò una guerra terroristica contro Israele, lanciando approssimativamente 9.000 attacchi da parte di cellule terroristiche addestrate nei campi profughi della Striscia di Gaza. La Campagna del Sinai del 1956 in cui Israele sconfisse l’esercito egiziano, pose fine al terrorismo egiziano, anche se gli Stati Uniti costrinsero Israele a restituire il Sinai all’Egitto senza un trattato di pace. Ma il terrore continuò su altri fronti.

 

 

Nel 1964 fu creata l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, non per liberare i palestinesi dal dominio giordano ed egiziano ma per avviare una campagna di 40 anni di terrore contro Israele con la scopo apertamente dichiarato di «ributtare gli ebrei a mare». Sovvenzionati dal Kuwait prima, e più tardi da Arabia Saudita, Egitto, Iraq Iran ed altri, i leader dell’OLP dichiararono una guerra infinita contro Israele, finché tutta la “Palestina” non fosse stata liberata, redenta da “fuoco e sangue”.

 

 

Dal 1949 al 1967 non vi erano insediamenti ebraici nella West Bank o nella Striscia di Gaza. Né la “Palestina” che Arafat cercava di “riscattare” era la West Bank o la Striscia di Gaza, dove i palestinesi erano assoggettati al dominio di giordani ed egiziani, ma piuttosto egli si riferiva all’intero Stato di Israele all’interno dei suoi confini e della famosa “linea verde del 1949”.

 

 

È istruttivo leggere la versione originale del 1964 della Carta dell’OLP. Articolo 24. «Questa Organizzazione (l’OLP) non eserciti sovranità regionale sulla West Bank nel Regno Hashemita di Giordania, nella Striscia di Gaza o nell’area di Himmah».

 

 

Siccome la Carta originale dell’OLP riconosceva esplicitamente la Giudea, la Samaria, la porzione orientale di Gerusalemme e la Striscia di Gaza come appartenenti agli altri stati arabi, l’unica “terra natia” che cercava di “liberare” nel 1964 era lo stato che apparteneva agli ebrei.

 

 

Tre anni più tardi, nel 1967, cinque stati arabi – incluso la Giordania – attaccarono Israele. Israele vinse la guerra e come risultato della vittoria occupò la West Bank, avendo sconfitto l’aggressore giordano, il quale l’aveva annessa illegalmente 18 anni prima.

 

 

La risposta dell’OLP a questi eventi fu revisionare la sua Carta, cosa che fece il 17 luglio 1968. Modificò il linguaggio operativo dell’Articolo 24, asserendo con ciò per la prima volta una richiesta di sovranità “palestinese” sulla West Bank e sulla Striscia di Gaza. In altre parole, la richiesta palestinese è solo contro gli ebrei.

 

 

L’occupazione giordana della West Bank ed il controllo egiziano della Striscia di Gaza fu caratterizzata da una repressione totalitaria e brutale. Come racconta lo stesso Arafat, nel 1948 gli egiziani raggrupparono i palestinesi in campi profughi, li tennero dietro al filo spinato, spedirono spie per assassinare i leader palestinesi ed uccisero quelli che tentarono la fuga[3]. Non vi fu nessuna protesta palestinese contro questa oppressione o a favore di una qualsiasi autodeterminazione che fosse stata loro negata.

 

 

 

 

 

Il tardo nazionalismo palestinese

 

 

La ragione per cui non vi fu agitazione fra i palestinesi a difesa della loro identità nazionale prima del 1967 è perfettamente chiara: il concetto di Palestina come nazione e dei palestinesi come un popolo distinto non esisteva fra gli arabi delle province turche poi divenute Palestina Mandataria britannica dopo la Seconda guerra mondiale. Nonostante i contorti, forzati e affettati resoconti degli apologeti della guerra palestinese contro Israele, come Rashid Khalidi, Baruch Kimmerling ed altri, non vi fu mai alcun stato chiamato Palestina, nessun paese abitato da palestinesi e, prima del 1967, nessun concetto di un’entità politica, culturale o linguistica atto a rappresentare un gruppo definito che poteva essere identificato da tale appellativo. 

 

 

Infatti, è vero il contrario. Gli arabi che presero parte alle indagini ONU del 1947 sostennero che non vi fu mai e che mai vi sarebbe stata una Palestina. L’area contesa era da loro ritenuta storicamente parte della Siria meridionale, che per secoli era stata nota come “balad esh-sham (il paese di Damasco). Infatti, a quel tempo, il termine “palestinese” fu applicato solamente agli ebrei residenti nella Palestina Mandataria. Gli arabi della regione erano noti come “arabi”. 

 

 

In un intervista del 31 marzo 1977 rilasciata al giornale Dagblad Verdieping Trouw, di Amsterdam, il membro del comitato esecutivo dell’OLP Zahir Muhse’in disse: «Il popolo palestinese non esiste. La creazione di un stato palestinese è solamente uno dei mezzi per continuare la nostra lotta contro Israele per la nostra unità araba. In realtà oggi non vi è differenza tra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. Solamente per ragioni politiche e tattiche noi parliamo oggi dell’esistenza di un popolo palestinese, poiché l’interesse nazionale arabo richiede che noi postuliamo l’esistenza di un distinto “popolo palestinese” che si oppone al Sionismo. Per ragioni tattiche, la Giordania che è uno stato sovrano con confini definiti, non può avanzare richieste su Haifa e Jaffa, mentre come palestinese, io posso indubbiamente sollevare pretese su Haifa, Jaffa, Beer-Sheva e Gerusalemme. Comunque, dal momento che eserciteremo il nostro diritto su tutta la Palestina, noi non aspetteremo neppure un attimo per unire Palestina e Giordania».

 

 

Tutt’oggi, i libri di scuola siriani mostrano la “Grande Siria” composta da Siria, Libano, Giordania e Israele. Non c’è nessuna nazione chiamata Palestina. Il concetto di “palestinesi” quali arabi residenti da millenni nella “Palestina storica” è una finzione creata per gli scopi politici e militari descritti da Zahir Muhse’in. Questa tarda frenesia che anima le agitazioni palestinesi per l’autodeterminazione nazionale è semplicemente il velo dietro cui, ammantato di rispettabilità, il terrorismo genocida arabo può perpetrarsi contro Israele con l’appoggio dei benpensanti e degli “idealisti” internazionali. Dopo l’Olocausto, i liberals occidentali [negli USA il termine liberal indica l’area politica corrispondente all’incirca alla nostra sinistra, n.d.t.] non possono essere teneri con il terrorismo genocida; ma possono abbracciare vivamente ed entusiasticamente le profonde, ardenti e sincere aspirazioni di un popolo oppresso che lotta per essere libero. È per costoro che i propagandisti del terrorismo di Arafat ebbero bisogno di inventare le bugie dell’identità nazionale palestinese e dell’occupazione ed oppressione israeliana. 

 

 

 

 

 

La Guerra dei Sei Giorni del 1967 

 

 

Contrariamente alla propaganda araba corrente, ma congruentemente con tutti i resoconti dei fatti svoltisi all’epoca, Israele fu la vittima dell’aggressione genocida araba anche nel 1967. Il 15 maggio 1967 l’Egitto richiese l’evacuazione immediata delle forze di pace ONU, dislocate al confine fin dalla Campagna del Sinai del 1956. Il Segretario Generale dell’ONU U-Thant, per ragioni mai del tutto chiarite, acconsentì subito. Poi l’Egitto chiuse lo Stretto di Tiran, rendendo impraticabile il porto israeliano di Eilat, e mosse due battaglioni corazzati e 150.000 uomini diritto al confine occidentale di Israele. Un patto militare con Siria e Giordania e l’invasione illegale dello spazio aereo israeliano per “sorvegliare” il reattore atomico israeliano in Dimona completarono il quadro delle minacce.

 

 

Questi fatti costituirono ben cinque casus belli: azioni che la legge internazionale ritiene una tale minaccia ad un stato sovrano che ognuna di esse costituisce una causa legittima per una risposta militare difensiva. Se Israele avesse reagito con forza letale dopo ciascuno di questi atti, la sua azione militare sarebbe stata del tutto legale secondo il diritto internazionale, come risposta difensiva e legittima a minacce alla propria esistenza da parte di un aggressore. 

 

 

Comunque Israele non reagì immediatamente. Provò la via dei negoziati politici prima, ma i suoi appelli all’ONU non ottennero risposta. I suoi promemoria al Presidente degli Stati Uniti Johnson, (gli USA avevano garantito nel 1957 di intervenire se lo Stretto di Tiran fosse mai stato chiuso, o se l’Egitto avesse re-militarizzato il Sinai) furono parole rivolte ad un sordo. Il Presidente Johnson era troppo pesantemente coinvolto nella guerra del Vietnam per dirigere altrove l’azione militare americana, anche se il Presidente Eisenhower, quando costrinse il primo ministro israeliano Ben Gurion a ritirarsi dal Sinai dopo la fenomenale Campagna del Sinai del 1956, aveva promesso l’eterna vigilanza americana affinché Israele non affrontasse di nuovo la minaccia militare dell’Egitto. 

 

 

Dopo tre settimane passate a guardare l’esercito egiziano, siriano e giordano crescere in numero e forza sui suoi confini, Israele provò l’ultima azione diplomatica. Tramite il comandante delle forze di pace ONU a Gerusalemme, il Colonnello Od Bul (un norvegese), il governo di Israele spedì una comunicazione scritta a Re Hussein di Giordania: «Se Lei non invade Israele, Israele non invaderà la West Bank». Il Re della Giordania lanciò altezzosamente indietro la nota al Colonnello Od Bul e si allontanò. 

 

 

Il 5 giugno 1967, un lunedì, dopo aver ricevuto informazioni dall’intelligence militare che nel giro di poche ore l’Egitto avrebbe lanciato un’invasione attraverso la Striscia di Gaza, Israele lanciò i suoi attacchi preventivi. Un attacco aereo distrusse l’aviazione di Egitto, Giordania e Siria mentre ancora erano a terra. Col controllo dei cieli fermamente in mano ad Israele, le forze corazzate e la fanteria misero in fuga l’esercito egiziano giungendo al Canale di Suez in due giorni. 

 

 

Nonostante l’avvertimento di Israele, Re Hussein di Giordania cominciò un bombardamento di artiglieria su Gerusalemme e le altre città israeliane lungo la Linea Verde. Dopo più di un giorno di bombardamento, che causò ad Israele centinaia tra morti e feriti, e milioni di dollari di danni, Israele spedì una seconda comunicazione al re Hashemita: «Se Lei ora ferma il bombardamento, noi lo considereremo un Suo atto “salva onore” politicamente necessario; e noi non ci rivarremo». Questa comunicazione fu spedita tramite l’ambasciata rumena, dall’ambasciatore di Gerusalemme ovest (Israele) all’ambasciatore di Gerusalemme Est (Giordania). Re Hussein ignorò il messaggio e lanciò la sua fanteria ad invadere la Gerusalemme ebraica. Fu solamente in seguito a ciò che Israele rispose con l’invasione della West Bank. 

 

 

Dopo quasi una settimana di continuo bombardamento di artiglieria da parte della Siria sulle città israeliane e i villaggi della Galilea, Israele conquistò le Alture del Golan, distrusse l’artiglieria siriana, e respinse l’esercito siriano indietro di 40 chilometri lontano da Damasco. 

 

 

Israele non invase l’Egitto oltre il Canale di Suez, anche se le sue forze avrebbero potuto avanzare quasi incontrastate fino al Cairo. Non attraversò il Giordano, anche se la Legione di Giordania era ormai allo sbando, ed alcune truppe avevano gettato i loro stivali e fucili per nuotare più facilmente verso la sponda est. Né continuò la sua avanzata dalle Alture del Golan verso Damasco, nel corso della quale avrebbe potuto facilmente decimare l’esercito siriano. Israele fermò la sua avanzata su tutti i tre fronti dopo aver raggiunto i suoi obiettivi militari: la distruzione degli eserciti che avevano minacciato la sua esistenza, e la definizione di confini difendibili. 

 

 

 

 

 

La legge internazionale e la sovranità israeliana 

 

 

Anche uno dei più critici storici di Israele, il professor Avi Schlaim, ammette che, nella Guerra dei Sei Giorni, Israele fu la vittima di un’aggressione araba. Questo è un punto cruciale riguardo al problema degli insediamenti israeliani e la sovranità sulla West Bank e la Striscia di Gaza. La legge internazionale è molto chiara. Se Israele fosse stato l’aggressore, la sua occupazione della West Bank e della Striscia di Gaza sarebbe stata illegale, come ogni successiva espansione di popolazione israeliana in questi territori. 

 

 

Ma come vittima di un’aggressione, la posizione legale di Israele è precisamente l’opposta. La sistemazione legale di territori conquistati in una guerra difensiva può essere determinata solamente da un trattato di pace tra i belligeranti. In assenza di tale trattato di pace, la vittima dell’aggressione esercita la sovranità continuata e svolge attività economiche sui territori conquistati in maniera completamente legale, finché tale attività non reca pregiudizio sfavorevole agli abitanti indigeni. Infatti la sovranità di Israele sulla West Bank e sulla Striscia di Gaza apportò notevoli benefici a tali popolazioni, come vedremo, finché all’amministrazione israeliana non subentrò quella dell’Autorità palestinese dopo gli Accordi di Oslo. 

 

 

Immediatamente dopo la guerra, Israele offrì la restituzione del territorio conquistato in cambio di una pace formale. Le nazioni arabe rifiutarono anche questa offerta, come rifiutarono offerte simili dopo tutte le precedenti guerre da esse iniziate. Israele avrebbe potuto annettere giuridicamente tutti i territori conquistati, ma scelse di non farlo perché si aspettava che gli stati aggressori, una volta tornati alla ragione, avrebbero voluto di nuovo la loro terra, ed Israele avrebbe restituito alcuni di questi territori ai loro primi occupanti in cambio di pace. 

 

 

Israele fece precisamente questo con l’Egitto, restituendo tutto il Sinai con gli accordi di Camp David nel 1979. In questi accordi il leader egiziano Anwar Sadat rifiutò il controllo della Striscia di Gaza, preferendo che i palestinesi vivessero sotto la sovranità israeliana. Quando la Giordania accettò il trattato di pace nel 1994, Re Hussein escluse specificamente la West Bank dalle trattative, perché il 96% dei palestinesi nell’area era sotto il comando dell’Autorità palestinese, e Hussein sostenne che lui non aveva pretese legali sull’area o sulla sua popolazione araba. 

 

 

Insomma, Israele è l’unico paese noto in tutta la storia che sia nato mediante un legale e benefico sviluppo della propria terra (contrariamente al metodo quasi universale della conquista). La vittoria di Israele nella guerra del 1948 e nella guerra del 1967, nelle quali fu vittima dell’aggressione genocida araba, ed il rifiuto delle nazioni arabe di stabilire negoziati di pace, dà ad Israele il diritto legale di mantenere la sua sovranità sui territori conquistati, e di sviluppare quei territori in maniera non pregiudizievole al benessere dei civili indigeni. 

 

 

Se i leader arabi avessero accettato la pace con Israele, uno stato palestinese sarebbe nato nel 1937, e di nuovo nel 1947, e di nuovo nel 1949; e non ci non sarebbe stato mai un problema di rifugiati arabi. Se la leadership araba prima nel 1967 e di nuovo nel 2000 avesse desiderato la pace con Israele, non ci sarebbe mai stata una sovranità israeliana prolungata sui territori disputati della West Bank e Gaza.  

 

 

Con questa struttura storica si possono comprendere i veri problemi dietro alla controversia sugli insediamenti israeliani nella West Bank e nella Striscia di Gaza e la condizione giuridica degli insediamenti. 


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