Interessante l'articolo di Janiki Cingoli, direttore del Centro italiano per la pace in Medio Oriente, pubblicato da EUROPA di mercoledì 29 marzo a commento delle elezioni israeliane. Peccato che in chisura Cingoli proponga, come via maestra per la pace in Medio Oriente il piano saudita presentato in Libano nel 2002. Un'iniziativa propagandistica con la quale si chiedeva a Israele di ritirarsi nei confini del 67 e di riconoscere il diritto al ritorno dei profughi in cambio del "riconoscimento" di un semplice dato di fatto: la sua esistenza.
Anche Hamas potrebbe riconoscersi in questo piano, sostiene Cingoli.
Senza neanche prendersi la briga di cambiare, aggiungiamo noi.
Ecco il testo:
La prevista vittoria di Kadima non costituirà una sorpresa, se i risultati la confermeranno. Questo partito non è l’invenzione o il capriccio di un leader oggi morente, ma è il risultato di una complessa evoluzione di un intero gruppo dirigente, di una parte del Likud che alla prova dei fatti si è convinta che in termini di pura repressione non si poteva riuscire ad avere ragione della rivolta nazionale palestinese, e ad assicurare sicurezza alla popolazione israeliana.
A questa presa di coscienza hanno dato un contributo determinante le proiezioni demografiche di Sergio Della Pergola, il grande studioso italo- israeliano, che hanno dimostrato come il mantenimento dell’occupazione sui territori palestinesi avrebbe portato in breve gli ebrei a divenire minoranza nel paese, snaturando così il carattere ebraico dello stato di Israele, o minandone irrimediabilmente la natura democratica, se ai palestinesi divenuti maggioranza non si fossero riconosciuti pari diritti.
La nuova concezione difensiva, annunciata da Sharon nel dicembre 2003, che si sarebbe sostanziata in un ritiro dell’esercito su nuove linee strategiche, nel completamento della barriera difensiva, e nell’evacuazione di terre e insediamenti al di là di quelle linea, di quelle aree palestinesi cioè che «anche nell’accordo di pace più favorevole ad Israele non sarebbero restate sotto la sua sovranità», è stata la base teorica da cui è scaturito il ritiro da Gaza, e da cui deriva il nuovo ritiro dalla Cisgiordania annunciato da Olmert.
Un elemento essenziale di quella concezione è stato ed è la sua unilateralità.
Prima era Arafat a non essere un partner presentabile, oggi è Hamas, che con il suo rifiuto di riconoscere Israele, rinunciare al terrorismo e riconoscere gli accordi precedentemente firmati dalla Anp, non può essere accettato come interlocutore.
Abu Mazen, si afferma, è certo una brava persona, ma è un debole, incapace di reprimere il terrorismo, e oggi, dopo la vittoria di Hamas, è stato addirittura definito dal ministro Tipzi Livni «irrilevante».
Questa unilateralità rappresenta certo il limite più netto della nuova strategia ideata da Sharon, ma anche la sua forza. L’iniziativa israeliana non dipende più da defatiganti e per lo più inconcludenti negoziati con i palestinesi, dipende solo dalla decisione e dalla determinazione di Israele.
Tale impostazione, che ha spezzato il mito del Grande Israele, ha determinato una crisi drammatica nel Likud, il partito storico della destra israeliana, che si trova ridotto ai minimi termini, con una emorragia irrefrenabile non solo verso Kadima ma anche verso gli altri partiti della destra, che in base ai sondaggi si rafforzano a sue spese. Ha consentito altresì di rompere l’antico tabù dell’inamovibilità degli insediamenti ebraici, dimostrando che una società democratica come Israele può fronteggiare la resistenza e anche i tentativi di rivolta dei coloni, che restano una piccola minoranza della popolazione.
Ha infine intercettato un sentimento profondo della popolazione, che pur continuando a credere, secondo tutti i sondaggi, nella necessità della pace, dimostra una sfiducia profonda nella possibilità di riuscita del cosiddetto processo di pace, come si è concretamente sviluppato con tutti i suoi bizantinismi e gli episodi di sangue da cui è costellato, e avanza una richiesta prioritaria di tranquillità.
È su queste basi che si è realizzata la convergenza con una parte del Labour, che non ha condiviso la scelta populistica impressa al partito dalla nuova leadership di Amir Peretz, e ha fi- nito per confluire in Kadima, seguendo il vecchio Shimon Peres.
La formazione di un nuovo grande partito di centro costituisce una novità storica per Israele. Quella che si profila è un’alleanza Kadima–Labour, che dovrebbe contare in base ai sondaggi su 50-55 seggi, su un totale di 120. La parte restante potrebbe arrivare o dai partiti religiosi, o alternativamente dalla formazione laica Shinui e dalla formazione di estrema sinistra Yahad–Meretz, nonché dall’appoggio anche esterno dei partiti arabi.
L’ipotesi più probabile è la prima, perché il nuovo leader di Kadima, l’intelligente e determinato Olmert, preferirà avere la copertura dei religiosi, per portare avanti il nuovo ritiro dalla Cisgiordania, evitando una loro saldatura con la destra. Tanto più che sui voti della sinistra, per appoggiare il ritiro, potrà sempre contare.
La piattaforma di Olmert pare dunque in grado di dare dei risultati a breve, anche contando sulla proroga unilaterale della tregua annunciata da Hamas. Ma l’obbiettivo di includere nei futuri confini di Israele non solo la fascia dei grandi insediamenti lungo la Linea Verde e intorno a Gerusalemme, quelli cioè dietro il muro difensivo, ma l’intera città di Gerusalemme e la Valle del Giordano, non appare in grado di assicurare una pace permanente ad Israele, in grado di raccogliere quella proposta di pace avanzata dalla Lega Araba a Beirut nel 2002, e che potrebbe forse trovare oggi orecchie attente anche in Hamas.
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