"Sempre assolto, questo sì. Ma troppo spesso sospettato, dagli inquirenti e dalla pubblica opinione". Condannato così per eccesso di sospetti a suo carico Ehud Olmert, Sandro Viola può passare a liquidare l'unilateralismo che, probabilmente, raccoglie ormai i consensi della maggioranza degli israeliani descrivendolo come l'illusione che "non parlare all'antagonista" serva a "far sparire l'antagonista dal proscenio".
Sono i due punti salienti di un lungo articolo pubblicato da REPUBBLICA alla vigilia delle elezioni israeliane, il 27 marzo 2006.
Al di là delle descrizioni del quartiere ortodosso di Mea Shearim a Gerusalemme e delle conversazioni con il politologo Shlomo Avineri ( a suo tempo mai interpellato da Viola, caso strano, circa la politica palestinese e le prospettive del processo di pace con Arafat, sulle quali nutriva un forte scetticismo), ciò che interessa a Viola é stabilire che un probabile futuro primo ministro israeliano é un lestofante e che le scelte politiche dell'elettorato sono catastrofiche e irrazionali.
Tanto lo interessano queste conclusioni che é disposto a ignorare, nel primo caso, le sentenze di assoluzione e , nel secondo, il terrorismo, il rifiuto dell'esistenza di Israele da parte di Hamas, l'impotenza di Abu Mazen e, insomma, l'effettiva drammatica mancanza di un interlocutore palestinese di Israele.
Evidentemente, se per condannare i politci israeliani bastano i sospetti, per attribuire ai dirigenti palestinesi le loro responsabilità e per riconoscere le ragioni di Israele non basterà mai nessuna prova.
Ecco il testo:
Sui muri scrostati di Mea Sharim, il quartiere dove vivono gli ebrei ultraortodossi, uno degli scorci più tipici di Gerusalemme, non c´è un solo manifesto elettorale. I partiti non hanno speso soldi per affiggerne, perché gli ultraortodossi o non votano, o votano compatti per i due partiti religiosi, lo Shas e l´Utg. A non votare sono i più furiosamente antisionisti, le due o trecento famiglie che ancora misconoscono lo Stato d´Israele e sono raggruppate nel movimento "Difensori della città". Mentre tutti gli altri votano, a seconda della loro origine, compatti.
Gli ebrei orientali o sefarditi per Shas, e gli Ashkenazi per l´Utg. Non c´è assenteismo, mai, nelle file degli ultraortodossi, perché le indicazioni dei loro rabbini vengono seguite alla lettera. E si tratta di indicazioni tuonanti. Chi vota per Kadima, va dicendo da giorni il rabbino capo dei sefarditi, Ovadia Yosef, andrà all´inferno, mentre il voto per Shas condurrà diritti al paradiso.
Ma a parte gli ultraortodossi, il resto dell´elettorato non era mai sembrato agli specialisti tanto fluido, mercuriale, come stavolta. I sondaggi oscillano di continuo e bruscamente, quasi che gli israeliani si svegliassero ogni mattina con un proposito di voto diverso. E tuttavia, malgrado tanta irrequietezza (e salvo sorprese clamorose quando nella notte tra martedì e mercoledì si conteranno i voti), l´opinione generale è che a raccogliere il maggior numero di consensi sarà Kadima, il partito fondato da Ariel Sharon poche settimane prima d´entrare in coma. Dovrebbe essere quindi Kadima a costituire l´asse portante della coalizione di governo che guiderà il paese in quest´ennesima fase cruciale della sua storia. E il primo ministro dovrebbe essere Ehud Olmert, il successore di Sharon, personaggio pressoché ignoto fuori dai confini d´Israele.
Così, mentre mancano ventiquattr´ore al voto, la domanda cui tento di rispondere è questa : chi è Olmert? Chi è questo sessantenne "bon vivant", una casa fastosa, una moglie molto mondana, maniaco non si sa bene se più della pallacanestro o del football, e senza alcuna somiglianza fisica e di carriera con i primi ministri israeliani del passato? Olmert non è infatti uno dei fondatori dello Stato, come lo furono i primi ministri da Ben Gurion a Begin e a Peres. Non è un militare carico di gloria come Rabin, o Barak, o Sharon. La sua ascesa è stata lenta, priva di fasi veramente significative, e tutta avvenuta dietro le quinte. Si sa che nell´ultimo trentennio ha quasi sempre avuto un seggio in Parlamento, che è abilissimo nelle manovre parlamentari, che è un negoziatore coriaceo. Ma si sa anche altro.
Si sa soprattutto che la sua professione d´avvocato lo ha posto al centro di vari e scandalosi incroci tra politica e affari, e che da parlamentare, da sindaco di Gerusalemme e da ministro ha frequentato una quantità impressionante di personaggi loschi. Il che lo ha portato innumerevoli volte in tribunale a rispondere di finanziamenti indebiti per il suo vecchio partito, il Likud, e di torbide transazioni immobiliari a Gerusalemme. Sempre assolto, questo sì. Ma troppo spesso sospettato, dagli inquirenti e dalla pubblica opinione. Perché il suo patrimonio non è oggi quello d´un normale uomo politico. E´ un patrimonio vasto, forse vastissimo. Non c´è un autista di taxi che non me lo ripeta, non c´è giornale che non abbia pubblicato una storia dei giri di danaro, vorticosi ma poco limpidi, in cui l´ex sindaco di Gerusalemme ha avuto un qualche ruolo.
Dunque, chi è Olmert? Ne parlavo ieri mattina con Shlomo Avneri, il decano dei politologi israeliani, in un caffè di Rehavia. E Avneri, piuttosto che fare lunghi discorsi, ha proposto un paio di paragoni. «Pensi a un Truman», diceva, «o a un Lindon Johnson. Ambedue succeduti ad uomini di grande carisma e prestigio, l´uno a Franklin D. Roosevelt e l´altro a John F. Kennedy,e anche loro del tutto sconosciuti sulla scena internazionale. Ambedue, tanto Truman quanto Johnson, vecchie volpi della politica, scaltri navigatori delle aule parlamentari, ogni tanto immischiati in rapporti non proprio leciti col mondo finanziario. Ora, che cosa avevano di sostanziale, al posto delle aureole dei loro predecessori, questi due personaggi? Avevano una mentalità pragmatica, una conoscenza profonda di come va gestito il potere. E tutto sommato furono utili al loro paese. Bene: Olmert potrebbe risultare un personaggio di questo stesso tipo, appunto un pragmatista, meno ideologizzato o avventuroso d´altri nostri primi ministri…».
Un uomo di centro, continuano a ripetere molti miei conoscenti israeliani. E "centro" suona nei loro discorsi come una parola propiziatoria, quasi una formula provvidenziale: il segno di come gran parte della società d´Israele si sia andata staccando dal vecchio bipolarismo (il Likud di destra, il Labor di sinistra) che aveva marcato negli ultimi tre decenni la vita politica del paese. «La vera novità», mi diceva infatti a Tel Aviv il professor Ephraim Yaar, il più accreditato tra i sondaggisti israeliani,«è questa spinta dell´elettorato verso il centro. Il delinearsi, a mio parere, d´una necessità storica di situarsi a mezza via. Dunque no alla sinistra - il Labor degli anni di Peres e Barak, i pacifisti del Meretz- che ha tentato senza mai riuscire a concluderlo il negoziato con i palestinesi. E un no persino più reciso ai fautori del Grande Israele, la destra che non ha mai consentito d´affrontare seriamente il problema della restituzione dei Territori occupati».
Il discorso sembra chiaro. Ma che cosa significa oggi in Israele, in termini di decisioni politiche da prendere riguardo al conflitto con i palestinesi, il "centro": cioè a dire Kadima? Significa la scelta dell´unilateralismo. Olmert non parla infatti di pace, non annuncia la minima trattativa con la parte palestinese. Ha esposto con chiarezza, con una precisione non abituale nei programmi elettorali dei partiti che si candidano al governo d´un Paese, quel che intende fare. E s´è impegnato a farlo nei quattro anni della legislatura. Ritiri progressivi dalla Cisgiordania che Israele occupa da quasi quarant´anni, smantellamento di molte colonie e di circa 70.000 coloni, tracciato dei confini definitivi dello Stato ebraico. Il tutto senza alcun negoziato con i palestinesi: né con i capi di Hamas né - se il governo di Hamas dovesse cadere - con la fazione moderata di Mahmud Abbas. Niente. Solo misure unilaterali.
Ma un conflitto come quello israelo-palestinese, può davvero essere risolto in questo modo? «A questa domanda non so rispondere», diceva il professor Yaar: «io posso dirle solo che se da un lato il 36 per cento degli elettori israeliani si dice ancora favorevole ad una ripresa del negoziato, fosse pure con Hamas, quelli che approvano invece il progetto delle decisioni unilaterali rasenta ormai il 50 per cento. L´aspirazione che prevale è questa: tagliare i ponti con i palestinesi, ultimare la costruzione del Muro, uscire dai due terzi dei Territori occupati. A voler mantenere l´occupazione sono ormai le frange dell´estrema destra, i due piccoli partiti dei coloni. Certo, anche il Likud sostiene che almeno per ora l´occupazione è una garanzia di sicurezza: ma sono parole. Il gruppo dirigente sa bene che la maggior parte dei Territori andrà prima o poi evacuata».
E´ così che la maggioranza degli israeliani va domani alle urne. Senza speranze d´un accordo di pace con i palestinesi, intenzionata a racchiudersi dietro ai blocchi di cemento e ai reticolati con cui è fatto il Muro, come se non parlare all´antagonista servisse a far scomparire l´antagonista dal proscenio. Insomma: si vota per il diciassettesimo parlamento d´Israele, e la contesa tra israeliani e palestinesi resta più o meno identica - vale a dire, almeno per ora, insanabile - a com´era quando Ben Gurion aprì nel 1948 la seduta del primo parlamento dello Stato ebraico.
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