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La Stampa Rassegna Stampa
27.03.2006 Igor Man scopre ora il doppio linguaggio di Arafat, ma le colpe restano tutte di Israele
in prima pagina sulle elezioni israeliane c'é solo disinformazione

Testata: La Stampa
Data: 27 marzo 2006
Pagina: 1
Autore: Igor Man
Titolo: «Un referendum nel segno di Sharon»

L'informazione circa le imminenti elezioni israeliane, sulla STAMPA di lunedì 27 marzo 2006, é nelle pagine pagine interne, affidata all'analisi di Fiamma Nirenstein, alla cronaca di Aldo Baquis e all'intervista ad Ehud Olmert (da noi riportati  sotto il titolo  Il rischio dell'astensionismo, l'intervista a Olmert, la minaccia del terrorismo ) 
In prima pagina, in luogo dell'informazione, c'é un editoriale di Igor Man.
Il quale scopre e scrive soltanto ora che Arafat praticava il doppio linguaggio: parole di pace in inglese e incitamenti alla jihad in arabo.  Man non rinuncia però ad attribuire a Israele l'intera responsabilità del conflitto.
Di Israele, che avrebbe danneggiato in ogni modo Abu Mazen, sarebbe persino la responsabilità della vittoria di Hamas. 
Israele in realtà ha sicuramente aiutato Abu Mazen, per esempio con il ritiro da Gaza che opportunamente Man posticipa, collocandolo dopo  la vittoria elettorale degli islamisti palestinesi.
La mancanza di trattative politiche é stata determinata dal rifiuto di Abu Mazen di disarmare i gruppi terroristici, fattore determinante, insieme alla corruzione dell'Anp, nel determinare la sua sconfitta e la sua  irrilevanza politica.
Israele inoltre, secondo Man avrà la responsabilità di eventuali future violenze, dato che tutto il paese ha rinunciato a perseguire la pace attraverso un accordo negoziato.
Si é accorto Man del fatto che l'"interlocutore" di Israele ne rifiuta l'esistenza, impugna accordi già sottoscritti (dall'Olp e dall'Anp) e rivendica il terrorismo? 
Ecco il testo:
 

Domani si vota in Israele nel segno della «svolta» di Sharon. Saranno elezioni curiosamente anomale perché a orientarle, sia a destra che a sinistra, al centro, è tuttora lui, «Arik» Sharon, ancorché in coma irreversibile.
Tutte le campagne elettorali sono state combattute, in Israele, nel nome della pace. Una pace frutto della trattativa fra Israele e la cosiddetta Autorità palestinese. La morte di Arafat, in esilio, ha sparigliato le carte. Anziché favorire il processo di pace lo ha seppellito o se non altro rinviato alle calende greche. La leadership israeliana, in consonanza con la Casa Bianca, chiaramente pensava che Abu Mazen, notabile moderato niente affatto rivoluzionario, uomo di solide finanze, «una brava persona», insomma, fosse l'interlocutore adatto. Per quel po’ che sappiamo del movimento palestinese avendolo appreso in mezzo secolo di «servizi giornalistici» nel Vicino Levante, Abu Mazen era la controparte ideale per una pace in buona e dovuta forma.
I palestinesi lo han votato senza remore, è rifuggito dal doppio linguaggio (praticato da Arafat), sapeva che la pace passa per la cruna stretta del compromesso nutrito di rinunce. Nonostante ciò, Abu Mazen non ha funzionato. Quel che non si capisce è il mancato aiuto politico e non israeliano. Ci sbaglieremo ma poco per non dir nulla ha fatto Gerusalemme per facilitare il (tremendo) compito di Abu Mazen. Gli hanno creato mille difficoltà per infine scaricarlo perché «ininfluente». Se il governo israeliano voleva un quisling, ha certamente sbagliato indirizzo. Sia come sia, il contraddittorio comportamento israeliano ha determinato un vero e proprio disastro politico: la vittoria di Hamas. Vittoria paradossale perché ottenuta per via democratica, quella via che i capintesta di Hamas han sempre rimproverato ad Arafat e al suo «clan tunisino». Da qui la (geniale) virata di bordo del premier Sharon: lo sgombero dei coloni da Gaza. Criticato persino dai suoi eterni amici americani, s'è rivelato il colpo di Sharon, l'espediente pragmatico capace forse di por fine all'empasse mediorientale.
Sull'idea, veramente rivoluzionaria, di Sharon che per realizzarla sul terreno ha fondato un suo partito, Kadima (Avanti), ha lavorato con indubbia accortezza politica il suo successore, Ehud Olmert, già sindaco di Gerusalemme. Quel politico destrorso che come scrive Le Point coltiva tre passioni: il football, il denaro, il gusto del potere. Da buon esperto di calcio, Olmert giuoca in pressing. Il recente attacco al carcere di Gerico, in Cisgiordania, aveva lo scopo di impadronirsi di Ahmed Saadat, uno dei leaders del «Fronte» di Habbash, ma mirava soprattutto a collocare Olmert, un borghese circondato da centurioni, nel novero dei politici d'azione che tanto piacciono a un paese che stravede per Tsaal.
Se, come tutto lascia prevedere, Olmert si affermerà con la sua Kadima, è lecito pronosticare un governo israeliano invero di svolta. Olmert dichiara che gli bastano quattro anni per mettere ordine in casa. Ingrandendo al pantografo il ritiro dei coloni da Gaza. Il piano di Olmert prevede il ritiro unilaterale dei coloni dalla Cisgiordania, ad eccezione di tre perché «strategici».
La continuità territoriale tra le colonie e Gerusalemme. La fissazione di frontiere permanenti secondo pressappoco il tracciato del "muro" eretto da Sharon. Israele manterrà il controllo della valle del Giordano. Codesto piano comporta rischi pesanti e le urne ci diranno se il popolo israeliano è disposto (o rassegnato) a correre anche quest'ultimo. Olmert avrà valutato il dare e l'avere? Sbaglieremo ma tutto lascia pensare ch'egli confidi nell'ignavia dei paesi arabi che, come va ricordato, hanno soltanto usato (e male) i loro disgraziati "fratelli" palestinesi. Olmert avrà messo sul conto una possibile ma breve fiammata di terrorismo e verosimilmente trascura le ripetute minacce di un ex sindaco, quel presidente iraniano dalle movenze di lupo grigio, il dottor Mohammed Ahmad Amadinejad, quel figlio del fabbro che vuol forgiare una potenza atomica islamica: l'Iran.
Per la prima volta nella straordinaria Storia di Israele il leitmotiv elettorale non è "sicurezza". E neanche pace. Si mette l'accento sull’asimmetria d'un paese nato socialista ma in fatto capitalista, dove il reddito pro capite supera i 17 mila dollari epperò oltre 400 mila famiglie sono povere: un milione e 534 mila persone, 714 mila bambini.
In questi ultimi 15 anni son diventate più ricche le imprese, non la piccola borghesia o i lavoratori. "Lasciate fare all'esercito" era lo slogan del Likud di Sharon che odiava la parola "miseria". "Combattere il terrorismo - Vincere la povertà" è oggi lo slogan del Labour. Che però non è più quello di Rabin, vincitore nel 1991 proprio in virtù della pace promessa e perseguita per scongiurare che Israele diventasse una sorta di ghetto armato (a ben guardare quelle di domani più che elezioni sono un referendum).
Non è il Simbolo che uccide la Cosa, diceva Hegel, ma è l'esatto contrario. Non vorremmo che nel caso (apparentemente scontato) d'una significativa vittoria di Kadima, la Cosa, esaltata dal successo, cancellasse il Simbolo. E cioè l'amore di pace d'un popolo coraggioso, fatto di nostri "fratelli maggiori".

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