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La Stampa Rassegna Stampa
25.03.2006 Avraham B. Yehoshua si apella alla Lega Araba
perché riproponga la vecchia formula "pace in cambio di territori"

Testata: La Stampa
Data: 25 marzo 2006
Pagina: 1
Autore: Avraham B. Yehohoshua
Titolo: «Nelle mani della Lega Araba»
Riportiamo da La STAMPA di sabato 25 marzo 2006, per completezza di informazione,  un articolo di  Avraham B. Yehoshua, senza entrare nel merito dei giudizi stroici e delle prospettive politiche  che sprime

Dopo la vittoria di Hamas alle recenti elezioni politiche noi e i palestinesi dovremo tornare sui banchi di scuola e rimetterci a studiare, al prezzo di nuove distruzioni e spargimenti di sangue, argomenti già triti e ritriti.
Si può infatti paragonare il conflitto israelo-palestinese, in corso da più di centovent’anni, a un prolungato processo di studio della legittimazione della controparte. Una legittimazione condizionata, ottenuta spesso con la forza, con guerre, battaglie e atti di terrorismo, ma che ancora tenta di strappare importanti concessioni alla controparte. Israele, affamato di un riconoscimento arabo prima della guerra dei sei giorni nel '67, dopo aver conquistato nuovi territori grazie alla vittoria in quel conflitto, non si accontentò più di realizzare tale aspirazione ma pretese che gli venisse riconosciuto il diritto a governare anche su parte dei nuovi territori.
Tale pretesa ebbe come risultato un differimento del processo di pace di parecchi anni. Lo stesso accadde ai palestinesi che, vicinissimi a ottenere il riconoscimento di un proprio stato durante i colloqui di Camp David nel 2000, si allontanarono nuovamente da quel traguardo in seguito alla pretesa di Arafat (sfociata poi nelle violenze della seconda Intifada) di includere nell’accordo di pace il ritorno dei profughi palestinesi del ‘48. Pretesa che, se accolta, avrebbe intaccato l’essenza stessa di Israele, il suo essere stato ebraico.
Ci troviamo dunque a danzare una sorta di assurdo minuetto. I partner si avvicinano, finalmente trovano una posizione in cui ciascuno può muoversi senza inciampare nell’altro, ma all’ultimo momento uno dei due fa immancabilmente uno sgambetto.
Questo è successo anche di recente. Israele, finalmente pronto a ritirarsi senza condizioni da ampie zone dei territori palestinesi con il solo scopo di calmare gli animi, di limitare le violenze, di creare l’atmosfera giusta per raggiungere accordi parziali in preparazione a un accordo definitivo, ha effettuato un primo ritiro dalla striscia di Gaza. I palestinesi, però, anziché rallegrarsene e trovare conforto nella speranza che forse il giorno in cui l’occupazione terminerà è vicino, hanno scelto Hamas, un movimento religioso integralista che non riconosce il diritto degli ebrei a insediarsi nemmeno su un centimetro di terra palestinese, e hanno riportato la situazione indietro di anni, rafforzando anche la destra estremista israeliana.
Che fare? La proposta di alcuni rappresentanti della sinistra, di cui ora mi faccio portavoce (per quanto io non sia del tutto certo che questa proposta possa essere realizzata), è di rivolgersi alla Lega Araba nella speranza che quest’ultima cerchi di imporre a entrambe le parti ciò che l'intero mondo considera come l’unica soluzione possibile: il ritorno di Israele entro i confini del ‘67 (compresi quelli con la Siria) con alcuni scambi territoriali concordati e limitati, un governo internazionale e religioso della città vecchia di Gerusalemme e la divisione della città in due capitali: una israeliana e una palestinese. Tutto questo in cambio di un accordo di pace fra Israele e tutti gli stati arabi, l’apertura di rappresentanze diplomatiche e - perché no? - l’accettazione di Israele in veste di osservatore (se non di membro) nella Lega Araba.
Allorché il 29 novembre 1947 il consiglio delle Nazioni Unite decise di dividere la Palestina in due stati - uno ebraico e uno arabo - la Lega Araba respinse drasticamente tale risoluzione e vi si oppose strenuamente. I palestinesi non si sono mai scontrati autonomamente con lo stato di Israele. Come parte della nazione araba hanno sempre considerato la loro una lotta collettiva e di conseguenza si sono sempre aspettati l’aiuto di nazioni quali la Giordania, la Siria e l'Egitto. Aiuto che, in effetti, è stato accordato in passato.
Non c’è dubbio che il mondo arabo sia a un punto fermo in termini di progresso e di integrazione nel processo di globalizzazione e tale stallo è anche dovuto al conflitto israelo-palestinese. I rapporti fra arabi e occidente risentono dell’offesa e dell’umiliazione che l’occupazione israeliana infligge ai primi e l’elezione di un movimento religioso-politico quale Hamas - nemico giurato di Israele - al governo della Palestina, può solo rinfocolare i sentimenti fondamentalisti che già serpeggiano fra milioni di arabi. Non solo la Giordania, ma anche l’Egitto e sicuramente il Libano hanno un chiaro interesse a evitare che questi sentimenti contagino anche loro, ma pure la Siria (paese laico), gli stati del Golfo Persico, l’Arabia Saudita e di certo le nazioni magrebine, sono parimenti interessate a porre la parola «fine» allo scontro israelo-palestinese. E questo, tra l’altro, per evitare che l’Iran, nazione non araba, strumentalizzi il conflitto (col quale non ha mai avuto nulla a che fare) ai fini della sua politica interna.
Il medesimo organismo che nel ‘47 aveva dichiarato guerra totale a Israele, negando ogni compromesso, potrebbe ora concedere piena e totale legittimazione allo stato ebraico, al punto di accettarlo persino come osservatore nelle proprie file. Una pace di Israele con gli stati arabi concluderebbe una volta per tutte il conflitto e permetterebbe allo stato ebraico di ritirare le sue truppe entro i confini del ‘67 in cambio della smilitarizzazione delle zone da cui si sarà ritirato. Coloni israeliani che volessero rimanere nei propri insediamenti accetterebbero la nazionalità palestinese mentre la città vecchia di Gerusalemme diventerebbe una sorta di nuovo Vaticano.
Solo la Lega Araba possiede l’autorità nazionale e religiosa per esigere da Hamas di non tornare al passato, la facoltà di emettere una «Fatwah nazionale» che libererebbe i dirigenti di Hamas dalla Fatwah islamica. Voglio credere che il nuovo governo palestinese, se intenzionato a sopravvivere nella realtà in cui si è ritrovato improvvisamente ad agire, vedrebbe con estremo favore una simile iniziativa.


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