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La Repubblica Rassegna Stampa
24.03.2006 Unilateralismo e terrorismo per me pari sono
Sandro Viola sparge veleno sulle imminenti elezioni israeliane

Testata: La Repubblica
Data: 24 marzo 2006
Pagina: 1
Autore: Sandro Viola
Titolo: «Israele verso il voto dimenticando la pace»

La pace sarà il grande assente della campagna elettorale israeliana. Nelle precedenti elezioni, almeno, i principali partiti lasciavano intravedere la speranza di un accordo, ma oggi tutti si sono allineati alla totale sfiducia dell'estrema destra, pur avendo rinunciato al sogno di una "grande Israele" motivato dal fondamentalismo religioso (in realtà il controllo dei territori é stato sempre giudicato necessario dalla maggioranza della società israliana per motivi strategici e di sicurezza, come prova il fatto che quando questi sono sembrati venir meno, si é formata una maggioranza favorevole al disimpegno). 
Sfiducia cresciuta "sulle macerie del progetto di pace di Oslo" .
Tale atteggiamento é "perfettamente speculare" a quello dei palestinesi che nella ultime elezioni politiche hanno decretato la vittoria di Hamas, ma é errato perché per arrivare alla pace con i palestienesi "bisognerà parlare".
Sono le tesi con le quali Sandro Viola inquadra le imminenti elezioni israeliane nella consueta prospettiva antisraeliana e di equivlaenza morale tra la violenza terrorista e il rifiuto di "dialogare" con chi ne fa uso.
Viola non riconosce che le ragioni del fallimento del processo di Oslo stanno nella prosecuzione del terrorismo e nell'incapacità della dirigenza palestinese di accettare il compromesso territoriale. Non vuole prendere coscienza del fatto che un interlocutore palestinese che sommi le caratteristiche della seria disponibiltà al dialogo e della credbilità quando assume impegni semplicemente non esiste al momenti.
Rifiuta di vedere la differenza tra queste realistiche constatazioni, accompagnate dalla decisione di un disimpegno, e  l'ideologia antisemita e terrorista di Hamas, che persegue l'obiettivo della distruzione di Israele, preconizza lo sterminio di tutti gli ebrei nel giorno del giudizio, legittima le stragi indiscriminate di civili.

Ecco il testo di Viola, pubblicato da La REPUBBLICA  di venerdì 24 marzo 2006:   

CI SARÀ un grande assente, alle elezioni israeliane di martedì 28 marzo. E non si tratta di Ariel Sharon, tenuto a forza e spietatamente in vita perché serva ancora da bandiera al suo partito, Kadima – nel reparto rianimazione dell´ospedale Hadassah. No: il grande assente è il cosiddetto processo di pace. Il negoziato per una soluzione del conflitto in cui israeliani e palestinesi si dibattono, grondanti di sangue, da quasi sessant´anni. È questo che salta subito agli occhi, osservando la vigilia elettorale. Ed è questo che impressiona: il fatto che non si parli più d´una trattativa di pace.
Non era così, le altre volte che ho assistito alle elezioni politiche in Israele. A non parlare di pace erano i soli partiti dell´estrema destra, che rifiutavano, come rifiutano ancora adesso, qualsiasi restituzione dei Territori occupati. Ma i due partiti maggiori, il Likud e il Labor, presentavano programmi in cui assieme alle promesse di sicurezza contro gli attacchi del terrorismo palestinese, facevano sempre balenare la speranza d´un accordo per mettere fine al conflitto. Persino la destra del Likud e lo Sharon delle sue fasi più intransigenti, si riferivano ad un "piano di pace". Prima – sino al 2004 – agli accordi di Oslo, e poi alla "road map": progetti di negoziato rimasti per anni a impolverarsi sul tappeto ma pronti, almeno teoricamente, ad essere rilanciati. E infatti, anche se con qualche differenza nell´accentuazione, gli slogan del Likud e del Labor si somigliavano: "Pace e sicurezza", "Solo la sicurezza può portare alla pace", "Non ci sarà pace senza sicurezza".
Adesso il concetto stesso d´un piano di pace sembra invece scomparso.
Ai primi esordi della campagna elettorale, Amir Peretz, il leader del Labor con un passato di pacifista, aveva detto più volte di voler riaprire il dialogo con i palestinesi. Ma il calo del suo partito nei sondaggi gli ha fatto cambiare idea, e il suo slogan è diventato: "Sconfiggere il terrorismo, combattere la povertà". Nessun accenno, quindi, ad un´eventuale trattativa. E finanche Meretz, il partito più a sinistra dello schieramento, un tempo il più coraggioso nel chiedere il ritiro dai Territori, stavolta ha imperniato la campagna sui diritti civili: il suo slogan è "La persona al centro", il tema preponderante il matrimonio tra gay.
No: sono tre giorni che parlo con i miei conoscenti israeliani, mi faccio tradurre molti manifesti elettorali, e leggo i giornali che hanno un´edizione in inglese: ma del "processo di pace" neppure l´ombra. Prendiamo ad esempio Kadima, il partito che secondo i sondaggi dovrebbe vincere le elezioni. Fondato sull´eredità politica lasciata da Sharon, il programma di Kadima non prevede infatti negoziati né eventuali accordi con i palestinesi. Prevede - come il successore di Sharon, Ehud Olmert, ha già annunciato con molta chiarezza - soltanto decisioni unilaterali da parte israeliana: i confini definitivi dello Stato ebraico, l´annessione d´alcune aree della Cisgiordania e il ritiro dal resto, una presenza militare nelle zone di maggior importanza strategica. Ma tutto questo senza neppure due chiacchiere con la parte palestinese. Niente incontri, dialogo, trattative. Spalle voltate.
D´altronde, la posizione che prevale sul versante palestinese è perfettamente simmetrica. Lì le elezioni ci sono già state, le hanno vinte gli integralisti di Hamas, e Hamas non vuole negoziare con un governo israeliano. Il partito islamico non riconosce Israele, non si sente impegnato dagli accordi intervenuti nel tempo tra israeliani e palestinesi, e anche se sul terreno è disponibile a prolungare la tregua in atto da oltre un anno, non intende rinunciare al principio della lotta armata. Se Hamas ha vinto le elezioni, è perché i palestinesi hanno capito che nei tredici anni dagli accordi di Oslo il "processo di pace" non è stato altro che un seguito di scontri sanguinosi e fragili tregue. Non ha condotto ad altro che a rendere ancora più dura, invivibile, la situazione nei Territori occupati. E dunque l´ascesa di Hamas è scaturita - né più né meno come l´affermazione in Israele del partito di Sharon, Kadima - dalle macerie d´ogni progetto di pace negoziata.
Sarà anche per questo che la vigilia elettorale qui a Gerusalemme appare insolitamente apatica. La meno vivace, la più snervata che gli israeliani ricordino. Certo: troppe cose si sono susseguite negli ultimi sette mesi. Il ritiro da Gaza con la spaccatura tra laici e sionisti religiosi, l´uscita di Sharon dal Likud e la fondazione del suo nuovo partito "centrista", il primo "ictus" di Sharon, poi il secondo che ne ha decretato la scomparsa dalla scena politica, e infine la vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi. Da questa lunga sequenza di sussulti politici, era naturale che affiorasse una stanchezza. E su questa stanchezza s´è andato formando l´umore ormai prevalente nella società israeliana. La spinta a sganciarsi tanto dai palestinesi, quanto dal fanatismo dei sionisti religiosi e dei coloni. Vale a dire: niente più sogni d´un Grande Israele, abbandono d´una gran parte della Cisgiordania, ma allo stesso tempo la porta chiusa in faccia ai palestinesi.
La novità è questa. Il "centrismo" in cui si riconosce oggi, dicono i sondaggi, la maggioranza degli israeliani. E che trova nel programma di Kadima e nella leadership del successore di Sharon, Ehud Olmert, il suo strumento politico. Fine dell´immobilismo, ma solo con decisioni unilaterali. Ritiri scaglionati dalla Cisgiordania, il rientro al di qua del Muro d´almeno 70.000 coloni (dei 220.000 che oggi vivono negli insediamenti), postazioni militari nelle zone nevralgiche.
"Altre scelte meno rischiose non ce n´è", mi dice Alexander Jacobson, professore di storia antica all´Università di Gerusalemme e brillante articolista di Haaretz: "continuare l´occupazione", spiega Jacobson, "sarebbe infatti come tenersi in grembo una bomba ad orologeria. Trattare con un governo di Hamas non sembra realistico. Così, o si va avanti come s´è fatto sin adesso, con l´allargamento delle colonie, l´annessione strisciante dei Territori (il che sarebbe, ripeto, una follia) o si esce dallo stallo con misure unilaterali, non negoziate".
In sintesi, è la linea di Kadima. Una linea difficile da condividere, perché è evidente che senza un´intesa con la parte palestinese il conflitto continuerà ad eruttare la stessa, e forse più tragica, violenza di questi anni. Ma mi ha sorpreso che persino lo scrittore Amos Elon, il quale non ha mai peccato d´ottimismo rispetto alla politica dei governi israeliani, ammette che la rottura dell´immobilismo potrebbe aprire qualche spiraglio. "Intanto", dice Elon, "la fine del tabù del Grande Israele, la rinuncia al "diritto storico" sulle terre bibliche, è un fatto nuovo. Molto più significativo di quanto non fu l´uscita da Gaza. E poi è ben possibile che i ritiri, sia pure parziali, agitino lo stagno innescando una dinamica virtuosa".
La cosa certa è che a quattro giorni dal voto l´esito di queste elezioni resta parecchio incerto. Anche perché registrano la possibilità d´una forte astensione, i sondaggi oscillano come un ago di bussola impazzito. Kadima, che sino all´altro ieri aveva il vento in poppa, è adesso in calo. Il Labor, con cui è prevedibile che gli eredi di Sharon formeranno una coalizione di centro-sinistra, arranca. Così, appare sempre più difficile che i due partiti riescano ad avere una maggioranza in Parlamento senza far posto nella coalizione ai religiosi o all´Ysrael Beiteinu di Avigdor Lieberman, il partito di destra che raccoglie quasi intero il voto dei russi. E in questo caso s´avrebbe un governo come ce n´è stati molti in Israele (e molti in Italia), impantanato nei contrasti tra le sue componenti.
Ma che le formazioni ancora opposte all´abbandono dei Territori occupati, dal Likud ai piccoli partiti dei coloni, si stiano sfaldando, questo sembra certo. Saranno i rischi demografici, il timore di diventare una minoranza rispetto ad una maggioranza araba, oppure l´intenzione di metter fine all´emorragia di risorse che oggi vanno a sostegno delle colonie, gli israeliani sono ormai consapevoli del peso insostenibile dell´occupazione. E forse consapevoli che quasi quarant´anni di sacrifici economici, di giovani vite umane cadute sui due versanti del conflitto, di tensione permanente, sono stati un terribile errore.

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