Esce un libro di Fiamma Nirenstein sul ritiro da Gaza la recensione di Elena Loewnthal
Testata: La Stampa Data: 23 marzo 2006 Pagina: 27 Autore: Elena Loewenthal Titolo: «Gaza, i giorni della frenesia»
Da La STAMPA di giovedì 23 marzo 2006:
La storia ha ritmi inafferrabili. A volte procede così lenta che sembra immobile, come fossilizzata in un eterno presente, altre volte scatta a una velocità vorticosa che confonde e sembra dettata dal caso: allora gli eventi si succedono in modo apparentemente arbitrario, in beffa a ogni possibile ordine. Da quando Fiamma Nirenstein ha affidato alla pagina scritta il resoconto e le sofferte impressioni di La sabbia di Gaza. Cronache di uno sgombero forzato (in uscita, con una prefazione di Gaetano Quagliarello, per l'editore Rubbettino, 140 pagine, 10 euro) molte cose sono cambiate. Talmente tante che in un'altra storia potrebbero comodamente essere trascorsi anni, fors'anche decenni. Ma siamo in Medio Oriente, fra Israele e i Territori Palestinesi: qui la storia è il più delle volte un improbabile acrobata sul filo dell'abisso. E così, da quando questo libro è stato scritto, Ariel Sharon ha scisso il Likud e fondato una nuova, probabilmente vincente, entità politica. Hamas ha a sua volta vinto le elezioni in Palestina, arrestando una farraginosa normalizzazione politica agli esordi sbandierando il fragore della lotta armata. Dal canto suo Sharon, il falco fattosi colomba agli occhi del mondo - ma quanto poca giustizia questa schematica sequenza rende alla sua determinazione politica - è in un letto d'ospedale: vane, ormai, le speranze di vederlo tornare sulla scena. Proprio in questo essere freneticamente superato dall'attualità, il libro di Fiamma Nirenstein trova il suo senso più forte. Diventa uno strumento indispensabile per comprendere ciò che accade oggi e che accadrà, forse, domani. Queste pagine immortalano infatti un momento cruciale: sono il diario di otto giorni o poco più. Giorni convulsi, caldi nella torrida estate israeliana. Caldi nella successione frenetica di eventi. Nei sentimenti che accompagnano il racconto, ma non certo per sdilinquire o irritare il lettore a seconda del fronte su cui questi si trova. L'approccio emotivo scelto dall'autrice è infatti la più autentica ed efficace chiave d'interpretazione dei fatti, il meccanismo che coglie tutta la particolarità di questa vicenda, lunga appena otto giorni. Otto settimane era previsto che, nell'agosto scorso, durasse lo sgombero dei coloni israeliani dagli insediamenti della Striscia di Gaza - Gush Katif -, oltre che di Sanur e Homesh in Samaria. In solo otto giorni, invece, le operazioni si sono concluse. «Per cominciare: perché il premier Ariel Sharon ha deciso di sgomberare Gaza senza ottenere in cambio neppure una promessa di pace e neppure un gesto del leader palestinese Abu Mazen contro il terrorismo di Hamas? “Perché, perché?”, ha seguitato a chiedere la gente impegnata a Gaza a resistere allo sgombero. (...) Ma l'intenzione di Sharon, spiega Eyal Gladi, è chiara: da una parte evitare che il sionismo, ovvero il progetto degli ebrei di costruire il loro Stato, si trasformi da sogno democratico in incubo a causa del quale devono dominare un altro popolo. A Gaza c'erano 8.000 coloni a fronte di quasi un milione e mezzo di palestinesi: una situazione ingestibile, a meno di non stabilire leggi che niente hanno a che fare con la democrazia. Il secondo scopo è tentare, conferendo ad Abu Mazen un nuovo territorio, di responsabilizzare la leadership palestinese, sperando che combatta il terrorismo e democratizzi le proprie strutture». «Coloni» è una parola inadeguata per descrivere quell’universo umano e naturale in cui Fiamma Nirenstein è entrata. Nelle ore più improbabili della notte quando veniva l’autobus dell’esercito a caricare i giornalisti. Dentro le case già smantellate eppure ancora vive, sopra i tappeti d’erba che chiazzavano gli abitati in bilico sulle dune di sabbia. «Coloni» è una parola inadeguata non tanto per quella connotazione spregiativa che la cronaca ha importato da una storia tutta diversa da questa. Lo è soprattutto perché in ebraico la parola mitnahalim è il participio di una radice che, con buona dose di approssimazione, significa «ricevere e/o passare in eredità» e qui si presenta in una intraducibile forma intransitiva che evoca più sudore che sfruttamento: i «coloni», nella grammatica dell’ebraico, non colonizzano in sostanza altro che se stessi. Questo, naturalmente, al di là d'ogni giudizio politico. È pur vero che il confronto fra la realtà dei fatti e le parole che la raccontano non è mai casuale ma sempre guidato da un nesso, per quanto bislacco. E anche qui le parole contano, eccome. Anche per questo, ci spiega Fiamma Nirenstein, lo sgombero dei coloni da Gaza è durato otto giorni invece di otto settimane: «A volte, all'occhio disincantato di una democrazia invecchiata, la parola diventa caricaturale slogan politico. Negli insediamenti del Gush il continuo parlare e piangere, il guardarsi negli occhi, il ricominciare ogni volta daccapo a spiegarsi senza pretendere di trovare un accordo, sono serviti probabilmente a salvare delle vite e ad evitare spargimento di sangue». Perché è proprio vero che le parole non sono pietre. Per lo meno in questa storia, raccontata da Fiamma Nirenstein come fosse un diario quotidiano. Una storia dove ci sono soprattutto occhi e parole: quelli e quelle dei soldati incaricati di eseguire lo sgombero. Di donne, uomini e bambini che su quelle dune avevano messo radici. O anche soltanto, e non è poco: costruito case. Asili d'infanzia. Serre e orti: come a Netzer Hazani, nel Nord della Striscia, dove Anita Tuckner, sgargiante regina del cherry tomato, ha fatto letteralmente fiorire il deserto. Parole e occhi di religiosi e laici. Fanatici e disincantati. Patriottici e sdegnati. Di gente che alla fine ha lasciato tutto ciò che aveva in cambio di quel patrimonio ebraico coltivato sino alla nausea per millenni, opinabile soltanto da quando esiste lo Stato d'Israele: la condizione di esuli. Alcuni di loro sono stati smistati nelle caraville (roulotte fisse: una specie di ossimoro). Altri ospitati temporaneamente negli alberghi di Beer Sheva. Tutti, comunque, in attesa di una nuova sistemazione: vecchia storia errante. Meglio di chiunque altro, in questo libro la spiega Eyyal Sarraj, «rifugiato del 1948 e famoso psicologo di Gaza che si occupa dell'effetto della guerra sulla mente dei giovani palestinesi: “Vedere i coloni strappati dalle loro case e cacciati, privati di tutto, scoprirli in veste di vittime, solleva in alcuni lo strano senso di vivere una disgrazia comune, di essere preda del medesimo crudele destino"». Il libro di Fiamma Nirenstein è davvero così: una sequenza di immagini intense, di passioni dispiegate sulla pagina. Con un occhio sempre attento all'analisi politica, alle probabili (ma mai certe) conseguenze delle cronaca. È un racconto esemplare, il suo: non solo nel chiamare in causa le proprie emozioni. Anche e soprattutto perché mette spalle al muro la coscienza del lettore e la costringe a spogliarsi d'ogni preconcetto. E dentro l'aria calda di Gaza, così come di tutto il Medio Oriente, questo denudamento è quanto mai salutare.
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