Dal FOGLIO di mercoledì 22 marzo 2006:
In questo terzo anniversario della guerra in Iraq, a Washington l’atmosfera è piena di recriminazione. Si potrebbe pensare che la questione fondamentale sia quella di trovare la strada migliore per il successo finale. Invece, ci ritroviamo a discutere se la decisione originaria di entrare in guerra sia stata giusta. Così, parteciperò anch’io alla partita. Ecco come mi piace pensare alla questione irachena: in quale situazione si troverebbe oggi il mondo se, nel 2002-2003, George W. Bush avesse deciso di non rovesciare il regime di Saddam Hussein? Iniziamo con la cosa più ovvia: Saddam sarebbe quasi certamente ancora al potere, con il pieno controllo dell’esercito, dei suoi servizi segreti e dei molti miliardi provenienti dalla vendita del petrolio. Nella prima metà del 2002, il prezzo del petrolio si aggirava attorno ai 17-22 dollari al barile. Oggi, costa più di 60 dollari al barile. Sotto Saddam, l’Iraq produceva circa due, due milioni e mezzo di barili al giorno (grosso modo la stessa quantità che produce ora). Supponendo che il ritmo di produzione fosse rimasto costante, oggi Saddam potrebbe contare su un reditto di circa 150 milioni di dollari al giorno. Con Saddam saldamente al potere in Iraq, i 5.000 soldati americani dislocati in Arabia Saudita sarebbero ancora impegnati sul loro fronte principale: la sfida lanciata da al Qaida all’Occidente. Centinaia di prigionieri affollerebbero il carcere di Guantanamo. Il conflitto israelo-palestinese continuerebbe a bruciare lentamente senza alcuna prospettiva di essere risolto. Stesso discorso per il Kashmir e la Cecenia. La gioventù musulmana immigrata in Europa occidentale continuerebbe a non trovare lavoro e gli imam europei continuerebbero a incitarla a compiere attentati come quelli di Madrid, Londra e contro gli ebrei di Parigi. L’estremismo e il terrorismo islamico infurierebbero più che mai, e il più aggressivo e irresponsabile tiranno di tutto il medio oriente sarebbe ancora in condizione di sfruttarlo. Negli anni Novanta, Saddam ha passato milioni di dollari ai terroristi palestinesi. E sebbene non possa essere provato che abbia collaborato con al Qaida prima dell’11 settembre, è stato comunque accertato che: un importante funzionario dei servizi segreti iracheni nel 1994 ha fatto tre visite a bin Laden in Sudan; in una di queste visite, bin Laden ha richiesto armi e servizi di addestramento all’Iraq; i contatti sono ripresi dopo il trasferimento di bin Laden in Afghanistan (vi è stato almeno un incontro ad alto livello nel 1998). Negli anni Novanta, Saddam ha subito le pressioni delle sanzioni, ha avuto gli ispettori sul proprio territorio ed è stato minacciato di ritorsioni da parte degli Stati Uniti. Ma tutte queste cose ora sarebbero scomparse. Le sanzioni, per esempio, dovevano essere nuovamente autorizzate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu ogni due anni. Ogni nuova autorizzazione si è rivelata molto più difficile da ottenere della precedente. Ci sono voluti mesi di attività diplomatica per convincere i russi ad accettare l’ultima autorizzazione nel novembre 2001 – soltanto due mesi dopo l’11 settembre e in un momento di grande disposizione alla collaborazione da parte dei russi. Senza ombra di dubbio, nel 2003 non ci sarebbe stata alcuna nuova autorizzazione. E in ogni caso, tenendo conto della sempre maggiore corruzione che regnava nel programma Oil for food, le sanzioni sarebbero state inutili. E non ci sarebbero state neanche ulteriori ispezioni. Saddam ha cacciato gli ispettori fuori dall’Iraq nel 1998. Li ha poi riammessi nel 2002, ma soltanto dopo che 130 mila soldati americani si erano piazzati ai suoi confini. Nello scenario senza guerra che abbiamo ipotizzato, naturalmente, questi soldati non sarebbero stati inviati e quindi non ci sarebbero state nemmeno ispezioni. L’alternativa alla guerra in Iraq non era una Mesopotamia tranquilla e non minacciosa, guidata da un dittatore ridotto all’impotenza. L’alternativa era un despota straordinariamente ricco, spaventosamente pericoloso e spavaldo, pronto a fare causa comune con i terroristi nella lotta contro il nemico occidentale. Insomma, non è affatto un’alternativa, ed è per questo che gli Stati Uniti e la coalizione hanno fatto bene a entrare in guerra e hanno valide ragioni per continuare a combattere per tutto il tempo che sarà necessario per portare a termine il lavoro.
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