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La Repubblica Rassegna Stampa
21.03.2006 Bernardo Valli, Bonini e D'Avanzo intorbidano le acque sul terrorismo
su quello antisraeliano e su quello antitaliano

Testata: La Repubblica
Data: 21 marzo 2006
Pagina: 1
Autore: Bernardo Valli - Carlo Bonini Giuseppe D'Avanzo
Titolo: «L'osceno ventre del terrore - "Al Qaeda non ha uomini che operano in Italia"»

Gli attentati  contro i militari israeliani, anche se non impegnati in azioni belliche oimpegnati nella difesa di civili, non sono, secondo la rivista dei gesuiti francesi Etudes, atti terroristici.Bernardo Valli in un articolo di presentazione del libro di Carlo Bonini e Giuseppe D'Avanzo "Il mercato della paura" sembra trovare questa tesi plausibile e "scientifica"
Ecco il testo:

L´uso della parola terrorismo, una della più inflazionate del nostro tempo, non è sempre innocente. Serve spesso ad alimentare Il mercato della paura: e questo è proprio il titolo del libro di Carlo Bonini e di Giuseppe D´Avanzo (Einaudi, pagg. 347, euro 15,50). I quali in un saggio-inchiesta di più di trecento pagine, in cui l´analisi e la narrazione si alternano, spiegano come il terrorismo sia oggi più un´ideologia che un metodo, e Al Qaeda una presenza metafisica, un´ombra ossessiva, a volte un incubo utile per alimentare la tensione, sollecitare appunto la paura, e mantenere la società in uno stato di mobilitazione permanente.
Cosa sappiamo davvero di Al Qaeda quattro anni dopo gli attentati di New York e di Washington? Esiste sul serio un´organizzazione chiamata Al Qaeda? Se esiste, come agisce, come comunica, chi la indirizza e chi la guida sul campo? La verità è che ne sappiamo meno di quanto ne sapessimo l´11 settembre. In Occidente, e nell´odierno Islam radicale, Al Qaeda, la comprensione di Al Qaeda, è stata travolta da un´ondata di disinformazione, di cinico utilizzo, al fine di stimolare un´isteria patriottarda o, all´ombra del Corano, l´amore per la morte e il sacrificio.
Fin qui ho riprodotto, quasi integralmente, alcune frasi chiave del testo di Bonini e D´Avanzo. Frasi che sintetizzano l´essenza della loro inchiesta, estesa a più orizzonti, da quello internazionale a quello casalingo, italiano. Ma prima di riprendere il filo del loro lavoro, serve soffermarsi sulla definizione del terrorismo. Non è un aspetto insignificante. Nella Convenzione sulla repressione del finanziamento del terrorismo, adottata dall´Onu il 9 dicembre 1999, si legge che è terrorismo «qualsiasi atto destinato a uccidere o a ferire gravemente un civile, o un´altra persona che non partecipa direttamente alle ostilità in una situazione di conflitto armato; quando, per sua natura o suo contesto, questo atto mira a intimidire una popolazione o a costringere un governo o un´organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto».
Questa definizione è la più soddisfacente tra quelle in cui mi sono imbattuto. Ma non le si può attribuire il valore che avrebbe se fosse quella ufficiale del massimo organismo internazionale, perché è contenuta in un documento ad hoc. L´Onu in quanto tale non l´ha mai adottata. Anzi, che io sappia, non ha mai osato avventurarsi in un´impresa semantica politicamente tanto insidiosa. Nell´Assemblea generale si scontrano tante scuole di pensiero. Evidenti interessi politici sono dietro la decisione di designare o non designare come terroristico un atto di violenza.
Per arrivare a una definizione corretta non bisogna anzitutto ragionare in quanto militante di una causa, altrimenti si finisce col chiamare terrorista quel che per il nostro avversario è un resistente, o viceversa. Non agevola l´obiettività la doppia dimensione del terrorismo che ha sempre un´impronta politica. Esso si caratterizza per i mezzi, ma ha sempre fini politici (o etici, o morali o religiosi). Se ci si limita ad analizzare i primi, ossia i mezzi, sfugge una dimensione, ossia la motivazione politica. Gli stessi atti di violenza compiuti da criminali comuni non vengono definiti terroristici.
E quelli compiuti da un esercito regolare, da uomini in divisa, al servizio di un legittimo Stato sovrano? L´interrogativo è sollevato dalla lampante omissione che si nota in un documento del Dipartimento di Stato americano in cui si legge: «il terrorismo è una violenza premeditata, politicamente motivata, perpetrata contro obiettivi non combattenti da gruppi infra-nazionali o da agenti clandestini, generalmente per influenzare una popolazione» (Pattern of global terrorism, 2003).
Sarebbero dunque terroristi soltanto coloro che non hanno una copertura statale. I militari, che per influenzare una popolazione inerme, per intimidirla, per convincerla a collaborare, o per altre ragioni, compiono azioni uguali a quelle dei terroristi, non possono essere bollati con lo stesso marchio. Nessun dubbio mi assale nel definire i kamikaze di New York, di Gerusalemme e di Bagdad, e i loro mandanti. Mi lascia invece dubbioso il fatto che basta indossare una divisa, vale a dire ubbidire a un governo legittimo, o esserne un rappresentante, per sfuggire all´accusa di terrorismo. Tenendo conto che le azioni violente ai danni di civili inermi non possono essere giustificate: né dalla legittima difesa, né dal controterrorismo, né dalla volontà di Dio, né da altri ideali. Sulla rivista dei gesuiti francesi (Etudes, novembre 2005), si legge che sono senz´altro terroristici gli attentati suicidi contro civili israeliani, ma che qualificando allo stesso modo le azioni palestinesi contro l´esercito d´occupazione «si fa della politica, non della scienza politica».
L´argomento è vasto, ricco di ambiguità, si presta alle mistificazioni. Se non è facile definire il terrorismo, come combatterlo? Come colpire un bersaglio del quale non si vedono i contorni? Quella di Bonini e D´Avanzo è un´inchiesta coraggiosa. Ha i ritmi del miglior giornalismo narrativo e lo spessore del saggio in cui si affronta il tema dominante senza il timore di urtare suscettibilità e infrangere tabù. Gli autori ci conducono nei labirinti dell´intelligence, non soltanto quella della super potenza americana. Le pagine sull´intelligence italiana raccontano, tra l´altro, il ruolo che essa ebbe nella guerra preventiva di Bush in Iraq, fornendo informazioni (sull´uranio del Niger) che avvaloravano l´esistenza delle famose inesistenti armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein.
Una vicenda sconcertante e grottesca.
Bonini e D´Avanzo descrivono le manipolazioni che hanno preceduto l´intervento militare in Iraq. Come è maturato in quel contesto politico-ideologico il gioco degli agenti segreti, dai quali si attendeva la « risposta giusta». E se non confermavano quel che era la verità ufficiale o gradita venivano (e vengono) messi da parte. Il mestiere dell´Intelligence oggi non è più, in modo prioritario, proteggere il Paese, ma spaventarlo. Più che combattere con efficacia il terrorismo, lo si usa per creare la paura. La quale viene manovrata come uno strumento politico.

Di seguito un'anticipazione del libro. Come si vede la testiomonianza di Al Libbi non esclude la presenza in Italia di gruppi terroriastici legati ad al Qaeda, nè i tentativi di quest'ultima di prendere contatto con i gruppi italuiani. Ecco il testo: 

Abu Fara´i al-Libbi è il numero tre di al-Qaeda, responsabile delle operazioni in Occidente. Dal luglio 2005 è detenuto in una prigione segreta sotto il controllo americano, dove ha cominciato a collaborare con la Cia. (...) Cosa sta dicendo? A Roma, qualcuno conosce le risposte a quegli interrogativi.
Alla fine di luglio del 2005, neppure due settimane dopo le bombe di Londra, il Sismi trasmette a palazzo Chigi un documento che la Cia ha condiviso con la nostra Intelligence militare, il Sisde e gli apparati della sicurezza. Nel documento, le notizie sono due.
Al-Libbi collabora.
Al-Libbi parla dell´Italia.
Il passaggio è cruciale. Perché, per la prima volta, una "voce di dentro" racconta se, come e quando al Qaeda abbia cercato di colpire il nostro Paese. Perché la confessione cade nel momento in cui il sangue di Londra ha rianimato i peggiori spettri di Roma, peraltro enfatizzati dalle minacce agitate sul web dalla fantomatica sigla "Brigate Abu Hafs al-Masri".
Il documento:
«Il servizio statunitense Cia ha trasmesso un documento contenente alcune dichiarazioni rese da Abu Fara´i nel corso di un interrogatorio in carcere avvenuto durante la metà del corrente mese di luglio.
«Nella circostanza, lo straniero afferma che:
Le minacce mosse dalla "Brigate Abu Hafs al Masri" contro il governo italiano hanno fatto registrare scarso interesse da parte di Hamza Rabi´a (nome completo Muhammad Rabi´a Abd Al Halim Shuwayb, incaricato della pianificazione di attentati all´estero sotto la supervisione di Abu Faraj) in merito alla pianificazione di un´azione ostile nei confronti dell´Italia, in quanto, secondo Abu Faraj, al Qaeda ha preferito verificare se le minacce delle "Brigate Abu Hafs Al Masri" avrebbero costretto gli italiani a lasciare l´Iraq o se il gruppo avesse tenuto fede alle sue minacce perpetrando un´operazione in Italia.
«Rabi´a non avrebbe pianificato attentati in Italia - Paese che rientra nella strategia generale degli obiettivi di al Qaeda poiché facente parte della coalizione Usa in Iraq - poiché non sarebbe stato in grado di comunicare con i fratelli che si trovano in Italia.
«Quando gli è stato chiesto quanto tempo al Qaeda intendeva attendere per vedere se le "Brigate Abu Hafs Al Masri" avrebbero realizzato un´operazione in Italia prima che l´organizzazione di Osama Bin Laden prendesse una propria iniziativa, Abu Faraj ha ribadito che tutto ciò che al Qaeda poteva fare era attendere, in quanto non aveva collegamenti con soggetti presenti in Italia per organizzare un´operazione.
«Abu Faraj ha dichiarato che per la prima volta ha sentito parlare delle Brigate quando hanno rivendicato gli attentati di Istanbul nel novembre 2003. Ha riferito inoltre di non essere in possesso di informazioni sul gruppo, a lui noto solo per i comunicati contro il governo italiano diffusi su Internet, né sulle sue dimensioni e sui suoi appartenenti, ipotizzando possa essere composto da fratelli nordafricani o europei che hanno militato sotto la direzione di Abu Hafs Al Masri in Afghanistan.
«Abu Faraj ha infine riferito che al Qaeda non ha mai cercato di contattare le "Brigate Abu Hafs Al Masri"».
L´ingessata sintassi del documento non impedisce di comprendere l´essenziale della confessione di al-Libbi: 1. al Qaeda non ha pianificato attentati in Italia perché «non è in grado di comunicare con i fratelli» che vivono nel nostro Paese; 2. al Qaeda «non dispone in Italia di collegamenti utili per organizzare un´operazione»; 3. non esiste alcun nesso tra al Qaeda e le "Brigate Abu Hafs Al Masri", la sigla che popola gli incubi dei nostri apparati di sicurezza e sollecita le nere previsioni di palazzo Chigi. (…) Anche per questo è una confessione «taciuta». Il racconto del «Libico» colloca il nostro Paese in una geografia del rischio che richiederebbe analisi acconce e non l´inseguirsi di allarmi tanto infondati quanto rumorosi (…) L´appunto redatto dalla Cia è un fastidioso intralcio. E´ indigesto per la prospettazione della minaccia che propone. Non sovrapponibile a una struttura identificabile (al Qaeda), ma prodotta dalla spontaneità di un jihadismo che quattro anni di guerra hanno reso più virulento e di più complicata prevenzione.
Non omogenea al coro della propaganda, alla semplificazione dei luoghi comuni, la voce di «al-Libbi» stona. Si decide dunque che resti un segreto da ricacciare nel «buco nero» da cui è emerso. La confessione del numero tre di al Qaeda è espunta dall´agenda della comunicazione ufficiale con cui l´Intelligence politico-militare mantiene la Paura tra l´autunno e il dicembre 2005 e orienta gli umori dell´opinione pubblica. Nessuno deve sapere.

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