L'Iran é la minaccia principale, l'attacco preventivo é l'ultima opzione,ma resta indispensabile Andrea Nativi analizza la Strategia della Sicurezza Nazionale americana
Testata: Il Giornale Data: 17 marzo 2006 Pagina: 13 Autore: Andrea Nativi Titolo: «Iran, l'attacco preventivo é l'arma finale di Bush»
Andrea Nativi sul GIORNALE di venerdì 17 marzo 2006 analizza la "Strategia della Sicurezza Nazionale" dichiarata dalla Casa Bianca. Ecco il testo:
L'Iran si conferma come il nemico pubblico numero uno per gli Stati Uniti. Lo afferma la Casa Bianca con la nuova edizione della “Strategia della sicurezza nazionale”, il documento che delinea le linee guida della politica di sicurezza della superpotenza. Alle accuse nei confronti dell'Iran sono dedicati diversi passi del documento, che consiste di una cinquantina di pagine. Si afferma chiaramente infatti che l'Iran è, insieme alla Siria, uno dei Paesi che sponsorizzano il terrorismo. Non solo, il governo «tirannico» di Teheran minaccia la sopravvivenza di Israele, cerca di destabilizzare la democrazia in Irak e il processo di pace in Medio Oriente, opprime il suo stesso popolo, ha violato il trattato di non proliferazione nucleare. Si evidenzia peraltro la differenza netta tra le responsabilità e le azioni dell'attuale governo e il popolo iraniano. Con il documento il presidente George Bush invia alcuni chiari messaggi a Teheran sulle conseguenze che una prosecuzione delle attuali politiche potrebbe avere. Si specifica infatti che gli Usa continueranno a prendere «tutte le misure necessarie per proteggere la propria sicurezza nazionale ed economica». Si dice esplicitamente che l'obiettivo è quello di bloccare le minacce poste dal regime iraniano, cercando nel contempo di aumentare il supporto con coloro che sono oppressi da Teheran. Ad alzare il livello del confronto con l'Iran, dopo le recenti anticipazioni di Condoleezza Rice (che anche ieri è tornata alla carica dall'Australia definendo l'Iran «una banca centrale del terrorismo»), ha provveduto anche il Congresso, la cui Commissione esteri ha appena approvato un inasprimento delle sanzioni nei confronti dell'Iran, sollevando l'opposizione della Casa Bianca, che, per ora, non vuole azioni unilaterali ma intende percorrere fino in fondo la via diplomatica che passa per il deferimento dell'Iran al Consiglio di sicurezza dell'Onu. Il documento sulla politica di sicurezza nazionale, che viene per la prima volta aggiornato dal 2002, non rinuncia alla strategia di intervento preventivo, che viene ribadita nei confronti dei terroristi e dei governi che li supportano e di tutti quei Paesi ostili che perseguono programmi per la realizzazione di armi per la distruzione di massa e relativi vettori. In particolare l'attacco preventivo è considerato legittimo, in base al concetto universale di auto-difesa, quando c'è il rischio di subire un attacco con armi di distruzione di massa, anche qualora ci siano dubbi su tempi e luoghi in cui la minaccia potrebbe concretizzarsi. E le modalità con le quali gli Usa potranno ricorrere alla forza restano le più varie, per offrire massima flessibilità e mantenere i potenziali destinatari nell'incertezza. Di certo la lettura del testo ha provocato qualche brivido nei sette Paesi che sono indicati come «tirannici»: in primo luogo l'Iran, poi la Corea del Nord, la Siria, Cuba, Bielorussia, Burma e Zimbabwe. Altri Paesi ricevono una particolare attenzione: la Cina, su cui il giudizio resta sospeso, in attesa che Pechino decida se imboccare o no la strada del confronto; la Russia, sulla cui evoluzione prevale un marcato scetticismo; il Venezuela e le sue folcloristiche e demagogiche politiche. Ma il documento del presidente George Bush si distingue anche per un marcato “addolcimento” rispetto alla precedente edizione: viene enfatizzato il ricorso alla collaborazione con gli alleati e con i Paesi democratici per affrontare le sfide alla sicurezza. Il ricorso a soluzioni diplomatiche ed economiche è il metodo preferito, mentre l'utilizzo dello strumento militare è previsto solo in caso di insuccesso. Ancora, il concetto di “esportazione della democrazia” è meno dogmatico e si riconosce, ad esempio, che non bastano elezioni democratiche per cambiare in modo stabile il corso di un Paese, come conferma il caso di Hamas. Molto spazio è dedicato alle attività di aiuto economico, alla necessità di assistere i Paesi in difficoltà a causa di catastrofi naturali, epidemie, dissesto. E le operazioni militari costituiscono solo il primo elemento di una strategia che deve prevedere il coinvolgimento nel “dopoguerra”. Nel complesso il documento è quindi molto più sofisticato, bilanciato e completo rispetto a quello del 2002, segno evidente delle «lezioni apprese», a partire da quella irachena.
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