Dalla prima pagina del FOGLIO di venerdì 17 marzo 2006 l'analisi del documento che presenta la Strategia di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca:
Milano. Nel settembre 2002 la Casa Bianca ha presentato la sua Strategia di Sicurezza Nazionale con cui ha codificato le linee guida di difesa americana nel nuovo mondo creato dagli attacchi dell’11 settembre 2001. Quella strategia conteneva l’intera e complessiva dottrina Bush attuata con fortune alterne in questi anni, nonostante sia passata alla storia soltanto per l’idea del first strike, del primo colpo, della guerra preventiva. In realtà quel documento conteneva anche la formalizzazione della politica favorevole al cambio di regime, invece che il mantenimento dello status quo dispotico. Prevedeva la parificazione tra gli stati terroristici e i paesi che ospitano, finanziano e sostengono il terrorismo internazionale. E, infine, metteva nero su bianco il vecchio motto clintoniano dell’agire multilateralmente quando è possibile, unilateralmente quando è necessario. Ieri mattina, dopo quattro anni, George Bush ha presentato il nuovo documento strategico sulla sicurezza nazionale. La novità principale di queste 49 pagine è che la Casa Bianca non ha cambiato di una virgola l’impostazione del 2002, limitandosi a tenere conto dei risultati negativi, delle questioni ancora aperte e delle sfide prossime venture. Il documento smentisce ancora una volta i pettegolezzi giornalistici su improbabili divisioni tra falchi e colombe all’interno dell’Amministrazione, tra i cattivi di Dick Cheney e i buoni di Condoleezza Rice, tra unilateralisti e multilateralisti, tra realisti e neoconservatori. Dopo l’11 settembre, la politica estera e di sicurezza americana è una soltanto ed è saldamente in mano al presidente Bush.
La nuova dottrina riafferma chiaramente il principio della diffusione della democrazia (“è la più efficace misura di lungo termine per rafforzare la stabilità internazionale, ridurre i conflitti regionali, opporsi al terrorismo e all’estremismo che lo sostiene, estendere pace e benessere”), il diritto a intervenire per prevenire un attacco (“quando le conseguenze di un attacco con armi di sterminio sono potenzialmente così devastanti, non ci possiamo permettere di oziare mentre questi seri pericoli si materializzano. Questo è il principio e la logica della prevenzione. Nella nostra strategia di sicurezza nazionale il posto della prevenzione rimane lo stesso”). Il documento inoltre spiega che talvolta bisogna agire da soli (“dobbiamo essere preparati ad agire da soli se necessario, ma riconoscendo che ci sono poche conseguenze durevoli che possiamo ottenere senza la cooperazione con i nostri alleati e i nostri partner”), ma anche che spesso sono utili le coalizioni dei volenterosi (“creare partnership ad hoc sul modello dell’iniziativa strategica sulla proliferazione per affrontare le nuove sfide e le nuove opportunità. Queste alleanze mettono in evidenza la cooperazione internazionale, non la burocrazia. Fanno affidamento su adesioni volontarie piuttosto che sui trattati. Sono orientate all’azione e ai risultati piuttosto che a fare leggi o a creare regole”).
Nella lettera di presentazione, Bush ha spiegato che la strategia di sicurezza americana è fondata su due pilastri: “Il primo pilastro è quello di promuovere libertà, giustizia, dignità umana – lavorare per porre fine alla tirannide, promuovere vere democrazie ed estendere il benessere attraverso la libertà di commercio e sagge politiche di sviluppo”. Bush ha aggiunto che “i governi liberi sono responsabili nei confronti dei loro popoli” e “non opprimono i propri cittadini, né attaccano le altre nazioni libere”. Il secondo pilastro della strategia “è quello di affrontare le sfide del nostro tempo guidando una crescente comunità di democrazie. Molti dei problemi che affrontiamo – minaccia di malattie pandemiche, proliferazione di armi di distruzione di massa, terrorismo, tratta di esseri umani, disastri naturali – attraversano le frontiere. Sforzi multinazionali efficaci sono essenziali per risolvere questi problemi. Ma la storia ha dimostrato che solo quando noi facciamo la nostra parte, gli altri fanno la loro”. A differenza del 2002, la Strategia bushiana denuncia i pericolosi passi indietro in Russia, affronta il caso Iran e scrive che il modello di sviluppo cinese non è auspicabile, perché i paesi che “cercano di separare la libertà economica dalla libertà politica” alla lunga rischiano di trasformarsi in nemici. Qui di seguito, in corsivo, i passaggi principali del documento:
La politica degli Stati Uniti è quella di individuare e sostenere movimenti e istituzioni democratici in ogni nazione e in ogni cultura, con l’obiettivo ultimo di porre fine alla tirannide nel nostro mondo. Nel nostro mondo, il carattere fondamentale dei regimi è importante quanto la distribuzione di poteri. L’obiettivo del nostro stato è quello di aiutare a creare un mondo di paesi democratici ben governati che possano rispondere ai bisogni dei loro cittadini e agire essi stessi in modo responsabile nel sistema internazionale. Raggiungere questo obiettivo è un lavoro di generazioni. Gli Stati Uniti si trovano nei primi anni di una lunga battaglia, simile a quella che il nostro paese ha affrontato nei primi anni della Guerra fredda.
Queste sono le prime parole della Strategia che individua nella promozione della democrazia l’arma principale per garantire la sicurezza nazionale. La battaglia è generazionale, come si è detto fin dall’11 settembre. La lotta al terrorismo islamista è la nuova Guerra fredda.
Il XX secolo ha visto il trionfo della libertà sulle minacce del fascismo e del comunismo. Ora la minaccia arriva da una nuova ideologia totalitaria, un’ideologia che non si basa su una filosofia laica, ma sull’alterazione di una religione orgogliosa. Il suo contenuto può essere differente dalle ideologie del secolo scorso, ma i mezzi sono simili: intolleranza, omicidio, terrore, schiavitù e repressione.
La Casa Bianca spiega la battaglia di idee in corso e descrive il fondamentalismo islamista come l’ultimo totalitarismo del secolo scorso. Un’analisi che, neoconservatori a parte, è stata elaborata da intellettutali liberal come Paul Berman, Christopher Hitchens, Thomas Friedman, André Glucksmann. Costoro, a differenza di Bush, considerano molto simili non solo i mezzi, ma anche i contenuti di queste tre ideologie totalitarie. Il documento affronta il paradosso del voto democratico a favore di Hamas, un caso che in teoria metterebbe in discussione il principio e la bontà stessa dell’idea di promozione della democrazia. I palestinesi – riconosce la Strategia – hanno votato liberamente, ma ora il peso delle scelte è sulle spalle di chi è stato eletto. Se la leadership di Hamas non riconoscerà Israele, non accetterà l’ipotesi di “due popoli, due democrazie”, il suo governo “non potrà essere considerato pienamente democratico”.
Noi abbiamo la responsabilità di promuovere la libertà umana. Ma la libertà non può essere imposta, dev’essere scelta. La forma che la libertà e la democrazia prendono in qualsiasi posto rifletterà la storia, la cultura e le consuetudini uniche del loro popolo. Gli Stati Uniti staranno sempre dalla parte di e sosterranno chi si batte per la libertà ovunque nel mondo. I nostri principi saranno coerenti, le nostre tattiche varieranno
In questo passaggio c’è prima l’idea che non esista un tasso di democrazia valido a tutte le latitudini, poi la correzione realista alla classica posizione idealista della sinistra. E’ la specificità della dottrina dei neoconservatori, i cosiddetti “liberal aggrediti dalla realtà”: in alcuni casi Washington compirà passi decisi e visibili per favorire il cambiamento immediato, in altri avrà un atteggiamento riformatore più cauto per consentire l’emergere dei prerequisiti di una società libera. La differenza di atteggiamento dipenderà da una circostanza molto precisa: se l’uno o l’altro stato avranno intrapreso la strada della democrazia o no. Il documento elenca gli strumenti pacifici per favorire la democrazia: sostegno politico e finanziario alle opposizioni, uso più oculato degli aiuti e la trasformazione dei diplomatici in agenti attivi del cambiamento.
Il primo dovere del governo degli Stati Uniti resta quello di proteggere i cittadini e gli interessi americani. E’ un saldo principio americano quello secondo cui questo dovere obbliga il governo ad anticipare e a opporsi alle minacce, usando tutti gli elementi del potere nazionale, prima che le minacce possano fare danni seri. Se il rischio è grande, grandissimo è il rischio in caso non si agisse e più impellente l’argomentazione a favore di azioni anticipate di difesa, anche se restasse incertezza su tempi e luoghi degli attacchi nemici. Ci sono poche minacce così grandi come un attacco terroristico con armi di distruzione di massa. Per anticipare o prevenire questi atti ostili da parte dei nostri avversari, gli Usa agiranno preventivamente, se necessario, nell’esercizio del loro diritto all’autodifesa. Per prevenire le minacce emergenti, gli Usa non adopereranno la forza in tutti i casi. La nostra preferenza va ad azioni non militari. Nessun paese deve mai usare la prevenzione come pretesto per l’aggressione. (…) Agire non significa usare la forza militare. La nostra preferenza e la nostra pratica è di affrontare i problemi di proliferazione con la diplomazia, di concerto con gli alleati chiave e i partner regionali. Se necessario, comunque, invocando i solidi principi di autodifesa, non escludiamo l’uso della forza prima che arrivi l’attacco, anche se rimanesse incertezza su luogo o data scelti dal nemico.
Da pagina 3, un articolo sulla situazione in Iraq:
Baghdad. Politica e guerra si sono intrecciate ieri in Iraq. A Baghdad, nel palazzo dei Congressi dove un tempo i gerarchi di Saddam tenevano le loro conferenze, il Parlamento iracheno si è riunito per la prima volta dalle elezioni del 15 dicembre. Nel nord, su una collina vicino a Samarra, gli americani hanno lanciato “l’offensiva militare più imponente dall’invasione del 2003”, con l’appoggio di battaglioni iracheni: millecinquecento uomini, cinquanta aerei e duecento blindati nell’“Operation Swarmer” per stanare i terroristi dai loro covi pieni d’armi. Due segnali forti, importanti per il processo democratico che cerca di decollare. Una terza spia s’è accesa anche sull’altro grande problema che affligge l’Iraq: l’influenza nefasta dell’Iran. Ieri il leader sciita Abdul Aziz al Hakim ha chiesto una cooperazione di Washington e Teheran sulla gestione di questa delicata transizione irachena. Subito il segretario del Consiglio di sicurezza iraniano, Ali Larijani, ha annunciato: “Accettiamo di negoziare con gli americani per risolvere i problemi in Iraq con l’obiettivo di creare un governo indipendente”. La Casa Bianca ha dato, con cautela, la sua disponibilità, precisando più volte che il dialogo, se mai ci sarà, sarà soltanto sulla questione irachena. Di certo l’influenza dei mullah iraniani – denunciata con durezza dal segretario alla Difesa americano, Donald Rumsfeld – non aiuta le trattative per la formazione del governo che dovrà arrivare in tempi stretti altrimenti, come prevede la Costituzione, decade il Parlamento. Il primo ministro incaricato dalla maggioranza sciita, Ibrahim al Jaafari, potrebbe fare un passo indietro per superare l’ostilità di curdi e sunniti, che lo accusano di non essere in grado di arginare il pericolo di una guerra civile, dopo il sanguinoso attentato alla moschea di Samarra di un mese fa. L’attesa seduta parlamentare è durata poco più di mezz’ora, ma sorrisi, abbracci, e strette di mano fra i deputati non sono riusciti a mascherare le differenze. I vestiti, invece, riflettevano maggiormente l’eterogenea composizione del Parlamento: il presidente curdo, Jalal Talabani, indossava un impeccabile abito di taglio occidentale, mentre al Hakim, il capo dello Sciri, uno dei partiti del blocco religioso che ha vinto le elezioni, vestiva come sempre con turbante e mantella da mullah. Il solenne giuramento di fedeltà al paese è stato l’unico momento che ha unito i 275 parlamentari. Neppure sul presidente dell’assemblea i partiti hanno raggiunto un accordo ed è stato nominato automaticamente il deputato più anziano, Adnan Pachachi, moderato sunnita. “Dobbiamo dimostrare al mondo che non c’è e non ci sarà una guerra civile tra la nostra gente – ha detto Pachachi – il pericolo non è ancora evitato e il nemico è pronto perché non ama vedere un Iraq unito, forte e stabile”. Poi il neopresidente è stato interrotto da Hakim, che rifiuta le accuse di settarismo. Jaafari, primo ministro uscente e entrante allo stesso tempo, incaricato di formare il nuovo governo, ha convocato i giornalisti per un annuncio a sorpresa: “Se la mia gente me lo chiedesse mi farò da parte”. Da settimane curdi, sunniti e laici legati all’ex premier, Iyyad Allawi, contestano la candidatura di Jaafari. Il problema è che se pure fossero in grado di unirsi all’opposizione conterebbero su 141 seggi, non sufficienti per la maggioranza di due terzi necessaria a formare un governo. L’obiettivo resta un esecutivo di unità nazionale che comprenda un po’ tutte le fazioni. Il dubbio sta nel mantenimento della sicurezza e nel controllo dei cosiddetti ministeri della “forza”. La Difesa spetta ai sunniti, ma lo Sciri di Hakim vuole il ministero dell’Interno. Curdi e sunniti propongono di formare un Consiglio di sicurezza nazionale con un forte potere di controllo sull’Interno e sui servizi segreti. Un segnale chiaro a guerriglieri e terroristi è venuto dal raid di oggi, mentre l’ambasciatore americano a Baghdad, Zalmay Khalilzad, vorrebbe riunire i principali leader politici, anche fuori dal paese, fino a quando non trovano un accordo che scongiuri la guerra civile. Secondo la legge i partiti hanno due mesi per formare l’esecutivo, ma Jafaari ha annunciato di poterlo fare in trenta giorni. Dalle province s’alza l’urlo degli iracheni che chiedono un governo forte, e subito.
Un'intervista a Norman Podhoretz che sostiene l'inevitabilità di un raid contro l'Iran, anche per l'azione di destabilizzazione in Iraq:
Washington. Entro poche settimane il nuovo governo iracheno dovrà nascere, altrimenti è necessario ritornare al voto: questo stabiliscono le norme costituzionali. Dallo scempio al mausoleo di Samarra, più di un mese fa, le divisioni tra le diverse comunità si sono inasprite e alcuni analisti statunitensi hanno gridato al fallimento dell’attuale processo democratico. Norman Podhoretz, tra i più autorevoli intellettuali neoconservatori, per decenni direttore di Commentary, dice al Foglio che l’Iraq raggiungerà i suoi obiettivi. “I partiti troveranno sicuramente un accordo – sostiene Podhoretz La popolazione irachena e le formazioni politiche, sia sciite sia sunnite, sanno che non hanno altra scelta se non riuscire nel progetto democratico”. I partiti non vogliono avere ancora per troppo tempo un paese tanto instabile: i terroristi lo sanno e per questo, più s’avvicina la formazione del governo, più gli attentati si fanno feroci. E gli americani ieri hanno lanciato il più grande attacco aereo dall’inizio dell’invasione, nel 2003. “Nonostante la violenza quotidiana, in Iraq non è in atto una guerra civile – sottolinea Podhoretz – Gli sciiti, oppressi per anni dai sunniti, non hanno adottato mezzi terroristici, così come non l’hanno fatto i curdi”. Gli attentati non devono distogliere l’attenzione dalla realtà politica: gli iracheni hanno scelto di andare in massa alle urne per tre volte in un anno, e d’incamminarsi sulla strada per la democrazia. L’Iraq non è minacciato soltanto da al Qaida. Ci sono anche le influenze iraniane, denunciate pochi giorni fa – per l’ennesima volta – dal segretario alla Difesa americano, Donald Rumsfeld, e tornate alla ribalta ieri, quando un leader sciita ha chiesto a Teheran di dialogare con Washington sulla questione irachena. Svelta la risposta affermativa dal negoziatore capo, Ali Larijani, accolta, “ma soltanto su questo tema specifico”, dalla Casa Bianca. Intanto la città sacra di Najaf è stata invasa da religiosi iraniani, che comprano – letteralmente – l’appoggio della popolazione. “La politica di Teheran è uno dei maggiori ostacoli nella lotta al terrorismo in Iraq – dice Podhoretz – Un attacco militare statunitense è inevitabile”, aggiunge. Le previsioni dell’intellettuale neocon sono precise: “Gli Stati Uniti decideranno di bombardare via aerea l’Iran tra meno di un anno. Ciò permetterà di ritardare le ambizioni egemoniche di Teheran per almeno dieci anni”. Al contrario di quel che dicono alcuni mass media americani, Podhoretz è convinto che gli Stati Uniti non abbiamo esaurito le proprie risorse militari in Iraq e che porteranno avanti con successo il preannunciato attacco all’Iran. “A livello politico, saranno inevitabili gli scontri tra repubblicani e democratici – spiega – Questi ultimi, che adesso denunciano il comportamento di Teheran, diranno che Mahmoud Ahmadinejhad, il presidente iraniano, non rappresentava una grande minaccia per l’occidente”. Podhoretz però non ha dubbi che l’opinione pubblica americana darà il suo pieno sostegno all’attuale Amministrazione. Le elezioni presidenziali americane sono nel 2008: prima di allora – secondo l’intellettuale statunitense – Bush dovrà vincere il pericolo nucleare di Teheran e portare a termine la guerra in Iraq. “Il presidente è un uomo che mantiene le promesse: le nostre truppe rimarranno a Baghdad fino a quando sarà necessaria la nostra presenza”. Ma è indispensabile che Bush trovi una “exit strategy” prime delle elezioni. Se i democratici dovessero vincere, potrebbero lasciare a metà l’attuale progetto di Washington.
E un'intervista a Joshua Muravchik sull'inefficace riforma della Commissione per i diritti umani dell'Onu:
New York. “Business as usual” alle Nazioni Unite. Dopo il voto dell’Assemblea generale, la nuova Commissione diritti umani dell’Onu inizierà i suoi lavori il 19 giugno. Con fierezza, come dicevano ieri molti giornali italiani, che hanno sposato con enfasi la teoria della “sconfitta di John Bolton”, ambasciatore statunitense all’Onu. Ma quel che è strombazzato con trionfalismo antiamericano come un successo “storico” è per molti, in realtà, una sconfitta dell’intera comunità internazionale. “Passeggiando tra gli scranni del Palazzo delle Nazioni a Ginevra (dove si riunirà la neonata Commissione, ndr) vedremo le solite facce: quelle dei rappresentanti di Libia, Sudan e Cina”, dice al Foglio Hillel Neuer, direttore di UNWatch, un’ong che – con i Radicali transnazionali, Freedom House e un’altra quarantina di organizzazioni – s’è opposta alla creazione di un’istituzione che di fatto non cambia nulla. Del resto l’aveva detto anche il segretario generale, Kofi Annan, ben prima di festeggiare sorridente “la storica vittoria” di mercoledì: gli stati torturatori sarebbero entrati “non per rafforzare i diritti umani, ma per proteggere loro stessi contro le critiche oppure per criticare altri paesi”. La semplice regola secondo cui chi rispetta i diritti umani può entrare in una Commissione che si batte per la loro difesa non è stata accolta, in mezzo a mille compromessi e all’ostinata opposizione di Stati Uniti e Israele, cui si sono aggiunte Palau e le Marshall Islands . Tutti gli altri si sono ritrovati d’accordo. L’Europa ha votato insieme con le dittature. Joshua Muravchik, uno dei maggiori esperti di Nazioni Unite – ha scritto un libro, “The future of the UN”, nel quale critica la tendenza dell’Onu a trasformarsi in “protogoverno mondiale” – ha detto al Foglio di non essersi per nulla sorpreso dell’atteggiamento del Vecchio continente: “I paesi europei vorrebbero una riforma vera, ma la storia impedisce loro qualunque frizione con i paesi del terzo mondo: basta ricordare che, nell’unico anno in cui gli Stati Uniti sono stati assenti dalla Commissione diritti umani, nessuno ha avuto il coraggio di inserire la parola Cina nell’agenda. Gli europei hanno gli stessi obiettivi degli americani, ma hanno paura di lottare per raggiungerli”. La mancanza di coraggio dell’Europa è storia vecchia, ma in questo caso il Vecchio Continente è entrato a far parte di quella “vergogna delle Nazioni Unite” denunciata dal liberal New York Times. Anche Matteo Mecacci, rappresentante all’Onu per i Radicali transnazionali, ha sottolineato, in un comunicato stampa, che la responsabilità di aver approvato questa “riformetta” che non cambia niente aleggia sopra i cieli europei. Anche l’Italia è stata zitta, e per questo Mecacci rilancia la necessità che Emma Bonino, leader della Rosa nel pugno, vada alla Farnesina, una possibilità per “far entrare i diritti umani e la democrazia al centro della politica estera europea”. Ben più diplomatica è Jennifer Windsor, direttrice di Freedom House, famosa ong bipartisan, che ha detto: “Il testo, come spesso accade con le Costituzioni, contiene molte ambiguità: ora tocca ai paesi democratici coalizzarsi ed evitare che i punti oscuri del testo siano sfruttati dai violatori dei diritti umani”. Impresa non facile se si considera che, con questa riforma, basterà raggiungere la maggioranza assoluta – e non i due terzi dei voti, com’era stato richiesto nella fase di negoziazione – per essere eletti nella Commissione e i paesi democratici – nella ripartizione geografica dei seggi – non potranno impedire alla Cina di rappresentare l’Asia, al Sudan di essere delegato dai paesi africani o alla Cuba di Castro di occupare il seggio dell’America Latina. In più le ong saranno sotto tiro, perché il loro contributo dovrà essere considerato “effettivo”. In altre parole – come già accaduto in passato – stati come la Russia, la Libia o il Vietnam potranno chiedere la sospensione del loro diritto di parola. Infine, la clausola proposta dai paesi islamici sulla blasfemìa che affida ai mass media la prevenzione della “diffamazione dei profeti” getta le basi per un meccanismo di controllo della stampa a livello internazionale.
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