Vittorio Dell'Uva sfrutta una buona parte del suo editoriale pubblicato dal MATTINO di mercoledì 16 marzo 2006 per "spiegare" l'assassinio del ministro israeliano Rehavam Zeevi.
Era di estrema,destra, era "xenofobo", la sua morte "vendicava" quella di un leader terrorista.
Ci sembra che in un tale resoconto un po troppe opinioni non siano adeguatamente separate dai fatti, ma se Dell'Uva avesse anche spiegato la natura del Fplp, un gruppo terroristico, il suo articolo non sarebbe forse apparso così sbilanciato, e teso a rendere "comprensibile" l'omicidio politico di Zeevi.
Ecco il testo:
Andava messo nel conto che la prima vera crisi tra Israele e Hamas potesse esplodere in maniera drammatica dopo la crescente contrapposizione dialettica e ideologica, condita con esplicite minacce e disconoscimenti reciproci. E in qualche maniera era stata anche annunciata la «guerra preventiva» del governo di Olmert, troppo esposto alle pressioni dei generali allevati alla scuola muscolare e che ancora non hanno imboccato la strada della revisione politica. Ma l’assalto con le ruspe, gli elicotteri e i corpi speciali al carcere di Gerico non rappresenta soltanto una azione di forza in linea con la strategia della neutralizzazione dell’avversario che Tel Aviv persegue e che periodicamente si materializza attraverso le «esecuzioni mirate». Il blitz, per le motivazioni che vengono date, costituisce una ipoteca israeliana sulle future scelte di politica interna dell’Anp. Non meno di Al Fatah, il movimento integralista di Hamas, chiamato al potere dal voto popolare, deve avvertire che la sua sovranità è limitata. C’è dietro l’assalto al carcere di Gerico il processo alle intenzioni più o meno inconfessabili della nuova dirigenza palestinese. Correva voce che Ahmed Saadat, il leader del Fronte popolare di liberazione della Palestina, potesse lasciare la sua cella per andare ad occupare il seggio in parlamento conquistato, senza troppa gloria, alle ultime elezioni grazie ai fedelisimi dell’ormai minuscola formazione di ispirazione marxista-leninista che ai tempi dell’Olp era stata seconda soltanto ad Al Fatah. Pressioni popolari per ottenere la piena riabilitazione non mancavano soprattutto nella fascia di Gaza. Sempre di più si diceva che il presidente Abu Mazen avesse promesso un imminente atto di grazia ad Haniyeh, il premier designato da Hamas. Oltre che un grande nemico, Ahmed Saadat è stato sempre considerato in Israele una spina conficcata nell’orgoglio nazionale, da quando in una maniera o nell’altra è fallita, anche per la necessità di compromessi imposti dai grandi sponsor americani, la caccia che gli era stata data dalla fine del 2001. Nella hall di un albergo di Gerusalemme, il 17 ottobre di quell’anno, sicari del Fronte popolare di liberazione della Palestina avevano assassinato con tre colpi di pistola il ministro del Turismo israeliano, Rehawam Zeevi, un generale della riserva collocato su posizioni di estrema destra e fautore del «trasferimento in massa dei palestinesi». Zeevi non pagava con la vita soltanto per la sua intransigenza politica con sfumature xenofobe. Il delitto di cui Saadat, capopopolo ai tempi dell’Intifada, veniva ritenuto l’ispiratore rappresentava la sanguinosa risposta alla uccisione da parte di Israele di Abu Ali Mustafa segretario generale del «Fronte» che era stato guidato per anni da George Habbash. L’Anp non aveva gradito la vendetta apertamente rivendicata dal gruppo oltranzista ritendola oltre tutto «contraria agli interessi dei palestinesi». E in qualche misura si era data da fare con l’arresto tempestivo dell’esecutore materiale e dei suoi complici. Ma Saadat, il presunto regista, aveva trovato rifugio a Ramallah, nella Muqata, il palazzo presidenziale e «prigione» di Arafat che Israele teneva sotto strettissimo assedio. A consegnarlo ai nemici il vecchio rais, non ci pensava nemmeno. Nè tradiva, nello stesso tempo un altro «ospite» di riguardo, Fuad Shubaki, a sua volta prelevato a forza ieri dal carcere di Gerico, suo consigliere finanziario accusato di avere destinato 15 milioni di dollari all’acquisto di un carico di armi intercettato al largo di Gaza. La mediazione degli Stati Uniti, dopo un braccio di ferro durato alcuni mesi, avrebbe costituito un boccone amaro per Israele. In attesa di un processo che non si è mai tenuto, Ahmed Saadat finiva assieme ai quattro condannati per l’attentato a Zeevi, nel carcere palestinese di Gerico il cui controllo era affidato ad ispettori americani e britannici che, evitando il ricorso a misure particolarmente restrittive, non impedivano al leader del «Fronte» di svolgere attività politica con periodici appelli ai palestinesi e interviste ai media locali. Ieri Israele, dopo avere indotto i «guardiani» di manica larga a farsi da parte, ha trovato che non soltanto fosse giunto il momento di saldare il conto in sospeso da anni, ma anche di spiegare ad Hamas che gli accordi sottoscritti ai tempi di Al Fatah possono in qualunque momento diventare carta straccia.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Mattino