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Il Manifesto Rassegna Stampa
10.03.2006 L'aggressione all'Iran da parte di Usa e Israele
così un quotidiano accecato dall'ideologia interpreta la crisi mediorientale

Testata: Il Manifesto
Data: 10 marzo 2006
Pagina: 1
Autore: Tommaso di Francesco
Titolo: «Perché non un déjà vu»

L'articolo di Tommaso Di Francesco sulla crisi iraniana, pubblicato dal MANIFESTO di venerdì 10 marzo 2006 é un concentrato di animosità antiamericana e antisraeliana. Non esiste nessuna minaccia iraniana, solo l'aggressività "imperialista" degli Stati Uniti e di Israele, quest'ultimo descritto come uno stato razzista e avventurista.
Ecco il testo: 

Dunque andrà al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite il cosiddetto dossier del nucleare iraniano. E' fallita infatti mercoledì la possibilità che dai 35 paesi del club nucleare dell'Agenzia internazionale dell'Onu, venisse trovato un compromesso. Fino a mercoledì il responsabile dell'Aiea El Baradei si diceva ancora ottimista su una «soluzione pacifica» capace di allontanare «l'attuale guerra di parole». Ma come, se la sede del Consiglio di sicurezza è quella che istituzionalmente è delegata, alla fine, a imporre soluzioni? Da ieri invece siamo sul crinale inclinato che passa dalla guerra di parole alle parole di guerra vere e proprie. Era purtroppo già tutto evidente dopo la prima, pesante scesa in campo del segretario di stato Usa Condoleezza Rice che ha cercato di convincere la Russia dal recedere da ogni disponibilità sull'eventuale arricchimento pro-tempore dell'uranio di Tehran. Ma soprattutto a sgombrare il campo da ogni dubbio è stata l'iniziativa «diplomatica» di Bush che in Asia ha stracciato ogni residuo barlume di credibilità del Trattato di non proliferazione, introducendo l'India nel club atomico, escludendo il Pakistan e, pesantemente, la Cina e l'Iran. Suggello finale della volontà statunitense, la dichiarazione sempre di Condoleezza Rice di ieri al Congresso «L’Iran è il pericolo più grande per gli Stati uniti» perché ha detto «è determinato a realizzare un’arma nucleare in aperta sfida alla comunità internazionale che è determinata a far sì che non ne possegga una» e che «si comporta come banchiere centrale per il terrorismo, sia che si tratti di terrorismo che agisce nel sud Iraq, nei territori palestinesi o in Libano». E’ fuori di sé Condy, perché le scelte di Tehran mettono in evidenza il fallimento della motivazione americana della guerra irachena: il Grande Medio Oriente democratico. Non sono parole di guerra, è qualcosa di più: è una motivata minaccia che mette il colpo in canna. Il segno inequivocabile che c’è sul tavolo della Casa bianca la concreta possibilità di una nuova avventura bellica, stavolta contro l’Iran, magari con l’intenzione, com ’è stato sanguinosamente per l’Iraq, di un improbabile cambio di regime. Attenzione però, non è il solito déjà vu di «smoking gun» annunciate e moniti subito ritirati e poi smentiti, che portò al precipizio della guerra preventiva all’Iraq. E’ molto, molto peggio. E questo non solo e non tanto perché Tehran dichiara che la sua scelta - di un nucleare per ora civile, ben lontano da immediate potenzialità militari - è «irreversibile», mobilita le piazze e chiede per fare marcia indietro, stavolta con l’Egitto e l’Arabia Saudita (alleati degli Stati uniti) un Medio Oriente denuclearizzato, con esplicito riferimento alle tante atomiche di Israele fuori da ogni dossier. Gli Stati uniti con il vicepresidente Dick Cheney, che ha parlato applauditissimo davanti all’Aipac, l’associazione americana filo-Israele, annunciano che l’Iran rischia «significative conseguenze»: ecco dunque anticipate le conclusioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu dei prossimi dieci giorni. Dove, nonostante questa precipitazione, la Russia e la Cina già respingono ogni ipotesi di sanzioni contro l’Iran. Ma che decisione prenderà George W. Bush stavolta, visto che è entrato in guerra con l’Iraq per inesistenti armi di distruzione di massa e ora dichiara di avere le prove che l’Iran ha «dieci bombe atomiche»? Visto che è impantanato in Iraq e che la sua credibilità sulla guerra crolla al 35% nei sondaggi interni? Il fatto è che proprio per questa crisi ha bisogno di uscire dal vicolo cieco nel quale è finito. E per questo si è di fatto già preparato. Il bilancio per le spese militari del Pentagono che ha annunciato all’inizio del 2006 non parla forse di quasi 500miliardi di dollari? La guerra preventiva, ha dichiarato lo stato maggiore americano, è una «lunga guerra», non è finita e non finirà così presto. Inoltre non è un déjà vu perché stavolta Israele, non contenta di avere bantustanizzato la Palestina, dichiara pericolosamente di voler essere protagonista: il ministro della difesa Shaul Mofaz ha infatti annunciato che «Israele è pronta a colpire», di fronte all’incapacità delle Nazioni unite di fermare l’Iran - del resto nel 1981 non ha esitato a bombardare il sito nucleare iracheno di Osirac. Né pare di vedere una qualche significativa resistenza del «pacifismo d’interessi » che vide il Vecchio Continente opporsi all’attacco a Baghdad. A quasi tre anni di distanza dalla guerra all’Iraq l’Europa, nuova e vecchia, sembra più interessata ad una riconquista - ad ogni costo? - del petrolio iraniano, che non a fermare l’unilateralità di GeorgeW. Bush. E pensare che stavolta sembrano più concrete che mai le reazioni dei rappresentanti iraniani che già durante il vertice fallito di Vienna mandavano a dire queste poco promettenti parole: «Gli Stati untiti possono avere il potere di provocare danno e dolore ma sono anche suscettibili essi stessi di subire danno e dolore. Se decidono di scegliere questo cammino che sia così», minacciando una pronta reazione «a partire dall’area». L’area? Qualcuno ha presente l’attuale, esplosivo Iraq, non solo quello sciita, del cosiddetto dopoguerra dove l’occupazione militare americana ha di fatto favorito una crescita di controllo politico e militare proprio dell ’Iran? Le domande che poniamo hanno già trovato una risposta qui, in Italia. Il presidente del consiglio Berlusconi davanti al Congresso statunitense ha ribadito che, sì, la guerra è l’ultima delle scelte ma, di fronte ad una minaccia alla pace «è giusto l’one shot», il «colpo solo», magari «in una notte» come vagheggiano gli esperti militari del Pentagono. L’Unione, quella rutellian-fassiniana, ora impegnata nella «guerra pacioccona » dei duelli televisivi, di questo pericolo non sembra allarmata. Il 18 marzo, infine, un vasto schieramento di forze, chiama il movimento pacifista in piazza per la fine della presenza militare straniera in Iraq, per lo stato di Palestina accanto a Israele che deve liberare i Territori occupati e smantellare il Muro. Sarebbe giusto che nella piattaforma entrasse la richiesta di un’area denuclearizzata in tutto il Medio Oriente insieme ad un forte No alla nuova avventura di guerra all’Iran che gli strateghi, americani e non solo, della guerra preventiva stanno preparando.

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