Il FOGLIO di giovedì 9 marzo 2006 pubblica un'analisi di Michael Ledeen sulla crisi iraniana, risolvibile secondo lui soltanto sostenendo il rovesciamento del regime da parte dell'opposizione interna. Ecco il testo:
Ieri Michael Ledeen, ricercatore dell’American Enterprise Institute esperto d’Iran, ha parlato di fronte all’International relations committee del Congresso americano per fornire dettagli e pareri sulla situazione a Teheran e sulle ambizioni nucleari dei mullah. Pubblichiamo la parte centrale del suo intervento.
Ci sono ancora alcune persone convinte che possiamo ancora trovare un modus vivendi con la Repubblica islamica dell’Iran. Vorrei che avessero ragione, ma il comportamento degli iraniani dimostra che non è così. I fanatici religiosi che governano l’Iran non hanno alcuna intenzione di fare un patto con il diavolo. Ci vogliono sottomessi o morti. Non c’è nessuna possibilità di sfuggire al loro odio, o alla guerra che hanno scatenato contro di noi. Possiamo vincere o perdere, ma nessuna combinazione di passi diplomatici, sanzioni economiche e seri negoziati può cambiare i termini di questa fatale equazione. Gli iraniani ci sconfiggeranno, oppure moriranno. E questa è la loro decisione, non la nostra. Noi dobbiamo ancora prenderla. Pochi mesi fa la Cia ha concluso che l’Iran non può produrre armi nucleari in meno di dieci anni, ma questa previsione sembra troppo ottimistica. Alcuni esperti russi ritengono che potrebbe essere una questione di mesi, e probabilmente hanno informazioni migliori delle nostre. In ogni caso, la questione nucleare è stata posta al centro del dibattito politico, come se null’altro avesse importanza. Molti leader iraniani hanno dichiarato che intendono usare le armi nucleari per distruggere Israele, e la storia contemporanea ci insegna che bisognerebbe prendere sul serio queste dichiarazioni. Un Iran nucleare diventerebbe una forza regionale molto più influente, e poiché i suoi missili ora possono raggiungere l’Europa diventerebbe anche una concreta minaccia per l’occidente. Per di più, una volta che riuscisse a montare testate nucleari sui propri missili a media gittata, l’Iran potrebbe essere in grado di puntarli contro il territorio americano sfruttando uno dei paesi latinoamericani con i quali i mullah stanno stringendo alleanze. Non fanno misteri sulla loro strategia; un paio di settimane fa, quando il leader di Hamas è stato ricevuto con onori a Teheran, è stata pubblicata una foto in cui si vede un’immagine del presidente Ahmadinejad e del leader supremo Khamenei con Castro, Morales e Chávez. I mullah sarebbero felici di lanciare una bomba atomica su Israele e di uccidere milioni di americani. Ma non hanno bisogno di bombe atomiche per uccidere gli americani. Hanno lavorato per molto tempo su altri tipi di armi di distruzione di massa e hanno senza dubbio distribuito numerosi terroristi in tutto il mondo occidentale. Non passa giorno senza che i mullah non facciano qualche infuocato discorso per spaventarci con l’annuncio di enormi ondate di terroristi suicidi diretti verso le nostre città. La Repubblica islamica ha scatenato già da molti anni una guerra contro di noi e ogni settimana uccide qualche cittadino americano. Lo farebbe anche se non avesse alcuna possibilità di sviluppare armi nucleari e continuerà a farlo anche se, per un vero miracolo, gli imbelli e sempre illusi governi d’occidente riuscissero a smantellare gli impianti nucleari clandestini e a imporre un autentico programma di ispezioni. I mullah lo faranno perché è nella loro natura. La minaccia nucleare è inseparabile dalla natura del regime iraniano. Se a Teheran ci fosse un governo democraticamente eletto, anziché una tirannia dei mullah, noi non percepiremmo nessuna urgenza sul programma nucleare o su una concreta politica americana nei confronti dell’Iran. Eppure continuiamo a discutere su come rispondere. Qualcuno si chiede addirittura se dobbiamo rispondere.
Il primo passo per forgiare una politica concreta ed efficace nei confronti dell’Iran è quello di abbandonare la pretesa che si possa arrivare a un accordo negoziato. E’ assolutamente impossibile. Gli iraniani considerano i negoziati un espediente tattico per sostenere i propri obiettivi strategici. Basta dare un’occhiata alle notizie di domenica scorsa. Secondo il Sunday Telegraph, l’Iran ha ingannato i negoziatori dell’Ue facendo loro credere di aver interrotto gli esperimenti per produrre carburante nucleare, quando continuava a installare macchine per l’arricchimento dell’uranio grezzo, come ha proclamato un importante negoziatore iraniano in un recente discorso alle personalità religiose del paese. Questa incauta autoglorificazione è stata fatta da Hassan Rowhani, il mullah incaricato dei negoziati con i francesi, gli inglesi e i tedeschi, il quale ci dimostra come gli iraniani abbiano sfruttato i negoziati per guadagnare tempo e andare avanti con il loro programma nucleare. Non hanno mai avuto alcuna intenzione di “negoziare in buona fede”. Come ha detto Colin Powell, non ci si può fidare della sincerità dell’Iran sulla questione del suo programma nucleare. E non c’è alcuna ragione per credere che possiamo contare sull’Onu per imporre le regole del comportamento civile ai mullah, tanto sulla questione nucleare quanto su quella del terrorismo. Questo ci lascia tre possibilità, che non si escludono a vicenda: sanzioni economiche, intervento militare e sostegno alla rivoluzione democratica. Io sono contrario alle sanzioni e all’intervento militare e sostengo l’appoggio alla rivoluzione. Non conosco un solo caso in cui le sanzioni siano riuscite a ottenere un significativo cambio di comportamento in un paese che ci considera nemici. Le due possibili eccezioni sono i regimi che si consideravano amici degli Stati Uniti e che volevano avere buoni rapporti con noi: il Cile e il Sud Africa dell’apartheid. Ma i regimi nemici sono insensibili alle sanzioni, che si tratti della Cuba di Castro, della Libia di Gheddafi o dell’Impero sovietico. Anzi, le sanzioni dirette contro l’economia nazionale sono controproducenti, perché non colpiscono le élite tiranniche e oppressive e danneggiano le persone che non sono nostre nemiche e che potrebbero essere la nostra arma contro i tiranni. Per affrontare i dittatori nostri nemici la regola fondamentale è: punire il regime e aiutare la popolazione (…). Io sostengo con forza l’idea di requisire i patrimoni dei leader d’Iran, perché, mentre hanno rovinato la vita di quasi tutti gli iraniani, i mullah si sono fortemente arricchiti a spese della popolazione, e una buona parte di questo denaro è stato nascosto in conti bancari all’estero. Il mio esempio preferito della avidità della classe dirigente iraniana è una tassa sulle transazioni, pari a circa il 5 per cento del prezzo d’acquisto, che finisce interamente nel fondo personale del leader supremo, Ali Khamenei (…). Nessuno pensa a un’invasione dell’Iran, ma si ipotizza la possibilità di attacchi mirati contro gli impianti nucleari. Non ho abbastanza informazioni per esprimere un giudizio su questo punto. Sottolineo soltanto che le nostre informazioni sull’Iran sono state carenti fin dalla rivoluzione del 1979, e bisognerebbe essere davvero ottimisti per basare un piano militare sulle nostre attuali informazioni d’intelligence. Gli iraniani sono maestri nell’arte dell’inganno e hanno tenuto nascosti per moltissimo tempo i loro progetti nucleari. L’intervento militare comporta enormi rischi per le imprevedibili conseguenze che potrebbe avere. Un certo numero di iraniani sarebbe pronto a combattere per la difesa della nazione, anche se odia l’attuale regime. E’ impossibile stabilire quanti prenderebbero una decisione di questo tipo. Per di più, ci sarebbero numerose vittime innocenti, e l’obiettivo della nostra strategia dovrebbe essere salvare gli innocenti e non ucciderli. E’ praticamente certo che l’Iran risponderebbe con un’ondata di terrorismo, dall’Iraq all’Europa all’America. La nostra incapacità di delineare e realizzare una seria politica iraniana ha ridotto il numero delle scelte a nostra disposizione, e potremmo essere costretti a dover scegliere tra opzioni ugualmente sgradevoli. L’Iran, che nel XX secolo ha avuto tre rivoluzioni, può vantare una lunga tradizione di autogoverno. La costituzione iraniana del 1906 potrebbe servire come modello per l’intera regione; prima della conquista del potere da parte di Khomeini, l’Iran era il paese più progressista del medio oriente, offriva notevoli opportunità alle donne e aveva un atteggiamento tollerante nei confronti delle minoranze religiose, compresi gli ebrei, i cristiani e i bahai. L’andamento demografico sembra favorire il mutamento radicale: circa il 70 per cento degli iraniani ha meno di trent’anni. Sappiamo dai sondaggi d’opinione effettuati dallo stesso regime che oltre il 73 per cento della popolazione vorrebbe una società più libera e un governo più democratico; e gli iraniani dimostrano continuamente il loro odio nei confronti del regime con proteste pubbliche, sulla blogosfera sia in farsi (la quarta più importante lingua di Internet) sia in inglese, con scioperi (il più recente dei quali è l’attuale agitazione del sindacato degli autisti di mezzi pubblici di Teheran) e talvolta con azioni violente contro le autorità. La reazione del regime è spietata, ma le proteste continuano e ci sono buone ragioni per credere che i mullah siano preoccupati (…). Tuttavia, vi sono numerose persone che mettono in dubbio le possibilità di successo di una rivoluzione democratica in Iran. I pessimisti puntano il dito su molte cose, come la mancanza di un leader carismatico, la viziosità del regime e, considerata l’urgenza rappresentata dal programma nucleare, la mancanza di tempo. Questo pessimismo è tanto strano quanto scoraggiante (…). La nostra esperienza con il comunismo sovietico ci fa ritenere che una rivoluzione può trionfare anche sotto una durissima repressione e che ci sono spesso numerosi rivoluzionari democratici, anche se noi non riusciamo a vederli. Anzi, ho il sospetto che in Iran ci siano molti potenziali leader, alcuni dei quali sono rinchiusi in carcere, mentre altri vivono in clandestinità. Ho l’impressione che si siano già fatti molti piani, sia per la rivoluzione sia per il modello di società libera che dovrà essere impiantato. E’ ciò che è avvenuto nel caso di parecchi stati satelliti dell’impero sovietico (come la Polonia e la Cecoslovacchia) e sta avvenendo nella diaspora iraniana, negli Stati Uniti come in Europa. Sarebbe sorprendente se i democratici iraniani non stessero facendo adesso la stessa cosa (…). Nessuno sa con certezza se in Iran la rivoluzione può trionfare e quanto tempo impiegherà per farlo. Ma le tirannie spesso crollano con sorprendente rapidità, e negli ultimi anni un notevole numero di rivoluzioni ha portato al rovesciamento dei tiranni in tutto il mondo. Quasi tutte queste rivoluzioni hanno ricevuto il nostro appoggio. La maggior parte delle rivoluzioni, compresa la nostra, ha avuto bisogno di un aiuto esterno per trionfare; in Iran c’è la convinzione che una rivoluzione democratica non potrà sconfiggere i mullah senza l’aiuto degli Stati Uniti. Gli iraniani attendono concreti segni di sostegno da parte nostra. Il sostegno significa, innanzitutto, una costante critica contro le azioni violente del regime e un altrettanto costante incoraggiamento della libertà e della democrazia. Troppe persone, in occidente, hanno dimenticato l’enorme impatto esercitato dalla denuncia dell’Unione sovietica come “impero del male” espressa da Ronald Reagan. L’élite intellettuale statunitense definì il discorso di Reagan stupido e pericoloso, ma i dissidenti russi ci raccontarono in seguito che per loro questo discorso aveva avuto un’enorme importanza, perché aveva dimostrato che gli Stati Uniti comprendevano la vera natura del regime sovietico ed erano impegnati a sconfiggerlo. Nello stesso modo, gli iraniani hanno bisogno di vedere che vogliamo porre fine alla Repubblica islamica. Dobbiamo dir loro che vogliamo un cambio di regime pacifico. Dobbiamo anche dire in modo molto specifico come queste rivoluzioni possono trionfare. Dobbiamo aumentare considerevolmente il nostro sostegno alle radio e alle tv private, in America e in Europa, e dobbiamo anche deciderci a usare i nostri canali radiotelevisivi come strumenti rivoluzionari. Gli iraniani devono vedere, nel dettaglio, che cosa funziona e che cosa no. Devono vedere e ascoltare le esperienze di altri rivoluzionari. Dobbiamo poi fornire i mezzi necessari per realizzare due azioni rivoluzionarie di fondamentale importanza: costruire risorse per un fondo scioperi e dare strumenti moderni di comunicazione. Il fondo scioperi non ha bisogno di spiegazioni: i lavoratori devono avere la possibilità di non andare al lavoro (soprattutto negli impianti petroliferi, nelle industrie tessili e nel settore dei trasporti) sapendo che potranno dare da mangiare alla propria famiglia per settimane. Gli strumenti di comunicazione sono computer, telefoni satellitari, server (…). L’Iran Freedom Support Act è stato un provvedimento positivo, e ritengo che possa essere ulteriormente migliorato adottando un’aperta politica di sostegno al cambio di regime in Iran e destinandovi un’adeguata quantità di risorse per dimostrare la serietà del nostro impegno. Conosco alcuni funzionari di governo che preferirebbero danzare attorno a una esplicita dichiarazione di cambio di regime come politica ufficiale degli Stati Uniti, ma chiunque consideri attentamente il linguaggio e il contenuto dell’Iran Freedom Support Act può vedere che questa è di fatto la sostanza della questione. In Iran non si può avere la libertà senza rovesciare il regime dei mullah. Sottoscrivo con decisione la proposta che il presidente affidi la responsabilità della nostra politica iraniana a una persona specifica, che avrà il compito di consigliare il presidente e di fare rapporto al Congresso. La scelta di questa persona è importante, perché gli iraniani si sentiranno incoraggiati se sarà nominato qualcuno che essi ritengono schierato al loro fianco, mentre saranno scoraggiati se verrà nominato qualcuno che ha già preso parte ai precedenti e falliti tentativi di formulare una seria politica iraniana.
Elio Bonazzi analizza le strategie della lobby pro- Iran negli Stati Uniti:
Negli Stati Uniti le lobby sono cosa seria, tanto che anche stati canaglia come l’Iran hanno centri studi e associazioni per promuovere i loro interessi. Per anni l’obiettivo di questi gruppi di pressioni è stata la “normalizzazione” dei rapporti tra Washington e Teheran, con la conseguente legittimazione del regime dei mullah. In cambio di vaghe concessioni economiche e vaghe promesse sul rispetto dei diritti umani, la Repubblica islamica ha cercato di porsi come interlocutore più o meno affidabile degli Stati Uniti. Il più filo mullah dei centri studi legati all’Iran è l’American-iranian council (Aic), con sede a Princeton, in New Jersey, creatura di Hooshang Amirahmadi, difensore della Repubblica islamica e frequente visitatore di Teheran, dove intrattiene relazioni con l’establishment teocratico. L’Aic aggrega professori d’università e businessmen legati al petrolio, che vedono nella riappacificazione tra America e Iran un’occasione per gli affari, ma non ha grosso seguito tra la comunità irano-americana – che conta quasi due milioni di persone – che chiede un cambio di regime a Teheran. Per questo, negli ultimi anni, è stata creata una nuova organizzazione, che dissemina propaganda filoregime in modo molto più sottile. E’ il National iranian-american council (Niac), con sede a Washington, creato da Trita Parsi, ex direttore dell’Aic di Amirahmadi. Lo scopo del Niac è, in apparenza, la partecipazione della comunità degli espatriati iraniani alla vita politica americana. In realtà sponsorizza e invita gli irano-americani a sostenere quei candidati di estrema sinistra che sono de facto alleati con la teocrazia dei mullah, per ragioni ideologiche, come l’opposizione al presunto imperialismo americano. Il Niac organizza frequenti ricerche sociologiche e pubblica i risultati sul suo sito web. Ogni indagine immancabilmente dimostra che gli espatriati iraniani sono per una ripresa del dialogo e delle relazioni tra Iran e Stati Uniti, il solito leit-motif che stava a cuore all’establishment teocratico cosiddetto “riformista” di Khatami. Parecchi giovani iraniani, che sperano in un regime change, sono attratti dall’aspetto professionale dell’organizzazione e dai suoi appelli, confezionati per attrarre i giovani talenti irano-americani – avvocati e medici – che per lo più non si rendono conto della strumentalizzazione cui sono sottoposti. Ci sono poi le iniziative personali, come quella di Hassan Nemazee, nato a Washington ma d’origine iraniana, finanziere multimilionario e finanziatore del Partito democratico in generale e di Bill Clinton e Al Gore in particolare. Nel giugno del 2002, Nemazee invitò il senatore John F. Kerry a un incontro dell’Aic. In seguito alle proteste della comunità irano-americana, Nemazee negò di essersi espresso in favore della “normalizzazione”, anche se il discorso era stato trascritto e pubblicato sul sito dell’Aic. Kerry però aveva già fatto suo tale concetto. Un altro personaggio di rilievo è l’italiano Giandomenico Picco, membro del consiglio di direzione dell’Aic di Amirahmadi. Funzionario dell’Onu dal 1973 al 1992 e personaggio chiave per il rilascio di ostaggi in Libano e per la pace tra Iran e Iraq nel 1988, Picco ha poi cercato fortuna nel mondo del business, ma è stato coinvolto in scandali riguardanti l’Ufficio acquisti delle Nazioni Unite. La Fox ha pubblicato un report su di lui – intimo del segretario generale dell’Onu, Kofi Annan – che mostra che, e in qualità di inviato per il progetto “Dialogo tra civiltà”, Picco avrebbe abusato del suo status, sedendo nel consiglio d’amministrazione dell’IHC Services, fornitrice dell’Onu nel quadro dello stesso progetto. Picco organizzò anche l’estemporaneo incontro tra Clinton e Khatami all’Onu, nel 2000, dal quale non scaturì la sperata riconciliazione. Con l’arrivo di Ahmadinejad la promozione di un’ipotetica riconciliazione è andata scemando. Il Niac cerca di influenzare la comunità irano-americana contro l’elargizione di 75 milioni di dollari da parte del Congresso, promessa da Condoleezza Rice, per i gruppi d’opposizione iraniani. I fondi messi a disposizione dalla fazione di Khatami per promuovere il “Dialogo tra civiltà” sono stati congelati. L’azione di fiancheggiamento del regime dei mullah è condotta dall’estrema sinistra radical, legata ai circoli comunisti americani e internazionali, che equipara la “presunta” caccia nucleare dell’Iran alle armi di distruzioni di massa di Saddam, accusando Washington di fabbricare un “caso iraniano” inesistente. Ancora una volta gli “utili idioti” di Lenin forniscono manovalanza gratuita alle forze del totalitarismo, anche ora che la teocrazia di Teheran sta mostrando il suo vero volto.
Carlo Panella il ruolo del regime di Damasco:
Damasco. Nella capitale siriana si discute liberamente solo nei ricevimenti diplomatici, il resto della città è sottoposto a un occhiuto controllo che non è soltanto della polizia e dei Servizi, ma soprattutto dei vicini di casa, dei parenti e addirittura dei militanti del Baath. Negli ultimi mesi, però, i blogger e i navigatori di Internet si sono accorti di potere disporre di improvvisi, insperati e inconsueti spazi di libertà. In rete si possono leggere critiche al regime – assolutamente inusuali e libere – e soprattutto molta propaganda islamica. In questo clima ha fatto molta impressione e creato un grande dibattito l’intervista concessa domenica scorsa dal presidente siriano, Bashar al Assad, all’agenzia ufficiale Sana: “Credo che la vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi abbia allentato la tensione sulla Siria e che la allenterà ancora di più nei prossimi mesi”. L’interesse per questa presa di posizione è molteplice, innanzitutto perché – come ritengono molti diplomatici – vede il figlio di Hafez al Assad rendere un grande merito ed esprimere gratitudine nei confronti di un’organizzazione affiliata ai Fratelli musulmani. Nel corso della rivolta degli ufficiali di Aleppo e poi nella città di Hama il 9 febbraio 1982 Hafez al Assad aveva invece risolto il problema dei rapporti con i Fratelli con due stragi e migliaia di vittime. E’ evidente che questo pubblico riconoscimento a Hamas, espresso da un premier che sino a gennaio sembrava sull’orlo del precipizio, prelude anche a un interessante novità di politica interna. Il governo, che ha subito un rimpasto il 10 febbraio scorso – la maggiore novità sono gli accresciuti poteri affidati al tecnocrate Abdullah Dardari, super ministro dell’Economia – ha infatti annunciato ufficialmente di avere in cantiere un provvedimento che legalizza il multipartitismo. E’ sempre più chiaro però che questo provvedimento sarà pilotato soprattutto a favore di organizzazioni islamiche “sotto controllo”, secondo un percorso di trattative in cui ha avuto un grosso ruolo proprio Khaled Meshall, leader di Hamas, ospitato da anni a Damasco in un rifugio segreto. La prova generale di questa apertura si è avuta il 4 febbraio scorso, quando si è visto con chiarezza che l’attacco alle ambasciate danese e norvegese è stato organizzato e portato a termine con precisione chirurgica da agenti segreti (tanto che la chiesa cattolica adiacente non è stata neanche sfiorata dagli islamici inferociti). Uno schema politico che parte dalle manifestazioni antioccidentali, per arrivare al graduale inserimento dei Fratelli musulmani ai margini del potere, ripetuto con esiti disastrosi – per l’imperizia della polizia libica – pochi giorni dopo da Gheddafi a Bengasi. Così, mentre nelle vetrine dei negozi attorno alla moschea degli Omayyadi (ma non nel quartiere cristiano), resistono i cartelli che invitano al boicottaggio dei prodotti danesi, appare sempre più chiaro che la vicenda delle “vignette” ha fornito al regime un espediente fondamentale per rovesciare una crisi che pure sembrava inarrestabile. Tra il novembre e il gennaio scorsi, dopo il rapporto della Commissione Mehlis che accusava dell’omicidio dell’ex premier libanese, Rafiq Hariri, Maher al Assad e Assef Shawqaf – fratello e cognato di Beshar al Assad – l’implosione del regime sembrava tanto imminente che Parigi e Washington avevano attivato canali discreti per trovare un’alternativa “interna” di governo. Proprio con questa ambizione – ma subito deluso da Chirac – l’ex braccio destro di Bashar, già vicepresidente Abdel Halim Khaddam, ha accusato Beshar, dalla Francia dove si trova in esilio, di essere mandante della uccisione di Hariri. Una situazione di tale gravità che, per un paradosso soltanto apparente, lo stesso governo israeliano si è preoccupato e ha comunicato a Washington e a Parigi di preferire la continuità del regime baathista, piuttosto che le incognite di un “regime change” incontrollabile in Libano e in Siria. Nel giro di poche settimane, a fine gennaio, la situazione traballante del regime si è ribaltata; non tanto grazie alle capacità di riforme interne dimostrata dal Baath, ma grazie all’impennata della situazione regionale in cui ha svolto un ruolo fondamentale il pieno e totale appoggio a Bashar al Assad espresso dal presidente iraniano Ahmadinejad che si è recato a Damasco a inizio febbraio per siglare una nuova alleanza – cementata dal negazionismo dell’Olocausto – tra Iran, Siria, Hezbollah libanesi e Hamas.
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