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Il Manifesto Rassegna Stampa
07.03.2006 La menzogna antiamericana va sempre bene
persino quella intrisa di antisemitismo de "La valle dei lupi"

Testata: Il Manifesto
Data: 07 marzo 2006
Pagina: 15
Autore: la redazione - Manlio dinucci - Danilo Zolo
Titolo: «Il film turco che fa tremare l'Europa - Abu Ghraib non é mai finita - La guerra dentro»

Un coraggioso film di denuncia dei crimini americani in Iraq, così il MANIFESTO del 7 marzo 2006 presenta il film turco "La valle dei lupi", un'opera di propaganda antiamericana e antisemita basata su falsi spudorati. Ecco il testo:

Un «incidente» diplomatico. Un tentato suicidio, la scoperta di una guerra agghiacciante. Parte da qui La valle dei lupi, il film del regista turco Sedar Aka che sta dividendo la Turchia fuori e dentro le sale cinematografiche e sta già preoccupando i governanti d'occidente. Interpretato, tra gli altri, dagli attori americani Billy Zane e Gary Busey, il film prende le mosse da un «incidente » - considerato un affronto dal dal governo turco, alleato degli Stati Uniti e membro della Nato - realmente accaduto nel luglio 2003 in una base militare americana nel nord dell'Iraq. Undici soldati delle forze speciali turche, sospettati di essere terroristi, furono costretti a indossare dei cappucci e «evacuati» dalla base sotto la minaccia dei fucili americani. Nel film tocca all' agente segreto turco Polat Alemdar indagare sull'accaduto: ricevuta una lettera dal uno degli 11 soldati che ha tentato il suicidio dopo l'umiliazione subita, Alemdar si reca in Iraq per far luce sul caso. Qui, si trova di fronte non solo a una verità indigesta - l'«incidente» sarebbe stato pilotato dal governo Usa - ma anche alla realtà di una guerra combattuta sparando sui civili inermi (in una delle scene più cruente un soldato americano fa irruzione nel corso di un matrimonio iraqueno e spara tra la folla) e calpestando i diritti umani (per la prima volta le torture del carcere di Abu Grahib sono mostrate sullo schermo). Costato 10 milioni di dollari, il film ha sbancato i botteghini in Turchia e sta conquistando un numero sempre maggiore di spettatori in Germania ma rischia di non approdare nel resto d'Europa. I governi di molti paesi europei starebbero infatti facendo pressioni perchè La Valle dei lupi - accusato di «gettare olio sul fuoco» dell'odio interreligioso dopo le ultime tensioni provocate dalle vignette sul Maometto - non venga distribuito nelle sale. E, mentre il comando americano ha già proibito ai suoi soldati in territorio europeo vederlo , la casa di distribuzione Cinemaxx ha deciso di aderire all'appello dei politici. Intanto, in Turchia, il successo del film sembra rispecchiare un più generale clima di dissenso nei confronti degli Stati Uniti, già tracimato da qualche tempo nella cultura di massa: mentre gli ultimi sondaggi mostrano che meno di un quarto della popolazione turca è favorevole alla presenza americana in Iraq, due libri che raccontano di una guerra immaginaria tra Usa e Turchia, sono da mesi in cima alle classifiche di vendita. E, se la moglie del primo ministro turco Recep Erdogan si è fatta fotografare accanto al regista alla prima del film (suscitando gli aspri commenti di molta stampa occidentale),Bahadir Ozdener, sceneggiatore del film, intervistato dal Time ha difeso La Valle dei lupi dalle accuse di antiamericanismo: «Non dobbiamo tapparci le orecchie di fronte alle grida che provengono dall'Iraq: questo film è basato su fatti reali,e invece di mostrare l'immagine che l'America vuol dare di sé, mostra quello che l'America fa realmente. Non credo che questo si possa definire 'antiamericanismo' ».

Per dare l'idea di che cosa realmente sia "La valle dei lupi" riportiamo un articolo pubblicato dal FOGLIO del 28.02.2006 e già riportato da Informazione Corretta:

 Berlino. Dalla settimana scorsa le sale tedesche della catena Cinemaax non proiettano più il film turco “Iraq, la valle dei lupi”. Quelle dell’Uci hanno invece deciso di tenerlo in tabellone, sostenute anche dall’associazione registi tedeschi. L’appello del ministro degli Interni bavarese, Günther Bechstein, che sin da subito aveva chiesto il ritiro del film, è stata dunque almeno in parte accolto. Secondo Bechstein il messaggio profondamente antiamericano e antisemita del film non è ammissibile in Germania. Gli ha già risposto l’eurodeputata liberale Koch- Mehring, affermando che, per quanto la critica sia fondata, il film va combattuto sul piano dialettico e non con la censura. L’allarmismo del ministro bavarese è nato dal grande successo che il film ha riscosso anche nella comunità turca in Germania. Se nella sola prima settimana in Turchia oltre un milione di spettatori erano andati a vedere il film di Serdar Akar, anche i connazionali all’estero hanno mostrato lo stesso entusiasmo. Il film è uscito da poco più di due settimane in Germania e i cinema dei quartieri berlinesi a maggioranza turca, stanno registrando fin dall’inizio il tutto esaurito. La pellicola proiettata in lingua originale (i tedeschi devono accontentarsi dei sottotitoli) attira intere famiglie, nonni e ragazzi compresi. Nessuno sembra volere perdere la storia del coraggioso agente Polat Alemandar – già eroe di una seguitissima fiction televisiva trasmessa via satellite anche in Germania, in cui dà la caccia a terribili organizzazioni mafiose – spedito in Iraq per vendicare un gruppo di ufficiali turchi catturati dagli americani e poi sottoposti a un trattamento ispirato ai fatti del carcere di Abu Ghraib. La critica turca ha osannato il film e il quotidiano Vatan ha scritto: “Chi va a vederlo amerà il proprio paese ancora di più”. In Germania i mass media sono allarmati. C’è chi teme che il suo palese antiamericanismo scateni a posteriori la reazione che per fortuna non c’è stata per le vignette danesi. Chi vede – in scene come quelle in cui il medico ebreo americano espianta organi a prigionieri coscienti, per venderli a ricchi ebrei – una chiara incitazione all’antisemitismo. Per Anil Sahin di origine turca e proprietario della Maxximum Film und Kunst Gmbh, distributore unico in Europa, le preoccupazione dei media sono solo una montatura. Non così la pensano i giornali, che si occupano del film quasi quotidianamente. La Frakfurter Allgemeine, normalmente piuttosto pacata nei toni, ha inviato un suo uomo in sala e ha dedicato al film anche un editoriale in cui si leggeva: “Non succede spesso che nei cinema tedeschi scoppino applausi a scena aperta perché un ufficiale americano è accoltellato. E invece è quello a cui si assiste in questi giorni in alcune delle 65 sale che hanno in tabellone “Iraq, la valle dei lupi”. Ad applaudire c’è un pubblico prevalentemente giovane e quasi esclusivamente turco. L’inviato in sala, Faz Eberhard Rathgelb, ha vissuto sulla pelle “la sensazione di essere ormai io parte di una minoranza”. “Adesso inizio ad avere le mie prime difficoltà di integrazione tra i turchi di Berlino. Sentivo parlare lo sceicco dallo schermo, che incitava a non arrendersi davanti al nemico occidentale, e pensavo ai problemi che io e quelli più giovani di me avremo tra qualche decina d’anni. Problemi che non saranno più semplicemente confinati a una sala cinematografica di Neukölln, ma si estenderanno a ogni aspetto della realtà quotidiana”.

La disinformazione sulla guerra in Iraq trionfa sull'edizione odierna del quotidiano comunista, attraverso la distorsione delle (già dubbie e parziali) denunce di Amnesty International. Ecco l'articolo di Manlio Dinucci sull'argomento:


«Mi hanno legato le mani dietro la schiena con un cavo e tirato su con una catena appesa al soffitto. Mi hanno quindi bagnato e sottoposto a scosse elettriche alle gambe e altre parti del corpo. La prima volta sono svenuto. Mi sembrava di cadere dall'alto di un edificio, la testa mi scoppiava, non ero in grado di camminare»: così racconta l'imam iracheno Karim R. (47 anni) il quale, dopo essere stato imprigionato e torturato dalle forze statunitensi nell'ottobre 2003 a Baghdad, è stato rilasciato senza alcuna incriminazione per essere di nuovo imprigionato e torturato nel maggio 2005 da forze del ministero dell'interno che lo hanno costretto a «confessare» davanti a una telecamera. È questa una delle testimonianze su cui si basa il rapporto Beyond Abu Ghraib: detention and torture in Iraq, diffuso ieri da Amnesty International. Il documento denuncia che «circa tre anni dopo che gli Stati uniti e le forze alleate hanno invaso l'Iraq, la situazione dei diritti umani nel paese rimane disastrosa». Le immagini dei detenuti torturati ad Abu Ghraib, diffuse per la prima volta nell'aprile 2004, suscitarono nel mondo una ondata di orrore, costringendo i militari statunitensi a svolgere un'inchiesta che confermò «il sistematico e illegale abuso dei detenuti» imprigionati in quel carcere tra l'agosto 2003 e il febbraio 2004. I responsabili delle torture e uccisioni, sottolinea Amnesty, anche quando sono stati processati hanno avuto condanne estremamente lievi: un militare addetto agli interrogatori, responsabile dell'uccisione di un detenuto, ha avuto una multa di 6mila dollari e 30 giorni di «confino» tra casa, ufficio e chiesa. Successivamente, nel rapporto presentato nel giugno 2005 alla Commissione delle Nazioni unite contro la tortura, il Dipartimento Usa della difesa ha dichiarato di aver «migliorato le operazioni di detenzione in Iraq e altrove, sulla base delle lezioni apprese». La documentazione raccolta da Amnesty dimostra però che in Iraq le torture e uccisioni sono continuate dopo che sono venuti alla luce i casi di Abu Ghraib. Tra i nuovi, verificatisi nel 2005, vi è quello di quattro palestinesi, sospettati di un attentato, prelevati di notte dalle loro case a Baghdad dalle brigate wolf: sono stati messi in una stanza con acqua sul pavimento da cui passava corrente elettrica e sottoposti a bruciature in tutto il corpo. Alle torture era presente un ufficiale statunitense. Mentre erano incappucciati, sono stati costretti a firmare un documento in cui hanno «confessato» di aver compiuto altri cinque attentati. Il loro avvocato ha però successivamente dimostrato che questi attentati non si erano mai verificati. Le condizioni fisiche dei quattro detenuti sono tali che il responsabile di un centro di detenzione si è rifiutato di prenderli in consegna. Risultano ancora vivi, a differenza di tanti altri, come il religioso sunnita Hassan al-Nuaimi, torturato e assassinato nel 2005 con un trapano. In situazioni come queste si sono trovati e si trovano decine di migliaia di iracheni. Solo in base ai fascicoli esaminati da una commissione congiunta statunitense-irachena tra l'agosto 2004 e il novembre 2005, i detenuti risultano 22mila. Di questi, 14mila sono «internati in condizioni di sicurezza». Essi sono imprigionati in «quattro principali centri di detenzione sotto controllo statunitense»: Abu Ghraib e Camp Cropper a Baghdad, Camp Bucca vicino a Bassora, Fort Suse vicino nei pressi di Suleimaniya. Oltre che in questi centri, «le forze Usa tengono i detenuti temporaneamente in varie sedi di brigata e divisione sparse in tutto il paese». Un piccolo numero viene detenuto anche dalle forze britanniche a Camp Shualba. «Nonostante la retorica precedente la guerra e le giustificazioni portate dopo l'invasione dai leader politici statunitensi e britannici - conclude Amnesty International - sin dall'inizio le forze occupanti hanno attribuito un peso insufficiente alle considerazioni sui diritti umani: la Forza multinazionale ha stabilito procedure che privano i detenuti dei diritti umani garantiti dal diritto e gli standard internazionali». Chissà cosa avrà pensato Tony Blair leggendo il rapporto. Anche lui, come il presidente Bush, si è detto ispirato da Dio nel decidere sulla guerra in Iraq e che «sarà Dio a giudicarmi». Dovrebbero però intanto essere gli uomini a farlo, deferendo Bush e lui davanti al Tribunale internazionale sui crimini di guerra.

E' da ricordare che le violazioni dei diritti umani  denunciate sarebbero avvenute per lo più  nelle prigioni irachene, alcune delle quali sono state scoperte e chiuse dalle forze statunitensi. E che i responsabili americani di abusi sono stati, quando scoperti, sottoposti a giudizio e rimossi dai loro incarichi.

In prima pagina Danilo Zolo trae le conclusioni accusando di "barbarie" la guerra al terrorismo. Numerosi i falsi anche in questo editoriale, a cominciare dalla falsificazione delle posizioni di Alan Dershowitz, che non è certo un sostenitore dell'uso sistematico e indiscriminato della tortura, ma soltanto del suo uso controllato, e giuridicamente regolato, per ottenere informazioni indispensabili a fermare attentati imminenti. Se le proposte del giurista americano fossero state accettate, probabilmente, le degenerazioni e gli abusi di Abu Grhaib non avrebbero avuto luogo. Ecco il testo:

La sezione britannica di Amnesty International, in un rapporto di 48 pagine, denuncia quello che sinora in Occidente nessuno aveva voluto ammettere: la lezione di Abu Ghraib non ha avuto il minimo effetto. In Iraq 14.000 detenuti sono tuttora privati dei loro più elementari diritti. Le forze di occupazione inglesi e statunitensi li tengono in carcere senza averli mai incriminati o processati. Drammatiche testimonianze di ex prigionieri documentano che in Iraq le torture sono sempre all'ordine del giorno. Alcuni hanno riferito di essere stati percossi con cavi di plastica, torturati con scosse elettriche, rinchiusi in stanze allagate dove nell'acqua veniva fatta passare la corrente. Fra questi, 200 sono prigionieri da più di due anni, e quasi 4.000 da più di un anno. «Mantenere in carcere un così ampio numero di persone senza garanzie legali è una grave omissione di responsabilità da parte delle forze americane e britanniche», denuncia Kate Allen, direttore di Amnesty International per la Gran Bretagna. Queste notizie completano uno scenario sempre più tetro nel quale le infamie di Guantanamo, di Abu Ghraib, di Camp Bondsteel, di Polj-Charki, di Bagram appaiono come una realtà diffusa, programmata e strategicamente motivata. La guerra contro il «terrorismo globale» condotta dagli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali è ormai apertamente terroristica. Per convincersene è sufficiente scorrere il recente documento del Pentagono: il Quadrennial Defense Review Report.

La guerra che viene annunciata al mondo per il prossimo futuro è una long war, terroristica nel significato convenzionale per cui l'uso delle armi di distruzione di massa ha come obbiettivo la strage di migliaia di civili innocenti. E lo è nel significato più ampio e drammaticamente attuale di una guerra che diffonde il panico nella forma di una sistematica violazione dei più elementari diritti dell'uomo. La «lunga guerra» si annuncia come una «guerra irregolare», invasiva, capillare, invisibile perché combatte un nemico infido e spregevole, presente in ogni angolo della terra e ovunque minaccia i valori e gli interessi dell'Occidente.

Qualsiasi mezzo per distruggere le metastasi del «terrorismo globale», per scardinarne le strutture è non solo politicamente legittimo ma è legittimato «da Dio stesso», esterna Tony Blair. Come ha scritto Alan Dershowitz, occorre infliggere ai terroristi sconfitte severe, inabilitare i suoi militanti arrestandoli o uccidendoli, usare la tortura e le rappresaglie collettive.

Così le guerre scatenate in questi anni dagli Stati Uniti e dai loro alleati rientrano in un unico paradigma strategico: quello di una «lunga guerra», motivata da clamorose imposture umanitarie e imponenti campagne ideologiche, per coprire stragi di civili, occupazione militare dei paesi sconfitti, depredazione di risorse energetiche, controllo di strutture politiche e giudiziarie, frammentazione di territori. Se i piani del Pentagono avranno successo, sarà una «lunga guerra dentro»: rischia di non concludersi se non con la fine della civiltà occidentale.



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