Le inaccettabili minacce di Gheddafi le denuncia Piero Ostellino
Testata: Corriere della Sera Data: 07 marzo 2006 Pagina: 1 Autore: Piero Ostellino Titolo: «Avvertimenti inaccettabili»
Dal CORRIERE della SERA di martedì 7 marzo 2006:
Il governo del colonnello Gheddafi sarebbe stupito della presenza sui nostri giornali di giornalisti che «ostentando un'origine araba hanno preconcetti e danno giudizi che hanno tutta l'apparenza di essere il prodotto di elaborazioni non proprie». Il senso della nota dell'Ufficio Popolare della Grande Jamahiriya Araba Libica Popolare Socialista è fin troppo chiaro. Da un lato, segnalare l'«origine araba» di chi scrive sui nostri giornali di questioni islamiche come un'aggravante, della quale non è difficile cogliere il risvolto non solo politico, ma religioso: l'apostasia; un «peccato» che, per la legge islamica, ha la rilevanza anche civile di un crimine da punire con la morte. Dall'altro, insinuare che le sue analisi siano una sorta di operazione propagandistica condotta da una fonte esterna, della quale il giornalista sarebbe il colpevole strumento, contro la Libia e più in generale il mondo islamico. Infine, la nota del governo di Tripoli ha il senso di un avvertimento nei confronti di chi, in quanto di «origine araba», dovrebbe tacere, ben sapendo a che cosa rischia di andare incontro. Ci sembra persino superfluo dire che, per quanto ci riguarda, noi del Corriere respingiamo tutte e tre le implicazioni che ci sembra di cogliere fin troppo chiaramente nella nota. Tanto per essere chiari. Il governo libico ha tutto il diritto sia di risentirsi delle esternazioni di chi inopportunamente ironizza sulla religione islamica, tanto più se si tratta di un ministro della Repubblica, sia di criticare ciò che del mondo arabo scrivono i giornali italiani. Ma non ne ha alcuno per chiedere e soprattutto per ritenere che, in nome dei buoni rapporti fra l'Italia e la Libia, il nostro governo possa limitare il diritto alla libertà di espressione dei suoi cittadini — anche là dove tale diritto si esprima in modo inopportuno — ovvero che i nostri giornali rinuncino a esercitare il proprio diritto a una libera informazione, tanto meno se riferita alle origini arabe di un suo giornalista. Finora, c'era stata, da noi, la diffusa tendenza a interpretare parole e comportamenti del colonnello Gheddafi e del suo governo — anche in occasione dell'assalto al nostro consolato di Bengasi — in una doppia chiave. Interna, di fronte all'offensiva dell'integralismo che ne minaccerebbe la stabilità; interpretazione che spiegherebbe la cautela con la quale il nostro governo ha reagito alle violenze di piazza libiche. Esterna, in funzione delle riparazioni che la Libia rivendica da sempre nei confronti dell'Italia per il suo passato coloniale. Ma, ora, diventa difficile continuare a conferire anche alla nota della Jamahiriya un significato altrettanto limitativo. Qui, siamo di fronte a due opposte concezioni del mondo — la nostra e quella libica — difficilmente conciliabili e sanabili sul piano dei rapporti diplomatici e politici bilaterali fra i due Stati. La nostra concezione, che non attribuisce un significato piuttosto che un altro al lavoro di un giornalista a seconda che egli sia di origini italiane o arabe e assegna alla direzione del giornale per il quale egli lavora e ai suoi lettori il giudizio su quello che scrive. La concezione libica, che assegna allo Stato tale compito. No, colonnello Gheddafi, su questo piano non ci si intenderà mai.
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