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Il Foglio Rassegna Stampa
07.03.2006 Ahmadinejad può contare su El Baradei, Hamas su Chirac
e intanto i liberal americani scoprono le virtù della democratizzazione del Medio Oriente e della politica neocon

Testata: Il Foglio
Data: 07 marzo 2006
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «Le bombe ottimiste - La Francia saudita»

Dal FOGLIO di martedì 7 marzo 2006, un articolo spiega perché l'"accordo" che El Baradei ritiene possibile tra comunità internazionale e Iran sarebbe in realtà un cedimento a Teheran :

Roma. C’è un’unica certezza in tre anni di negoziati, risoluzioni, D day annunciati e rimandati sul dossier nucleare di Teheran: quando arriva il turno di Mohammed ElBaradei, il Nobel che freme a sentir parlare di politica muscolare, l’Iran può tirare un sospiro di sollievo. Quando un rapporto dell’agenzia certifica l’estensione delle operazioni di arricchimento dell’uranio e sentenzia che gli ispettori dubitano della natura pacifica del programma iraniano, il direttore smussa e minimizza, evita di parlare del deferimento del dossier di fronte al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Bisogna pensare positivo, insomma, anche se John Bolton, ambasciatore americano all’Onu, dice che è vietato abbassare la guardia con Teheran; anche se, secondo Haaretz, Washington starebbe già preparando le prove per dimostrare in sede Onu che la corsa all’atomica dell’Iran è ben lanciata. Ma ieri, all’apertura di una riunione dell’Agenzia atomica già indebolita da dissonanze transatlantiche e morbidezze europee e in attesa dell’incontro tra Condoleezza Rice, segretario di stato americano, e Sergej Lavrov, ministro degli Esteri russo in visita a Washington, ElBaradei ha premiato la strategia dilatoria di Teheran. Dichiara di essere ottimista: l’Iran collabora, c’è trasparenza e le iniziative diplomatiche sono a buon punto. Tempo una settimana e l’accordo potrebbe essere fatto. Inutile accanirsi, bisogna essere “realisti”, cioè concedere a Teheran l’arricchimento su piccola scala. L’Iran – ha puntualizzato – vuole solo tremila centrifughe per le installazioni di ricerca, cosa ben diversa da un piano d’arricchimento industriale. La sua Aiea, Washington, la troika europea e, con accenti diversi, Mosca e Pechino invitano l’Iran a sospendere l’arricchimento, ma ElBaradei rassicura: “Dobbiamo abbandonare la nozione che sia moralmente riprovevole per alcune nazioni entrare in possesso di armi di distruzione di massa e che invece altri stati se ne possano dotare per garantire la propria sicurezza”.
Confortati dall’autorevole avallo, gli iraniani ribattono. “Non mostreremo alcuna flessibilità sulla ricerca e lo sviluppo”, ha detto l’ambasciatore all’Aiea, Ali Ashgar Soltanieh, mentre il ministro degli Esteri, Manuchehr Mottaki, si rallegrava: “E’ un passo avanti, finalmente qualcuno ha guardato in modo costruttivo alla questione”.

Un altro articolo spiega il fallimento e la pericolosità della politica araba di Jacques Chirac, che apre ad Hamas e rende omaggio alle istituzioni medievali dell'Arabia Saudita


Roma. Ci sono istituzioni che non s’addicono a un leader politico occidentale, il Majlis as Shura per esempio, il Consiglio della Corona dell’Arabia Saudita: i suoi 150 membri (tutti uomini) sono nominati dal re e non esercitano alcun tipo di potere. Da anni l’opposizione saudita definisce il Majlis la “foglia di fico” di una democratizzazione che né re Fahd né re Abdullah vogliono iniziare. Jacques Chirac – che di certo non sarebbe accolto con gli stessi onori al Congresso americano – ha scelto questo consesso per un discorso che segna il degrado terminale della sua “politique arabe”. Su Hamas, Chirac ha enunciato una posizione in conflitto con l’Unione europea: “So bene che c’è chi valuta l’applicazione di sanzioni all’Anp, nel caso Hamas non riconosca Israele e gli accordi di Oslo, ma io sono ostile alle sanzioni in generale e ancor più in questo caso”. L’opposto della linea del “quartetto” (Onu, Ue, Stati Uniti e Russia) e proprio nel momento in cui, alla prima sessione del Parlamento palestinese, i deputati di Fatah hanno abbandonato l’aula e quelli di Hamas hanno revocato le misure adottate nelle ultime settimane dal rais dell’Anp, Abu Mazen.
Le ragioni dell’ennesima smarcatura della Francia da una linea di fermezza nei confronti di fondamentalisti arabi – la riproposizione dello “schema” già adottato nel 2003 a favore di Saddam Hussein, che ora fa intendere a Hamas di avere ampi margini per dividere il fronte occidentale – sono le solite: mania di “grandeur” neogollista e concreti contratti militari e petroliferi. Ancora una volta Chirac si smarca dagli Stati Uniti e dalla stessa Europa per firmare protocolli di vendita, che poi, come è successo anche in questa “tre giorni” saudita, non riesce nemmeno a siglare. Da anni Parigi tenta di vendere a Riad una flotta di aerei da combattimento Rafale, il sistema Miksa per la protezione delle frontiere dal valore di 7 miliardi di euro e una raffineria Total da 400 mila barili al giorno. Non stupisce che il ministro degli Esteri saudita, Saud al Feisal, che si appresta a ricevere Hamas a Riad, abbia dichiarato che “le posizioni di Chirac e re Abdullah sulla Palestina sono molto vicine, per non dire identiche”.

Infine un editoriale denuncia la distanza tra la sinistra italiana, ancora malata di antiamericanismo, e i liberal d'oltreoceano, che iniziano a far propria l'idea neoconservatrice della democratizzazione del Medio Oriente, coem unica possibile risposta all'offensiva del terrorismo islamista : 

Hillary Clinton e i massimi vertici del Partito democratico applaudono le parole di Silvio Berlusconi in favore della diffusione della democrazia nel mondo, mentre il futuribile Partito democratico italiano accusa il presidente del Consiglio (che ha “commosso” Hillary e gli altri senatori del vero Partito democratico a cui si vorrebbe ispirare) di aver svenduto l’Italia agli Stati Uniti, con toni diversi ma perfettamente compatibili con quelli di uno dei tanti zombie in libera uscita dalla spazzatura della storia. Piero Fassino si dimentica le poche, timide, eppure coraggiose parole sul processo democratico in medio oriente, avviato da Bush e dal compagno Blair peraltro sulla base di una dottrina di politica estera che ha radici nella cultura della sinistra democratica e liberale, da Wilson a Roosevelt, da Truman a Kennedy, da Blair a Clinton. E se la sinistra italiana non lo capisce, o non lo sa, è perché ha una tradizione antifascista ma non antitotalitaria. Così Massimo D’Alema crede che il modo migliore per andare alla Farnesina sia difendere i fascisti-islamici di Hamas.
Il paradosso è che negli stessi giorni di questo imbarazzante arretramento della sinistra italiana (l’eccezione è Rutelli), i liberal americani si sono interrogati sulle grandi difficoltà della strategia di promozione della democrazia, giungendo però alla conclusione che la direzione resta giusta, nonostante le continue stragi in Iraq, il ruolo dei Fratelli musulmani e l’ascesa di Hamas al governo. Domenica è stato il Washington Post a spiegare che le critiche a questa politica non stanno in piedi e, soprattutto, non offrono un’alternativa credibile (domenica il Corriere ha scritto la stessa cosa in un corsivo non firmato e il Los Angeles Times ha pubblicato un articolo di Natan Sharansky con la medesima tesi). La settimana scorsa il New York Times s’è accorto della “vergogna delle Nazioni Unite” (titolo di un editoriale), egemonizzate anche nei tentativi di riforma dall’alleanza delle dittature, per cui ora scopre che “John Bolton ha ragione e il segretario generale Kofi Annan ha torto”. Il Washington Post ha entusiasticamente appoggiato la proposta di Condi Rice di aumentare gli aiuti all’opposizione iraniana, cioè di utilizzare quel soft power tanto invocato per criticare le soluzioni militari, poi sempre ignorato quando viene esercitato. Su Foreign Policy, il guru del soft power, Joseph S. Nye, ha spiegato che alcuni obiettivi possono essere raggiunti soltanto con l’uso della forza militare, mentre Christopher Hitchens, su Slate, si è fatto beffe di chi si illude che le dittature possano essere abbattute soltanto col “potere morbido”. Serve, ovviamente. Ma servono di più un esercito efficiente e una leadership dotata di una politica antitotalitaria. Opporsi alla promozione della democrazia è legittimo, ma a patto che si individui l’alternativa.

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