Il MANIFESTO di venerdì 3 marzo 2006 pubblica una cronaca di Michele Giorgio che lancia l'allarme sull'"imminente" (il che significa che al momento non c'é alcuna crisi) crisi umanitaria a Gaza, provocata dalla mancata apertura del valico di Karni. I motivi di sicurezza che hanno determinato la chiusura del valico sono messi in dubbio contro ogni evidenza. Non vi é nessun cenno alla proposta israeliana di aprire un valico alternativo, respinta dai palest. In conclusione Giorgio se la prende persino con Abu Mazen, colpevole di aver confermato la presenza di Al Qaeda a Gaza invece di fare della sana propaganda antisraeliana denunciando le "drammatiche condizioni di vita" del suo popolo. Drammatiche condizioni di vita che, come emerge tra le righe della cronaca di Giorgio sono state molto peggiorate dalla fine delle esportazioni agricole garantite dalle coltivazioni d'avanguardia che negli insediamenti davano lavoro a migliaia di palestinesi. Un ulteriore prova del fatto che non é Israele a detreminare i problemi economici e sociali dei territori. Ecco il testo:
La Striscia di Gaza è sull'orlo della crisi umanitaria. Smentendo le promesse fatte alle agenzie internazionali, Israele ieri non ha riaperto il valico commerciale di Karni (Mintar) e, di conseguenza, ha bloccato l'ingresso degli aiuti umanitari e di tonnellate di generi di prima necessità destinati agli abitanti palestinesi. Non siamo alla fame ma le scorte si stanno esaurendo mentre i prezzi di alcuni prodotti, come lo zucchero, sono aumentati del 25-30% con grave danno per le centinaia di migliaia di palestinesi che già vivono in povertà. Israele aveva chiuso Karni, per «motivi di sicurezza», tra il 15 gennaio e il 5 febbraio. Poi ha abbassato nuovamente le sbarre il 21 febbraio, in seguito ad una misteriosa esplosione, senza conseguenze, avvenuta nei pressi del valico. Da allora ben poco è entrato a Gaza ed alcuni generi di prima necessità sono diventati introvabili. L'esercito israeliano mercoledì si era preparato alla riapertura del valico e le autorità militari avevano sollecitato centinaia di trasportatori e grossisti palestinesi a caricare sui Tir le merci (in gran parte prodotti agricoli) rimaste per tanti giorni in attesa di entrare in Israele o di partire per l'Europa. Ieri mattina invece è giunto il secco «no» del ministro della difesa Shaul Mofaz, sempre per «motivi di sicurezza». Un ordine che ha colto di sorpresa i comandi dell'esercito e che i palestinesi e una parte dei media israeliani hanno interpretato come una decisione «politica». La punizione collettiva scattata dopo la vittoria elettorale di Hamas quindi continua e a pagarne il prezzo più alto non è il movimento islamico ma la popolazione civile di Gaza. Intanto oggi una delegazione di Hamas sarà a Mosca su invito del presidente russo Vladimir Putin per un viaggio con il quale il movimento islamico spera di ottenere una legittimazione internazionale. Criticata da Stati uniti e Israele, la mediazione della Russia invece potrebbe accelerare la svolta politica moderata di Hamas. «Ascolteremo il punto di vista della Russia e chiariremo la nostra visione - ha detto il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri - in ogni caso il nostro movimento ormai è sulla soglia della legittimazione internazionale». Abu Zuhri ha inoltre riferito di contatti in corso tra Hamas e il Sudafrica dove i dirigenti islamici dovrebbero recarsi tra alcune settimane. Due giorni fa David Shearer, capo di Ocha (l'ufficio per il coordinamento degli aiuti umanitari dell'Onu), ha denunciato che le condizioni di vita a Gaza sono deteriorate dopo il voto del 25 gennaio a causa della chiusura di Karni. Le scorte di farina, ha aggiunto Shearer, potrebbe esaurirsi entro pochi giorni se il valico non verrà riaperto. Si sono ridotti anche i rifornimenti di farina alle famiglie più povere, ha riferito un portavoce, Arnold Vercken, del Programma alimentare mondiale (Pam) che distribuisce cibo al 10% dei palestinesi di Gaza (1,3 milioni). Vercken ha aggiunto che i mulini di Gaza di solito conservano nei magazzini tra le 26mila e le 30mila tonnellate di grano ma ora le loro scorte non superano le 1.200 tonnellate. A tutto ciò si aggiunge la crisi profonda in cui è precipitata l'agricoltura di Gaza, ormai sull'orlo del collasso. Il «Palestine economic development company», che si occupa della gestione delle serre acquistate dalla Banca mondiale dai coloni israeliani evacuati la scorsa estate, ha riferito ieri che gli agricoltori palestinesi hanno subìto nell'ultimo mese danni per 57 milioni di euro per le mancate esportazioni. Ora sono a rischio oltre 4 mila posti di lavoro. Di fronte alle dure condizioni di vita della sua gente e alla mancata riapertura di Karni, il presidente palestinese Abu Mazen ieri, in una intervista al quotidiano arabo Al-Hayat, invece ha trovato più urgente riferire della possibile «presenza» di al Qaeda a Gaza e in Cisgiordania. Nei mesi scorsi, specie dopo il ritiro di Israele da Gaza, erano circolate voci sull'ingresso nella Striscia di elementi legati ad Osama bin Laden. Sino ad oggi però queste voci non hanno trovato conferma. Abu Mazen ieri ha anche incontrato a Gerico il leader laburista israeliano Amir Peretz.
Nell'articolo "Il nucleare a geometria variabile" Maurizio Matteuzzi critica il "doppio standard degli Stati Uniti verso il programma nucleari indiano (e israeliano) da un lato e quello iraniano dall'altro. Ma si tratta, naturalmente, di un doppio standard del tutto giustificato, che d'altro canto dimostra che nel no ai progetti di Teheran non vi é nessun secondo fine egemonico. Se l'Iran fosse, come l'India e Israele, una democrazia che non vuole aggredire nessuno, gli Stati Uniti non avrebbero nulla da ridire nemmeno sul suo programma nucleare. Ridicola la proposta finale di Matteuzzi: prima di chiedere all'Iran di non dotarsi di armi atomiche disarmiamo chi già quelle armi le possiede (leggi: Usa, Francia, Gran Bretagna e qualche altro membro del "club" ). A quel punto, ci assicura Matteuzzi, convincere Ahmadinejad sarà uno scherzo... Perché non intitolare l'articolo, più appropriatamente "Coraggio democrazia, fatti ammazzare?". Ecco il testo:
Il vero vincitore nell'accordo «storico» in materia nucleare di ieri a New Delhi - ammesso che si possa parlare di vincitori e che invece non siamo tutti, come umanità diffusa, sconfitti - non è né l'indiano Singh né l'americano Bush. E' l'iraniano Ahmadinejad. Le concessioni strappate dall'India e consentite dall'amministrazione Usa sono una nuova e clamorosa dimostrazione del doppio standard che Washington, nella sua arroganza imperiale, pensa di potersi permettere in tutti i campi. Dai diritti umani al nucleare, dal libero commercio alla democrazia. E' difficile dire con quale faccia che non sia la faccia di bronzo di un Bush, gli americani (con il codazzo dei Blair e Chirac) potranno sostenere la legittimità di una «coalizione dei volenterosi» per stoppare le ambizioni nucleari iraniane - per di più, fino a prova contraria, destinate esclusivamente a fini pacifici - mentre accettano di concedere all'India una libertà quasi assoluta di sviluppare il potenziale nucleare. Da quello civile (14 reattori su 22) che sarà soggetto alle ispezioni dell'Agenzia per l'energia atomica, a quello militare (22 meno 14), che rimarrà segreto ed escluso da ogni controllo internazionale, compreso il reattore superveloce per produrre il plutonio e le bombe. Sono gli stessi critici bipartisan dentro il Congresso di Washington a riconoscere che questo «piano di separazione» è senza senso dal momento che l'India potrà portare avanti il suo programma militare parallelo e segreto. L'accordo di New Delhi è la riprova che anche nel campo del nucleare come in quella dei diritti umani la strategia dell'America (e dell'Europa e anche dell'Aiea del Nobel per la pace El Baradei, che inopinatamente considera l'accordo «positivo») è a geometria variabile. L'India, ha detto Bush, è «una potenza nucleare responsabile» e dà buone garanzie di non-proliferazione (a differenza di quell'«international nuclear Wal-Mart» che è il Pakistan). E come tale la sua bomba democratica va premiata. Anche se, pur avendo fatto esplodere la prima nel `98, non ha mai firmato, al contrario del vituperatissimo Iran e al contrario degli amiconi Israele e Pakistan, il Trattato di non proliferazione. Il premio all'India in realtà si deve ad altro. Alla sua «partnership strategica» con gli Usa che si lascia alle spalle le antiche contiguità con l'Urss-Russia e le ancor più antiche velleità di non allineamento. Al suo ruolo di «più grande democrazia del mondo» che sottintende uno dei più grandi mercati in fieri del mondo. E soprattutto al suo peso strategico di contraltare della superpotenza cinese che avanza a passo di carica e del fedele ma infido alleato pakistano. E allora poco importa, come ricordava il Financial Times, se l'accordo «storico» di New Delhi manda a carte quarantotto le regole e i divieti della non-proliferazione o se spalanca la strada delle aspiranti potenze nucleari a seguire l'esempio indiano. Israele buonissimo, l'India buona, il Pakistan infido ma buono (per il momento), la Corea del nord e l'Iran cattivi. Non è questo il punto. Il punto è che prima di pensare ai paesi, buoni o cattivi, che vogliono entrare nel club nucleare dovremmo tutti tornare a pensare e a reclamare la de-nuclearizzazione militare delle 5 potenze atomiche «storiche», buone o cattive che siano. E la chiusura del club.
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