Il dialogo con Iran e Hamas non porta buoni frutti alla Russia e si fa strada il dubbio che possa portarne di cattivi
Testata: Il Foglio Data: 02 marzo 2006 Pagina: 1 Autore: la redazione Titolo: «Il Cremlino dialoga con Iran e Hamas, ottiene poco e ha un dubbio»
Dal Foglio di giovedì 2 marzo 2006:
Mosca. In queste ore Mosca si sente il centro diplomatico del mondo, dove i nodi internazionali più ingarbugliati potrebbero sciogliersi per la soddisfazione di tutti. Ieri nella capitale russa sono tornati gli iraniani, guidati dal responsabile dell’Energia atomica, Golam Reza Agazade, e dal capo dei negoziatori con l’Aiea, Ali Larijani, per il terzo round in dieci giorni di negoziati. E domani Mosca atterrerà la delegazione di Hamas, invitata da Vladimir Putin, tra la costernazione della comunità internazionale. Il sogno di Mosca sembra avverarsi: si torna sulla scena internazionale da protagonisti, offrendosi come mediatori in conflitti entrati in un vicolo cieco. Anche se sul dossier iraniano ieri non c’era molto ottimismo: Larijani, appena messo piede a Mosca, ha negato l’ipotesi di una moratoria sull’arricchimento dell’uranio, che Mosca vede come parallela alla joint venture che dovrebbe spostare tutto il processo in Russia. I russi ammettono che, al di là di un “accordo di massima”, non è stato deciso nulla e che l’intensa attività negoziale tra Mosca e Teheran è da attribuire soprattutto alla scadenza della riunione dell’Aiea, il 6 marzo. Una situazione riassunta al quotidiano Vremya Novostey dal portavoce del dipartimento di stato americano, Adam Erely: “russi sono mossi da buone intenzioni, ma gli iraniani li prendono in giro”. Per la visita degli uomini di Hamas il pronostico potrebbe essere simile. Una fonte anonima nel ministero degli Esteri russo ieri diceva: “Non ci aspettiamo novità clamorose, se non il fatto stesso dell’incontro”. L’appuntamento che Putin aveva dato a Hamas era stato un fulmine a ciel sereno sia per i partner del Quartetto mediorientale che, sembra, per i diplomatici russi. Anche se qualche ben informato a Mosca insiste che si è trattato di “un piano segretissimo” del Cremlino. In ogni caso la furia di Israele, il gelo degli Stati Uniti e i chiarimenti dell’Europa hanno ridimensionato l’iniziativa di Putin, che – salvo sorprese dell’ultima ora – ha rinunciato a ricevere Khaled Meshaal, il leader di Hamas che guiderà la delegazione. Il formato della visita è stato “abbassato”, dicono a Mosca, fino al ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, che si augura di vedere Hamas “componente legittima e utile” del processo mediorientale. L’inviato speciale del Cremlino in medio oriente, Alexandr Kalughin, ha messo i paletti per la discussione: riconoscere Israele, cessare il terrorismo, rispettare gli impegni dell’Anp, in poche parole, le condizioni del Quartetto. “Noi non insisteremo su nulla – ha precisato – vogliamo soltanto ribadire i cambiamenti che vorremmo vedere. Sta ad Hamas decidere se, quando e come attuarli”. Che cosa spera di ottenere la Russia da queste sortite diplomatiche? Il lamento per la perduta influenza nel mondo arabo risuona negli ambienti politici e diplomatici russi dai tempi del governo Primakov. Per il politologo Viaceslav Nikonov, il tradizionale feeling con gli arabi è un vantaggio anche con Hamas: “Siamo gli unici a non riconoscerli come organizzazione terroristica, e a poterci infilare nella porta che si chiude del negoziato”. A Mosca sono ancora operativi i padrini di Yasser Arafat e la composizione della classe politica e il suo linguaggio rendono più agevole il dialogo con arabi antioccidentalisti piuttosto che con gli israeliani, nonostante in Israele – dove quasi un quinto della popolazione dello stato ebraico parla russo e forma la componente più bellicosa dell’opinione pubblica – la Russia abbia più da guadagnare che da perdere. Mentre i falchi più nostalgici sognano un ritorno della Russia in medio oriente come contraltare degli Stati Uniti e di Israele, i moderati – Putin incluso – articolano lo stesso sogno in termini più realisti. Gheorghij Mirskij, maggiore esperto dell’area, spera che “per gli uomini di Hamas è preferibile governare piuttosto che farsi ammazzare dagli israeliani, si può auspicare una scissione all’interno del movimento stesso tra radicali e realisti”. E’ un approccio pragmatico, ma non tiene conto di come è cambiato il mondo. I regimi laici arabi di cui Mosca era amica sono in via d’estinzione, oggi Hamas sostiene il jihad ceceno e, ricorda la liberale Yulia Latynina, scegliendoli come interlocutori Putin incappa negli stessi “doppi standard” che denuncia quando qualcuno propone una mediazione con i ribelli caucasici. L’Urss offriva soldi e sostegno militare. La Russia di Putin, membro del Quartetto e presidente del G8, non può permettersi di promettere a Hamas (o a Teheran) protezione militare, e nemmeno aiuti. Facendo formalmente parte delle strutture dell’occidente, Putin con la sua diplomazia “pragmatica” al massimo può ricavare un altro reattore nucleare da vendere all’Iran o qualche blindato in più da fornire all’Anp. Come scrive Maxim Jusin su Izvestia, “Hamas lusingherà la nostra vanità come gli orientali sanno fare, ma tratterà concretamente con gli americani o gli europei. Il risultato sarà che, estinto l’effetto pubblicitario dell’iniziativa, gli Stati Uniti si convinceranno una volta di più che siamo un partner poco affidabile”.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Foglio