AVVENIRE di mercoledì 1 marzo 2006 pubblica una corretta cronaca di Graziano Motta che riportiamo:
Il governo israeliano cerca di dipanare il groviglio di una situazione sempre più ingarbugliata in campo internazionale, e che gli sta procurando continue amarezze, creatasi con la schiacciante vittoria elettorale dei fondamentalisti islamici nelle elezioni palestinesi. Come interpretare l'apertura di credito russa ad Hamas alla vigilia dell'accoglienza al Cremino di una sua delegazione (guidata da Khaled Meshal avrà da dopodomani colloqui con il ministro degli Esteri Ivanov, e non come era stato in precedenza annunciato con il suo vice Soltanov)?
E come porsi dinanzi all'Unione europea all'indomani dell'aiuto finanziario di urgenza (120 milioni di euro) accordato all'Autorità palestinese per scongiurarne il fallimento, prima ancora che sia costituito il governo presieduto dall'esponente di Hamas Ismail Haniye? Il quale ha già ottenuto il "sostegno" del regime iraniano, quantificato dal quotidiano londinese Al Hayat in ben 250 milioni di dollari, cifra tuttavia smentita a Damasco dal più vicino collaboratore di Meshaal, Moussa Abu Marzuk, secondo cui il regime di Teheran ha promesso soltanto «un generale sostegno al popolo palestinese».
Ieri tutti questi nodi sono stati esaminati dal primo ministro a interim Ehud Olmert insieme con i ministri degli Esteri Tzipi Livni e della Difesa Shaul Mofaz, con il capo del consiglio per la Sicurezza nazionale Giora Eiland e con alti funzionari dei servizi di informazione. Prima tuttavia Olmert ha cercato di far chiarezza nei rapporti con gli Stati Uniti, punto fermo di riferimento della politica estera dello Stato ebraico, e con il presidente palestinese Abu Mazen. Rivedendo innanzi tutto le dichiarazioni della Livni secondo cui quest'ultimo era ormai «irrilevante», ovvero «una foglia di fico» di copertura ad un'Anp divenuta «terroristica». Dichiarazioni che avevano inquietato Washington decisa a sostenerlo. Ha detto dunque Olmert: «Abu Mazen è un presidente legittimo e speriamo che non si dimetta» (allu sione alle illazioni provocate da una sua intervista all'emittente britannica Itv, smentite comunque subito dallo stesso interessato). Intendiamo portare avanti il dialogo con i vicini palestinesi.
E ancora, con un enfasi apparsa esagerata: «Abbiamo (con gli Stati Uniti) esattamente le stesse posizioni circa l'atteggiamento da tenersi con Hamas e con l'Anp e circa la Road map per la pace. Non c'è nemmeno l'ombra di una incomprensione, nemmeno un briciolo di divergenza». La posizione nei riguardi di Mosca è di attesa. Olmert ha detto di aver ricevuto «positivi messaggi» del presidente Putin, ovvero l'assicurazione dell'importanza da lui attribuita alle relazioni con Israele, ma ha la sensazione che voglia perseguire nei confronti di Hamas una politica un po' più indipendente e «più in avanti» di quella del Quartetto per il Medio Oriente di cui la Russia fa parte.
Per quanto riguarda l'Europa sarà il ministro Livni a cercare di smussare le divergenze e di «rafforzare il coordinamento» recandosi oggi a Vienna e a Parigi e domani a Londra. Il portavoce del ministero degli Esteri ha escluso che ci sia uno scontro con l'Unione europea per i 120 milioni di aiuti elargiti ieri l'altro, ammettendo tuttavia che esistono divergenze tecniche. In effetti Israele, se ha considerato l'elargizione un sostegno di carattere umanitario e ha voluto sottolineare che l'Europa non intende finanziare il terrorismo, non ha gradito l'appello agli altri Paesi donatori perché compiano uno sforzo nel sostenere il governo provvisorio palestinese.
In prima pagina un editoriale di Andrea Lavazza mette in guardia dal riprodurre, con Hamas, i vecchi errori dell'Unione europea, elargitrice all'Anp di Arafat di fondi dei quali non ha mai saputo controllare la destinazione. Forse sulla possibilità di farlo in futuro, continuando a finanziare l'Anp, Lavazza dimostra un eccessivo ottimismo. Ecco il testo:
L'anno scorso Unione europea e Stati Uniti hanno versato un miliardo di dollari nelle casse dell'Anp. La metà del reddito pro capite degli abitanti dei Territori viene da aiuti internazionali. Il tasso di povertà è al 48%, la disoccupazione al 27%. Chiudere i rubinetti dei finanziamenti alla Palestina equivarrebbe a un embargo. Forse più severo di alcune sanzioni messe in atto altrove. Di fronte all'arrivo al potere di Hamas, deciso per ora a non riconoscere Israele, a non rinunciare alla violenza - almeno come principio - e non proseguire sulla linea degli accordi di Oslo, forte è la spinta a usare la leva economica per riportare il nuovo governo, democraticamente eletto, su posizioni meno estremistiche.
Gli Stati Uniti hanno annunciato l'intenzione di ridurre drasticamente i finanziamenti quando si insedierà ufficialmente l'esecutivo. La Ue, proprio nei giorni in cui l'ex presidente della Banca mondiale Wolfensohn lanciava l'allarme su un imminente tracollo economico dell'Autorità nazionale, che non potrà più nemmeno pagare gli stipendi pubblici, ha deciso di sbloccare 120 milioni di euro. Andranno alle agenzie di assistenza dell'Onu, serviranno a retribuire i funzionari e a saldare le bollette energetiche; per la maggior parte non dovrebbero nemmeno passare per le mani dell'attuale amministrazione ad interim. Lo scopo è evitare la bancarotta pur senza concedere nulla ad Hamas.
Ma si tratta evidentemente di un escamotage di breve respiro. Bruxelles, come Washington, dovrà presto assumere una decisione strategica, certo sempre rivedibile, che sia coerente con una politica mediorientale ben ponderata. L'impressione è che gli errori del passato non siano rimediabili in tempi brevi. Se è stato giusto sostenere un popolo in difficoltà, si sarebbe dovuto esercitare un maggior controllo sulla destinazione dei fondi, non solo per evitare che finissero nelle tasche di politici corrotti o che servissero a fomentare l'odio - come nel noto caso dei libri di testo fortemente ideologici - ma soprattutto per far decollare un sistema che in sei anni ha visto il Pil calare del 38%. Effetto anche delle dure restrizioni imposte da Gerusalemme, colpa principale però dell'inerzia di una classe dirigente poi punita dall'elettorato.
Tagliare semplicemente i finanziamenti espone ora a due ordini di rischi. Il primo è che l'Europa e gli Stati Uniti siano sostituiti da chi ha ben altri fini al di là del sostegno umanitario. L'Iran ha già annunciato la disponibilità a coprire i mancati «introiti esteri» dell'Anp, si parla addirittura di 250 milioni di dollari. E il Qatar ha affermato la volontà di proseguire comunque i propri progetti di cooperazione. Un flusso di denaro che oltre a vanificare la mossa occidentale giungerebbe accompagnato dal radicalismo anti-israeliano e dal tentativo di fare attecchire il fondamentalismo islamico più intollerante. L'altro pericolo, ovviamente, è che a fare le spese di un simil-embargo sia la popolazione più povera, la quale verrebbe spinta ancor più nelle braccia degli oltranzisti, pronti a soffiare sull'orgoglio nazionale davanti al «ricatto delle grandi potenze».
Ciò non vuol dire che si sia condannati a mantenere Hamas per evitare che divenga ostaggio di peggiori «protettori». Né sarà facile imporre oggi condizioni che non si sono fatte valere in passato. Scegliere la fermezza nei confronti di chi rifiuta il dialogo significherà pronunciare alcuni no, centellinare i fondi, dirigere con intelligenza gli investimenti per fare crescere una classe media che in seguito «ripaghi» politicamente con scelte di moderazione.
Ma anche in una terra che sovvert e spesso le previsioni sembra un percorso lungo e tortuoso, su cui peseranno pure gli umori variabili delle opinioni pubbliche. Gli errori del passato non sono facili da rimediare. Che almeno servano da lezione.
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