Ignoranza e insensibilità le corrispondenze di un "pacifista" da Israele
Testata: L'Adige Data: 27 febbraio 2006 Pagina: 0 Autore: Emiliano Bertoldi Titolo: «Corrispondenze da Israele e Anp»
Il quotidiano L'Adige ha pubblicato una serie di corrispondenze da Gerusalemme scritte da un Emiliano Bertoldi, che opera per l'associazione Pace per Gerusalemme - il Trentino con la Palestina . Ecco un lenco dei titoli e delle date
1) 14/12/05 I separati dentro casa (sono i separati dal "Muro")
2) 21/12/05 Semi di pace in Terrasanta
3) 28/12/05 Il mio Natale a Betlemme
4) 5/1/06 Tutti intorno a quel lago (sulle orme di Gesù)
5) 16/1/06 Tra il Muro e l'Olocausto
6) 24/1/06 I drogati e la politica
7) 8/2/06 Il voto ad Hamas per cambiare
8) 21/2/06 Lasciare Israele ma che fatica
Particolarmente significativi a nostro giudizio sono il primo articolo, nel quale si sostiene che il "muro"garantisce la sicurezza di Israele "secondo alcuni", mentre "sicuramente" limita la libertà di movimento dei palestinesi e degli "israeliani dissidenti" (chi sono? in Israele c'è libertà di pensiero), "Tra il muro e l'Olocausto", nel quale Bertoldi si dichiara privo di risposte di fronte al rifiuto dei suoi interlocutori palestinesi di riconoscere il dramma della Shoah a meno che anche il loro dramma nazionale non venga riconosciuto come equivalente (ma il suo é solo il rifiuto di chiamare le menzogne propagandistiche palestinesi con il loro nome), "Il voto di Hamas per cambiare" nel quale l'organizzazione terroristica palestinese é descritta come "diversa dalle altre organizzazioni islamiste" e le viene attribuita una rinuncia al terrorismo che in realtà non é mai avvenuta e l'ultimo "Lasciare Israele ma che fatica", che riportiamo:
Lasciare Israele è più complicato che entrare, per quanto paradossale possa sembrare. Nella mia prima Lettera da Gerusalemme , pubblicata il 14 dicembre sulle pagine di questo giornale, riferivo che all'arrivo all'aeroporto di Tel Aviv "il mio passaporto con i timbri di Iraq, Giordania e Kuwait mi crea qualche problema: due ore di attesa nell'anticamera della Security, un paio di interrogatori precisi e dettagliati, ma tutto sommato cordiali e sempre nei limite della correttezza e del rispetto della mia privacy". In realtà i problemi sono un po' di più, dato che la polizia di frontiera aveva deciso di non mettermi alcun timbro sul passaporto. All'inizio non ci avevo fatto più di tanto caso: "non ne ha bisogno, tanto è nel computer", mi avevano detto. In effetti per molte settimane nessun controllo o check-point aveva avuto da ridire. Il fatto di vivere a Betlemme, molto frequentata dal turismo natalizio e nelle immediate vicinanze di Gerusalemme, mi ha probabilmente evitato problemi per le prime settimane pur dovendo spesso attraversare il muro. Sembra infatti che il timbro non sia più di tanto importante fintanto che si rimane in Israele, ma che per entrare e girare nei territori occupati sia invece necessario. Non avere il visto sul passaporto è comunque una sorta di segnale: questa è una persona sospetta, forse anche pericolosa. Qualche prima avvisaglia l'ho avuta negli ultimi giorni di gennaio, finito il periodo delle feste (e del turismo) e iniziato l'arrivo massiccio di stranieri per il monitoraggio delle elezioni palestinesi.
Di ritorno da Ramallah, quello che deve essere l'unico militare israeliano che non parla inglese è salito sull'autobus e con il mio passaporto in mano ha cominciato un po' scontroso a voler vedere il timbro e pretendere spiegazioni, rigorosamente in ebraico. Il giorno dopo, rientrando da Gerusalemme, una soldatessa mi spiega che non avere il timbro potrebbe essere un problema, e che lei deve controllarlo. Ma è simpatica, annoiata - da ore chiusa nel gabbiotto dei passaporti - e ha voglia di parlare. Così si incuriosisce ai tanti timbri strani che riempiono le pagine del mio passaporto, mi chiede che lavoro faccia e non sembra turbata o sospettosa del fatto che sia stato in Iraq. Mi racconta che vorrebbe andare anche lei in Brasile, o magari in qualche isola del sud-est asiatico. Quando mi dice di aver studiato design e psicologia, ma che sogna di frequentare un accademia d'arte e visitare l'Italia, provo a dirle con tono scherzoso che se le piace la pittura moderna può guardare dall'altra parte del muro, che è coperto di graffiti interessanti. Non la prende come una provocazione - che comunque non voleva essere - e mi dice che lo sa. È andata a guardare su internet - il che conferma che la questione muro è controversa anche in Israele - e che ha visto le immagini. Con una smorfia che mi sembra dimostrare sincero dispiacere mi recita però il solito ritornello "…che possiamo fare, è per la nostra sicurezza…". Ho voglia di dirle che se non ci fosse il muro - inteso come simbolo di occupazione e discriminazione - non ci sarebbero (seri) problemi di sicurezza,
Questo arrogante ("il solito ritornello") passaggio é indicativo dell'assoluta mancanza di informazione di Bertoldi, che evidentemente ignora le stragi compiute dal terrorismo palestinese in Israele prima della costruzione della barriera di sicurezza e la loro successiva diminuzione. Mancanza di informazione che permette la successiva interpretazione del bisogno di sicurezza manifestato da Israele, assolutamente sganciata dalla realtà
che l'ossessione della sicurezza è funzionale a mantenere il popolo di Israele in stato di eterna fragilità, sospetto, allerta, unito contro il nemico e il rischio attentati, in perenne stato di conflitto, negli interessi degli estremisti da una parte e dall'altra. Ma il trillo dei telefonini di entrambi rompe l'atmosfera… proseguo verso casa. * * * Il giorno del rientro a Trento tutto è programmato al secondo. Le valigie pronte, i saluti al padrone di casa, il primo di una serie di taxi fuori dalla porta. Questo è giallo - i taxi dei Territori - che mi deve portare all'ultima riunione con il sindaco di Beit Jala, per i saluti di rito e l'ultimo confronto sui futuri progetti che
la Provincia
di Trento e l'associazione Pace per Gerusalemme dovrebbero realizzare. Il taxi successivo invece è bianco: israeliano ma con autista arabo, per potermi venire a prendere in Cisgiordania. Lui mi deve accompagnare all'ufficio postale di Gerusalemme, dove devo impachettare e spedire tutte quelle cose che potrebbero risultare sospette ai controlli in aeroporto: biglietti da visita, pubblicazioni di organizzazioni pacifiste israeliane e palestinesi, depliant, libri sul conflitto e documenti vari. L'ultimo tratto - da Gerusalemme all'aeroporto - è meglio farlo con un altro taxi ancora: bianco ma con autista ebreo; per evitare di essere fermato e controllato per venti minuti già all'ingresso. È successo a Samuela quando rientrava dopo le vacanze di Natale, o a me quando sono andato a prenderla accompagnati da Jalil, arabo-israeliano che con la sua macchina privata fa servizio da e per i Territori. Mi preparo psicologicamente e mi metto in coda alla security, dove due giovani non ancora ventenni fanno i controlli preliminari e distribuiscono etichette colorate sui passaporti e sulle valige. La risposta "sì, a Betlemme" alla domanda "È stato nei territori palestinesi?" mi fa guadagnare subito un bollino rosso su tutte le valige e sul passaporto: massima pericolosità. Passo in consegna ad un altro controllore, che mi porta in disparte e comincia a chiedermi chi ho visto, cosa ho fatto, perché. Riformula le domande in modi diversi, fingendo di non capire bene le risposte. Mi spiega infastidito che fa tutto ciò per la mia sicurezza e per quella degli altri passeggeri, dato che qualcuno avrebbe potuto infilarmi una bomba in valigia senza che me accorgessi: "è già successo, sa!". Per evitare complicazioni mi hanno suggerito di non raccontare tutto - cioè che ero qui per lavoro - né di esagerare con storie poco credibili, che tanto sanno cosa ero venuto a fare. Evidentemente raccontare solo mezze verità non è il mio forte: il mio interlocutore non sembra credere alla storia che fossi qui principalmente per turismo: "Israele si gira in 10 giorni, perché stare quasi due mesi? E perché la sua ragazza è arrivata dopo e partita prima di lei?". Ancora meno credibile gli sembra che "Pace per Gerusalemme" mi avesse chiesto di monitorare alcuni progetti in corso, cogliendo l'occasione del mio viaggio privato e della mia professione. E poi: quali progetti? Cosa fanno? Chi aiutano? Un primo moto di fastidio mi prende quando mi chiede se posso permettermi di "fare il volontario per due mesi così, senza essere pagato". Mi trattengo dal rispondergli che la mia sicurezza economica non ha nulla a che fare né con la sicurezza di Israele né con quella del volo, e con un sorriso gli rispiego tutta la storia. Un' espressione sorpresa - un misto di paura e "ti ho beccato" - appare sul suo volto quando gli dico che sì, dei palestinesi mi hanno dato qualcosa da portare a dei parenti a Rovereto: le videocassette di un fidanzamento. Va, si consulta con un superiore, torna e la mia valigia si ritrova con dei bollini gialli supplementari: controllo approfondito, alto rischio. Ad un bancone iper-tecnologico una ventina di ragazzi si destreggia tra le valigie degli aspiranti viaggiatori e macchinari curiosi. Non posso non notare che la sicurezza non è solo un tema politicamente utile, ma che è anche un gigantesco business per le ditte produttrici di tecnologia specialistica e per la agenzie private che danno lavoro - sicuramente precario - a centinaia di giovanissimi, tra l'altro a loro rischio e pericolo. Ogni cosa viene aperta e controllata attentamente. Il sacchetto della biancheria sporca non sembra esser pericoloso per il volo, anche se quando l'addetto l'ha aperto ed ha infilato dentro le mani e parte della testa ho seriamente temuto per la sua, di sicurezza. Inaccettabile sembra invece lo shampoo, che dopo aver fatto suonare l'allarme mi viene sequestrato e messo in una scatola a parte. A questo punto è passata quasi un'ora e mezza, e cerco di socializzare interessandomi alle procedure. Chiedo come funziona il tampone che dovrebbe rilevare l'esplosivo e mi viene risposto che non mi devo preoccupare: "non è un suo problema". Riprovo interessandomi a quale sostanza pericolosa si usi per fabbricare gli shampoo, ma il responsabile sfodera un sorriso irritato e mi fa notare - avvicinandosi alla mia faccia - che "le abbiamo già detto di non preoccuparsi, è tutto sotto controllo e non è un suo problema. Solo le nostre procedure!". Non è finita, purtroppo. Dopo avere re-impacchettato tutto (come odio fare le valigie…), devo seguire in un camerino a parte l'ennesimo addetto, togliermi scarpe, cintura, portafoglio e farmi passare un bastone magico su tutto il corpo. Le scarpe suonano, quindi devo aspettare seduto che vadano da un'altra parte a fare un controllo più approfondito. Alla fine risulto pulito, manca solo il controllo passaporti. "Dov'è il foglietto con il visto?", " Non ce l'ho, i suoi colleghi non me l'hanno dato". "Non è possibile, vedo sul computer il numero". "Infatti, mi hanno detto che ero nel computer e non me lo hanno dato". "Non può essere, l'avrà perso….". A questo punto perdo davvero qualcosa: la pazienza (proverbiale, per chi mi conosce): "non l'ho perso! Non me lo avete dato, forse proprio per rompermi le scatole oggi. Ve l'ho chiesto, e non me lo avete dato…!". In tutta risposta, mi piazza un bel timbro sull'ultima pagina del passaporto, così non potrò più andare in molti Paesi Arabi senza chiederne uno nuovo. Mentre aspetto l'aereo cerco di far sbollire la frustrazione. A Trento e Verona nevica, e forse non potrò neanche atterrare…
Complessivamente pubblicando queste corrispondenze L'Adige ha compiuto un'opera di disinformazione su Israele, affidandosi alla penna di un "pacifista" incapace di mostrare la minima comprensione umana per il dramma di un paese colpito spietatamente dal terrorismo e minacciato di didtruzione.
Cliccare sul link soottostante per inviare una e-mail alla redazione dell'adige con la propria opinione.