Un articolo sulle sanzioni israeliane verso l'Anp di Hamas e sulle critiche provenienti dall'Onu:
Gerusalemme. L’Autorità palestinese, dopo l’insediamento del nuovo Consiglio legislativo a maggioranza estremista, è “un’autorità terrorista”. Né più né meno, secondo il premier israeliano, Ehud Olmert. Le parole contano, stridono. Soprattutto se confrontate con quelle arrivate qualche ora dopo, dal leader supremo di quell’Iran che vorrebbe cancellare Israele dalla faccia della terra. “La vittoria di Hamas alle elezioni parlamentari è stata una divina sorpresa – ha detto l’ayatollah Ali Khamenei alla delegazione del gruppo terroristico in pellegrinaggio a Teheran a caccia di soldi – I palestinesi hanno dimostrato la loro maturità politica votando Hamas e scegliendo così la via della lotta e la resistenza contro i sionisti”. E i soldi da Teheran arrivano, copiosi, secondo il ministro israeliano della Difesa, Shaul Mofaz, e così anche dai cosiddetti “paesi non allineati”, che passano attraverso Cuba e il Venezuela, soldi che non possono compensare i “fondi satanici” dell’America, ma sono, dal punto di vista di Hamas, ben più affidabili. La questione dei soldi è dirimente. Fa la differenza tra chi esercita una forma di deterrenza e chi no. “Rispetto i palestinesi per la loro decisione democratica di eleggere Hamas, ma devono capire che nelle democrazie esistono degli obblighi”, spiega al Foglio Marina Solodkin, candidata nella lista di Kadima, il partito ora guidato da Olmert e fondato dall’ex premier, Ariel Sharon. La linea del partito è questa, non c’è molta scelta: “Il sostegno ai palestinesi deve continuare attraverso le ong che passano per le Nazioni Unite e la Croce rossa – spiega Solodkin – ma se Hamas continua a non voler riconoscere Israele non c’è alternativa alla sospensione dei finanziamenti”. Il governo di Gerusalemme ha congelato i fondi, Condoleezza Rice, segretario di stato americano in viaggio in medio oriente, ha chiesto all’Anp di restituire anche i 50 milioni di dollari già stanziati, ripetendo che con i terroristi non si tratta. Nell’agenda di viaggio di Condi, il dossier nucleare dell’Iran e il governo di Hamas sono al primo posto: in Egitto, in Arabia Saudita e negli Emirati arabi Rice andrà chiedendo la linea della fermezza. Il fronte della deterrenza si compatta così, dicendo – con le parole del Wall Street Journal – che la riduzione dei fondi non è una forma di punizione, è una forma di educazione. Chi la deterrenza non sa applicarla, invece, sta di casa in Europa o al Palazzo di Vetro. Al grido “non possiamo dimenticare i palestinesi” – come ha ripetuto nella sua visita meridionale il ministro degli Esteri di Bruxelles, Javier Solana – i fondi, in qualche modo, arrivano, pur se le precondizioni – il riconoscimento d’Israele soprattutto – non sono soddisfatte. La Lega araba sta preparando il suo progetto di finanziamento e ieri l’inviato onusiano in medio oriente, Alvaro de Soto, ha definito il congelamento delle rimesse fiscali voluto da Olmert “premature e inopportune”. Ma il governo di Gerusalemme non si scompone. “Se Hamas non riconosce il nostro diritto di esistere – spiega Solodkin – può anche dimenticarsi della soluzione dei due stati vicini”. Le ripercussioni sulla campagna elettorale israeliana si sentono. Il Likud cresce nei sondaggi, il dibattito sull’unilateralismo e la definizione dei confini diventa aspro. Solodkin ne parla con cautela, dice di aver votato a favore del disimpegno da Gaza, spiega che l’unilateralismo è una delle alternative più praticabili, ma sottolinea che “altri ritiri non sono al momento già decisi”, le cose sono troppo cambiate dopo il voto palestinese. Olmert – “il politico più intelligente del paese”, lo definisce con enfasi Solodkin – cerca nella questione economica la prima risposta, in accordo con gli Stati Uniti. La strategia di Kadima è fatta per mantenere, almeno per ora, come interlocutore Abu Mazen, che ieri sera ha incontrato il futuro premier palestinese, Ismail Haniye, per le prime consultazioni di governo, alle quali il Jihad islamico – firma degli ultimi attentati a Israele – ha già espresso il suo rifiuto. Hamas punta a una coalizione col partito del presidente in modo da poter contare su qualche punto in più di credibilità. Questo gioco di pretesti e paraventi finisce per favorire i più duri di Israele, i membri del Likud guidato da Benjamin Netanyahu, che sostengono di essere circondati dall’“Hamastan”, come l’ha definito il leader del Likud, un coacervo di forze che fa capo al gruppo islamista ma che colleziona fondi e ideologie di gran parte del mondo musulmano. Che ieri, infatti, è stato richiamato a metter mano al portafoglio da Teheran per costruire una rete di finananziamenti alternativa a quella esistente finora.
Un articolo di Tatiana Boutorline sulla corsa all'atomica dell'Iran
L’ultima finestra di opportunità prima delle sanzioni si è aperta ieri a Mosca con ambizioni modeste, ma a Teheran c’è motivo di ritenere che la partita non sia perduta e i suoi emissari continuano imperturbabili a dettare condizioni. In visita a Bruxelles per incontrare il capo della diplomazia dell’Unione europea, Javier Solana, e i rappresentanti della troika europea, il ministro degli Esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, ha criticato la mancanza di disponibilità degli europei, messo in guardia dall’uso punitivo del Consiglio di sicurezza e confermato che l’Iran non recederà di un millimetro dai suoi criteri per il compromesso. Tanta sicurezza da parte di Mottaki è del resto giustificata dall’Agenzia atomica: perché rassegnarsi a una pur parziale capitolazione riguardo al congelamento delle attività di arricchimento dell’uranio, quando i paladini dell’appeasement sono pronti a riconoscere le ragioni dell’orgoglio iraniano? Perché cedere ai poco convinti aut aut russi, quando il premio Nobel Mohammed ElBaradei insiste nell’assicurare garanzie di sicurezza all’Iran, sminuisce l’intransigenza transatlantica e fa sapere, attraverso la solita gola profonda, che è allo studio l’ipotesi di un progetto pilota per l’arricchimento su piccola scala nella centrale iraniana di Natanz? Per la dirigenza di Teheran i segnali che arrivano da Vienna sono promettenti, rappresentano – ha detto il ministro Mottaki – “un passo avanti verso l’accettazione dell’arricchimento dell’uranio in Iran”. Forte di questo autorevole avallo, il ministro Mottaki ha chiarito che anche in caso di accordo con i russi “continueremo con la cooperazione dal punto in cui siamo adesso, ossia lo sviluppo della ricerca continuerà”. A Mosca il capo della delegazione iraniana, Ali Hosseinitash, ha confermato: “non c’è alcun legame tra la proposta russa e una moratoria sull’arricchimento dell’uranio”. Galvanizzati da El- Baradei e dal tempismo dei partner cinesi nel rinnovare l’interesse per i giacimenti di Yadavaran proprio nel pieno della minaccia- sanzioni, l’Iran sfugge all’isolamento e trova conferme alla sua strategia. “Non so come finirà ma non sarà facile” aveva detto alla vigilia dei colloqui con gli iraniani il ministro degli Esteri, Sergej Lavrov. E’ finita con l’Iran che fa le pulci alla proposta russa e Mosca pronta a tutto pur di dimostrare di aver fatto il possibile per portare a casa il risultato. Sono tre i desideri di Teheran: far partecipare i propri scienziati alle attività nelle centrali russe, continuare a condurre in Iran operazioni di arricchimento su piccola scala per scopi di ricerca e coinvolgere paesi terzi, in primo luogo gli alleati cinesi, nell’eventuale joint venture. In merito alla prima richiesta i russi sono per ora restii a concessioni frettolose, riguardo alla terza sono possibilisti ma evasivi. Alla seconda questione i russi hanno finora detto no – di concerto con la troika ue e Washington – ma ElBaradei ha rimescolato le carte e non è da escludere che lo abbia fatto con la benedizione del Cremino. Secondo Anton Khlopkov, vicedirettore del think tank Pir, “in fondo la Russia e i partner europei potrebbero anche accettare che l’Iran porti avanti la conversione dell’uranio a patto che poi venga tracciata una linea rossa per l’arricchimento”. Una posizione avvalorata dalle promesse del ministro degli Esteri, Lavrov. “Quando la fiducia della comunità internazionale sarà ristabilita, bisognerà tornare alla questione del diritto per l’Iran di portare avanti la ricerca nucleare a scopo pacifico”. Secondo fonti iraniane Mosca avrebbe garantito a Teheran che, superata l’attuale fase di sospetto della comunità internazionale, il Cremlino si adopererà per far accettare l’arricchimento in Iran. C’è chi crede, come Leonid Ivachov dell’Istituto geopolitico russo, che l’Iran vada rassicurato: “Temono che da un momento all’altro noi smetteremo di fornire combustibile per la centrale di Bushehr. Dobbiamo fornire garanzie sufficienti. Non è ancora il momento degli ultimatum”. E’ scoccata l’undicesima ora, ma Teheran non è mai a corto di avvocati difensori. Altre finestre di opportunità attendono l’Iran. Il prossimo banco di prova delle intenzioni russe sarà giovedì a Teheran, con la missione del capo dell’agenzia atomica russa Rosatom, Sergei Kirienko.
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