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La Stampa Rassegna Stampa
20.02.2006 Bertinotti prende le distanze da slogan e candidati impresentabili, ma non da tutti
e confonde "governo" e "Stato" di Israele

Testata: La Stampa
Data: 20 febbraio 2006
Pagina: 7
Autore: Fabio Martini - Mattia Feltri
Titolo: «Bertinotti: terribile quello slogan - l'impresentabile»

Fabio Martini su La STAMPA  di lunedì 20 febbraio 2006 intervista Fausto Bertinotti sulla manifestazione di sabato 18 febbraio, nel corso della quale sono state bruciate bandiere israeliane e si é ineggiato alla strage di Nassirya. Segnaliamo ai nostri lettori la confusione di Bertinotti tra il governo di Israele, che certo é legittimo criticare e lo Stato. Criticare quest'ultimo può voler dire soltanto contestarne la legittimità, o aderire alla più aggressive e menzognere parole d'ordine dell'antisionismo: quelle che descrivono Israele come "Stato razzista " e di "apartheid. Ecco il testo: 

A 65 anni, ora che ha sposato la nonviolenza, Fausto Bertinotti si ritrova nella curiosa condizione di condannare gli opposti estremismi. Quello dei manifestanti che sabato a Roma hanno urlato «Dieci, cento, mille Nassiriya», uno slogan che il leader comunista arriva a definire «terribile». Ma anche la cultura politica che ha prodotto l’esibizione televisiva del ministro Calderoli: «La vicenda della maglietta ripropone una grande questione: nel Mediterraneo l’Italia deve essere il paese del dialogo, oppure - facendo propria la cultura del conflitto tra civiltà - è destinata a diventare la frontiera più esposta di conflitto col mondo arabo e islamico?».
Davanti al falò di una bandiera di Israele, lei non sente un brivido lungo la schiena? Non sente risorgere il fantasma dell’antisemitismo?
«Poiché penso che l’antisemitismo sia un fenomeno drammaticamente ricorrente e terribilmente pericoloso, per questa ragione penso non si possa catalogare come antisemita una posizione di critica allo Stato di Israele».
Ma bruciare una bandiera è criticare quello Stato o simbolicamente invocarne la combustione?
«Penso tutto il male possibile dell’atto di bruciare una bandiera di Israele. Per ciò che questo atto promuove in termini di dolore e di sofferenza e per le possibili interpretazioni su una possibile pulsione antisemita. Ma c’è in giro un tale antisemitismo che mi pare un lusso discuterne per un episodio come quello di sabato che io, sia chiaro, reputo intollerabile politicamente».
In uno slogan feroce come quello sulle «1000 Nassiriya», lei sente prevalere l’apologia della violenza o una polemica esasperata contro l’«occupazione» dell’Iraq?
«Ma che c’entra? La critica all’occupazione la faccio mia, senza per questo attribuire fondatezza a forme di violenza e di morte di cui non capisco perché le forze di pace dovrebbero tessere l’apologia».
Ma nel passato anche nel suo partito non si era parlato di resistenza irachena?
«Il diritto alla resistenza contro l’oppressione, da Locke in poi, sta dentro alla cultura dell’Occidente e alla storia dei popoli. C’è un diritto ma non si deve fare di ogni erba un fascio: anche nella resistenza irachena debbono e possono essere privilegiate le forme non violente. E comunque anche nell’esercizio di un diritto ci sono forme non condivisibili che debbono essere denunciate: per questa ragione quello di Roma era uno slogan terribile, che non è in grado di farsi carico di un elemento di pietas senza la quale ogni politica smarrisce l’umanità».
Voi non eravate in piazza, il Pdci sì: stanno cercando di prendervi dei voti?
«Dalla scissione del 1998 in poi mi sono sempre inibito qualunque reazione nei confronti di questo partito. C’è un tale strumentalismo che è bene non farsi avvolgere in questa, come in altre spirali».
Marco Rizzo del Pdci ha addirittura evocato una categoria commerciale: lei si starebbe svendendo...
«Ci sono non solo delle idee ma anche delle persone con le quali per ragione di igiene, è bene non entrare in rapporto. Fa parte della non-violenza».
Ma lei non teme che questa Rifondazione nonviolenta, non pregiudizialmente ostile a Israele e che ha fatto i conti con lo stalinismo, possa pagare un prezzo elettorale?
«Un processo è vero quando ci sono contrasti. Noi proponiamo una precisa idea di Rifondazione: è finito il tempo in cui sotto un manto ideologico stavano cose molto diverse. Noi competiamo con i riformisti ma anche con culture della sinistra radicale che non condividono l’opzione non violenta».
Diceva Pietro Nenni: “A sinistra c’è sempre uno più puro che ti epura...”. Per voi è la nemesi?
«Formula brillante ma difensiva quella del vecchio Nenni. Noi vogliamo sottrarre una cultura politica, che vuole essere di liberazione, a ciò che la può corrodere dalle fondamenta: la coppia amico-nemico»
Per la storia della sinistra italiana una scommessa enorme...
«Certo e speriamo di farcela!».
Il ministro Calderoli non è stato costretto alle dimissioni dal suo gesto ma dai morti di Bengasi: l’ostilità al mondo arabo sta dentro la maggioranza e il suo elettorato?
«Questa vicenda riguarda un ministro, dunque significa che c’è una sedimentazione molto profonda. Detto che la Lega non è Le Pen, tuttavia il tratto veramente originale, la carta vincente della costruzione berlusconiana è stata l’alleanza tra liberismo e populismo. Da solo il neoliberismo non avrebbe mai governato l’Italia. Il populismo è la porta attraverso cui entra la sistematica avversione al migrante e alle sue culture, sino ad individuarlo come capro espiatorio. In un mondo dominato dall’incertezza, carichi su di lui tutte le paure, quella di non aver più la pensione o il mancato lavoro di tuo figlio. E’ così che nasce il conflitto di civiltà».

La STAMPA pubblica anche un interessante articolo di Mattia Feltri sul senatore di Rifondazione Comunista Malabarba, d'accordo con Ferrando nel negare legittimità a Israele. Un "impresentabile" che Bertinotti non si fa scrupolo di presentare agli elettori.

Dopo l’allarme democratico suscitato dall’irruzione nelle cronache di neo-neri come Gaetano Saya e Adriano Tilgher, vedere «chiari rigurgiti fascisti» sarebbe anche accettabile. E’ che il senatore ricandidato di Rifondazione, Gigi Malabarba, vede rigurgiti ovunque, spesso, da sempre. Vede rigurgiti e poi vede «i padroni». Se la Fiat fa l’accordo con General Motors, lui vuole sapere chi sono «i padroni». E non per niente, ma perché nell’aria sente come un «estremismo padronale». E poi intuisce «lo zampino dei servizi segreti». Ma su un sacco di cose: il G8 a Genova, le vicende in Iraq («la soluzione finale di Bush»), le campagne elettorali. Sempre lo zampino. E a proposito di zampini, il senatore Malabarba si fa forte della carica e, a chi sa, chiede se per caso non è che «la Cia e il Mossad fossero complici delle Br?».
Questi sono i temi e questi sono i toni. Sanno un po’ di agée. Per esempio, di sé dice: «Sono al servizio delle classi oppresse». E come servitore, invita ad abbattere il governo di Silvio Berlusconi. Come? Attraverso «le lotte dei lavoratori». O, ancora meglio, attraverso la «mobilitazione sociale». E pertanto il compagno Fausto Bertinotti, intendendosela con Romano Prodi, fa «una scelta governista aggravandola». E, detto tutto questo, rimane da ricordare della volta in cui in aula si stava discutendo del via libera al rientro in Italia degli eredi maschi di casa Savoia. Al che Malabarba espose un cartello: «Viva Bresci!», in onore dell’anarchico Bresci (Gaetano) che nel 1900 uccise Umberto I a Monza. Se ne evince che Malabarba sarebbe presentabilissimo, ma alle politiche del 1919 in «Forza Bakunin».

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