Fiamma Nirenstein spiega come sono state definite le misure di Israele verso l'Anp governata da Hamas, e il loro carattere "interlocutorio" Su La STAMPA
Le misure prese da Israele nei confronti di quella che Ehud Olmert definisce «entità terrorista», da quando si è insediato il Parlamento a maggioranza Hamas, sono misure interlocutorie, statuite in una situazione di emergenza politica e dal risultato incerto; ma con un significato, invece, che è un messaggio strategico per il consesso internazionale. Il messaggio ripete: Israele difenderà i suoi cittadini dal terrorismo senza compromessi. Ma la porta, nonostante si tratti di scelte difficili, è stata lasciata mezza aperta, o almeno con un discreto spiraglio. Sia durante la riunione di venerdì, in cui Ehud Olmert aveva convocato tutti gli uomini della difesa, dell'intelligence e della politica estera, sia durante la riunione del governo di ieri, due schieramenti si sono fronteggiati. Da parte del gruppo difesa-intelligence sono venute indicazioni ben più consistenti di quelle passate ieri: ovvero, sospendere il trasferimento di fondi sia all'Autorità dominata da Hamas che l'assistenza alla Sicurezza palestinese, e verificare meglio il passaggio dei lavoratori che attraversano a migliaia i check point da Gaza in Israele di Eres e di Karni. Si è parlato di tagli dell'elettricità e della benzina, di una selezione accurata delle organizzazioni umanitarie che operano a Gaza e in Cisgiordania, di taglio secco delle presenze dei lavoratori palestinesi in Israele. Cosa c'era dietro queste proposte per ora rifiutate?
Non certo il desiderio di tormentare la popolazione civile, ma piuttosto la scelta di influenzare i palestinesi verso un prossimo rifiuto della leadership appena eletta, di mostrare quanto costa eleggere proprio rappresentante un'organizzazione integralista islamica devota alla distruzione dello Stato d'Israele e con un deciso tratto antisemita nella propria carta di fondazione. L'idea era quella di spingere i palestinesi a ritornare a Fatah, che, per quanto corrotto e responsabile anche di tanti attacchi terroristi suicidi, pure può contare su un leader che anche sabato, nel giorno dell'insediamento, ha mostrato di scegliere ancora due stati per due popoli, proseguendo sulla road map. Ma nella discussione la parte rappresentata in primis da Tzipi Livni, ministra degli Esteri, ha avuto la meglio: si è dunque puntato a convincere non i palestinesi a cambiare rotta, ma il consesso internazionale a battersi contro il terrorismo e quindi a non accettare Hamas come niente fosse. Israele non vuole, per quanto possibile, agire in modo riprovevole per il mondo, e ha scelto di mantenere distinto il taglio degli aiuti all'Autorità da quello degli aiuti alla popolazione. E un filo sottilissimo: ma per questo permane l'ingresso dei lavoratori e l'aiuto umanitario. L'altra speranza, è che Abu Mazen, che chiede per la sua parte al nuovo governo il controllo della politica estera mantenga aperto un canale israeliano senza che Hamas venga implicata, e impegni l'Autorità, come ha detto sabato, a rispettare gli accordi presi.
Ma può funzionare questa scelta? In realtà, non sembra avere molte possibilità. Intanto, le condizioni economiche dei palestinesi sono così precarie che difficilmente la comunità internazionale non si sentirà obbligata, prima o dopo, a premere Israele verso un'apertura a Hamas e ad aprire essa stessa nuovi rapporti. D'altro lato, Hamas, che ha già detto no al riconoscimento d'Israele, no al cambiamento della Carta, no alla cessazione dalla lotta armata, prepara solo una «trappola di miele», dicono qui: sempre più borghese e occidentale, incravattata e con la barba ben sistemata, seguita a parlare di una possibile «hudna», una tregua, di cui si può parlare se Israele rientra nei confini del '67. E' una proposta irrealistica e fatta con puro spirito di sfida: Israele non si siederà con nessuno che non riconosca la sua esistenza e che inciti allo sterminio degli ebrei. Hamas da segno di seguitare a basare sia il consenso interno che la sua strategia internazionale sulle sue scelte programmatiche, anche se il tono è più educato. Di fatto, la ricerca di fondi da fonti alternative rispetto a quelle occidentali è molto attiva: gli emissari di Hamas sono già andati in Arabia Saudita, in Egitto, in Qatar e domani l'organizzazione manda il suo più alto ufficiale Khaled Mashal da Ahmadinejad, a Teheran, per incontri strategici. In questo modo si stabilisce un asse con il Paese mediorientale che in questo momento prepara, secondo il giudizio di Israele, una bomba atomica destinata, stavolta secondo le parole del suo presidente allo Stato ebraico. A sua volta, l'Iran influenza pesantemente sia la Siria che gli Hezbollah, musulmani sciiti comandati da Nasrallah: tutte queste forze sono quelle che non riconoscono l'esistenza d'Israele e formano, considerando anche il confine libanese dominato dagli Hezbollah, una catena di rischio sia esterna, che adesso, interna. Dunque, questo primo viaggio ufficiale dopo l'insediamento del Parlamento, lancia un messaggio chiaro, dopo le promesse del presidente iraniano di «spazzare via Israele dalla mappa». Chi ben comincia...
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