Dalla prima pagina del FOGLIO di venerdì 17 febbraio 2006 un'analisi delle incongruenze e della scarsa obiettività del rapporto dell'Onu sulla prigione di Guantanamo:
Milano. L’autore di questo articolo non è mai stato a Guantanamo, esattamente come i cinque esperti dell’Onu che ieri hanno presentato il rapporto sulle torture nel campo di detenzione americano per i terroristi catturati in Afghanistan. Gli esperti delle Nazioni Unite, un’algerina, un austriaco, un argentino, una pakistana e un inglese, non sono mai stati a Guantanamo non perché gli sia stato impedito l’accesso, ma perché non hanno voluto accettare il divieto di interrogare i detenuti impostogli dalle autorità militari. Sicché tutte le informazioni contenute nel rapporto Onu, e riportate qui, non provengono da riscontri diretti ma da colloqui con avvocati, familiari, ex detenuti e da notizie giornalistiche.
Il rapporto sostiene che a Guantanamo si pratica la tortura e si viola la legge internazionale e chiede agli Stati Uniti di chiudere immediatamente il campo di detenzione, di processare i 500 prigionieri oppure di liberarli. Washington replica che il rapporto è pieno di errori e ricorda che si tratta di “accuse formulate dagli avvocati di al Qaida, addestrati a disseminare falsità”.
La posizione americana è che a Guantanamo i detenuti vengono trattati con umanità, ma a Washington non sembrano disposti a cedere sul riconoscimento di status giuridico a quelli che loro chiamano “nemici combattenti”. Il rapporto dei cinque esperti Oni, di 54 pagine, comincia con una lunga esposizione delle leggi internazionali sullo status dei prigionieri e dell’interpretazione che ne danno gli americani. Bisogna arrivare fino a pagina 27 per trovare il primo caso concreto di tortura nei confronti di un detenuto con nome e cognome. Mister Al Qadasi è stato torturato nel 2004, non a Guantanamo ma in Yemen. “Secondo il suo avvocato – si legge nel rapporto – non è stato avvertito del suo imminente ritorno in Yemen e quindi non si è potuto opporre. All’inizio di aprile è stato sedato contro la sua volontà, ha perso conoscenza e ha avuto allucinazioni. Quando si è svegliato parecchi giorni dopo, si è ritrovato in prigione a Sana’a, dove dice di essere stato picchiato e privato del cibo”. Cioè il primo caso di tortura, e l’unico citato con nome e cognome nel rapporto, riguarda torture commesse in Yemen da yemeniti, non a Guantanamo da americani. Gli Stati Uniti in questo caso sono accusati di aver violato i trattati internazionali, nel punto in cui vietano di restituire i detenuti stranieri a paesi ove si pratica la tortura. Certamente una cosa grave, ma non dimostra che a Guantanamo si spezzano le reni a go-go, piuttosto il contrario visto che “mister Al Qadasi” ha denunciato gli abusi subiti nel suo paese, non quelli nella base americana.
Islam e detenzione
A pagina 29 c’è il secondo caso. Il rapporto dice che nell’isola si usano tecniche di interrogatorio che “potrebbero essere state appositamente create per offendere la sensibilità religiosa dei detenuti”. Per saperne di più bisogna leggere la frase seguente, posta tra parentesi: (“Per esempio far interrogare i detenuti da donne, le quali tra le altre cose ballano la lap dance durante gli interrogatori”). Probabilmente una grave offesa all’islam, ma s’è sentito di peggio nelle carceri occidentali. Nel paragrafo successivo, il rapporto ricorda cinque casi, confermati ufficialmente dal Pentagono, in cui le guardie hanno maltrattato il sacro Corano, salendoci sopra o scalciandolo, “sia intenzionalmente sia non intenzionalmente”. Un’altra violazione dei diritti religiosi è quella di aver “implicitamente o no, incoraggiato o tollerato l’associazione tra islam e terrorismo”. In verità non una cosa completamente campata in aria.
A Guantanamo, stando al rapporto dell’Onu, casi di pestaggi, percosse e violenze fisiche non ce ne sarebbero stati, se non nel trasferimento dall’estero alla base durante il quale i prigionieri sono stati incappucciati e incatenati. Sono, piuttosto, le tecniche di interrogatorio a destare dubbi. Il Pentagono da un lato ha cercato in tutti i modi di ampliare la definizione di tecniche lecite di interrogatorio, dall’altro ha sempre ribadito che vieta la tortura. In un primo momento Donald Rumsfeld ha presentato una lista di 24 tecniche di interrogatori, poi ridotte a cinque. Sono queste: beni di conforto usati come incentivi per parlare; esposizione a temperature estreme, privazione della luce e stimolazione dell’udito; alterazione dell’ambiente attraverso il cambiamento della temperatura e la diffusione di cattivo odore; cambiamento dei cicli di sonno dalla notte al giorno (ma non privando il sonno); isolamento dal gruppo. Secondo l’Onu queste tecniche si qualificano come tortura perché intenzionali, compiute da ufficiali governativi su detenuti senza potere e finalizzate a ottenere informazioni.
L’ambiguità delle direttive americane sulle tecniche di interrogatorio è stata risolta recentemente quando Bush, superando le resistenze di Cheney, ha accettato l’emendamento del senatore John McCain che vieta senza se e senza ma qualsiasi tecnica identificabile come tortura.
Gli ispettori dell’Onu hanno appreso da inchieste del Pentagono che, prima dell’approvazione dell’emendamento McCain, tre ex detenuti si sono lamentati di essere stati interrogati dopo aver subito la privazione del sonno, in isolamento prolungato, alla presenza di cani ed esposti a temperature estreme. Il paragrafo del rapporto sulle condizioni di detenzione dice che esistono molte prove che indicano come i militari abbiano forzato i detenuti a collaborare non fornendo loro la biancheria o i prodotti igienici e tenendo la luce accesa nelle celle. In generale è la natura indefinita del confino e l’impossibilità di accedere a un tribunale indipendente a causare ai detenuti gravi problemi di salute mentale. Secondo il rapporto, le inchieste interne sugli abusi condotte dall’Amministrazione non sono imparziali. Nessun tribunale indipendente se ne è occupato, “una chiara violazione degli standard minimi internazionali”, anzi una “violazione degli obblighi degli Stati Uniti derivanti dagli articoli 12 e 13 della Convenzione contro la tortura”. Avete letto bene, la violazione non riguarda abusi e torture, ma non aver lasciato indagare una corte ordinaria sugli eventuali abusi e torture.
I cinque ispettori hanno ricevuto “serie e credibili” notizie di violazione del diritto alla salute, probabilmente l’accusa più grave e circostanziata, sebbene di seconda mano, contenuta in tutto il rapporto presentato ieri: l’alimentazione forzata ai detenuti in sciopero della fame. Il rapporto spiega che la condizione psicologica causata dal confino, dalle privazioni e dall’impossibilità di appellarsi a un tribunale indipendente hanno causato ad alcuni detenuti danni mentali molto gravi, tanto che ci sarebbero stati diversi tentativi di suicidio, anche collettivi, da parte dei terroristi islamici. Più recentemente hanno iniziato scioperi della fame a oltranza, a cui gli americani hanno risposto alimentadoli forzosamente e sotto controllo medico, proprio per evitare che ci scappasse il morto. Secondo l’Onu si tratta di una grave violazione delle norme internazionali. In primo luogo perché i detenuti hanno il diritto a rifiutare il trattamento medico, in secondo luogo perché ai medici non è eticamente consentito essere presenti durante trattamenti compiuti senza il consenso dei detenuti. Violazioni etiche certamente gravi, ma che cosa avrebbero scritto gli esperti dell’Onu se gli americani avessero lasciato morire i loro prigionieri?
La Convenzione di Ginevra
A fronte della parola “tortura” che evoca drammatiche condizioni di vita nel carcere, è lo stesso rapporto Onu a rivelare che di fatto a Guantanamo non c’è niente di paragonabile alle mostruose fotografie di Abu Ghraib. In diciotto mesi di indagini transnazionali compiute in diversi paesi, ma non a Guantanamo, il rapporto ha trovato soltanto quanto riportato sopra. Il punto cruciale della vicenda Guantanamo è quello dello status giuridico e del limbo in cui vivono questi prigionieri. Di per sé una violenza e un abuso giuridico con possibili conseguenze psichice nei confronti dei detenuti. Il caso però non è semplicissimo e la disputa è in punta di diritto. A questi 500 prigionieri, la Casa Bianca nega il diritto a un processo in una Corte ordinaria, anche se per diciassette di loro a breve partirà un processo in una corte militare. Nel 2004 la Corte suprema ha concesso ai detenuti stranieri rinchiusi a Guantanamo la possibilità di ricorrere alle corti federali, smantellando l’impostazione della Casa Bianca.
Ma il punto centrale del caso Guantanamo è il seguente: gli americani sostengono che a questi detenuti non si applica la convenzione di Ginevra, nella parte della definizione del loro status, perché i terroristi non sono combattenti di un esercito regolare, fanno parte di un’organizzazione terroristica non necessariamente affiliata a uno stato sovrano. Washington è in guerra e crede che a tutta questa materia debbano essere applicate le leggi di guerra, però adattate alla nuova realtà del terrore organizzato. Il rapporto dell’Onu invece parte dall’esplicito presupposto che la guerra al terrorismo non sia un conflitto armato (“gli Usa attualmente non sono impegnati in alcun conflitto armato internazionale”). E del resto cos’altro aspettarsi da cinque esperti nominati dalla comica Commissione diritti umani dell’Onu, la stessa che vanta tra i suoi membri i peggiori torturatori del mondo cioè Cina, Cuba, Arabia Saudita, Sudan, Zimbabwe ed Eritrea? Guantanamo forse andrebbe chiusa, mai prima della Commissione Onu sui diritti umani, però.
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