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Il Foglio Rassegna Stampa
17.02.2006 Dossier Iran
la vita degli ebrei, i blogger, i finanziamenti americani al regime change, i rapporti commerciali con l'Italia, l'inedita fermezza francese sui piani nucleari

Testata: Il Foglio
Data: 17 febbraio 2006
Pagina: 1
Autore: Tatiana Boutourline -Claudio Cerasa - Mauro Suttora - Carlo Stagnaro - Jean-Pierre Darnis
Titolo: «Oltre i bollettini - Battaglia online - Condi vuole (altri) 75 milioni di dollari per il regime change dei mullah - Ecco lo scrigno prezioso degli investimenti italiani in Iran - La voce secca diParigi:il nucleare diTeheran è“militare”e“clandestino”»

IL FOGLIO  di venerdì 17 febbraio 2006 pubblica a pagina 1 dell'inserto un corposo dossier sull'Iran. Iniziamo da un articolo di Tatiana Boutorline sulla vita della locale comunità ebraica:

 Roma. Gli ebrei sono in Iran da molto prima che nella sua storia si affacciassero i musulmani. Amano ricordare che l’Iran è casa loro da 2.500 anni e che fu uno scià persiano, Ciro il Grande, a liberarli dalla cattività babilonese. La comunità ebraica iraniana è una delle più antiche e radicate del medio oriente e il senso di appartenenza è profondo. Andarsene è una scelta lacerante. Lo fu nel 1979, quando le minacce della Repubblica islamica erano soltanto oscuri presagi e lo è adesso che quelle stesse minacce si reincarnano in Mahmoud Ahmadinejad. Chi parte conserva una nostalgia bruciante e non smette di amare l’Iran, sovrapponendogli l’odio per i suoi governanti. Chi rimane si aggrappa alla speranza che le libertà residuali che lo accomunano a tanti altri iraniani sopravvivano all’offensiva del neokhomeinismo del partito dei martiri. La comunità è riconosciuta come minoranza dalla Costituzione della Repubblica islamica. Come i cristiani e gli armeni, gli ebrei sono formalmente tollerati. A patto di rinunciare al proselitismo, possono praticare la religione dei padri, eleggere un loro deputato al Parlamento, avere scuole, asili, sinagoghe e godere di alcune deroghe alla legge islamica. Ma la burocrazia li ostacola, devono attendere più a lungo per ottenere un visto e rassegnarsi all’emarginazione. L’eguaglianza è un miraggio, ma nella Repubblica islamica la discriminazione tocca tutti gli iraniani sprovvisti di solide credenziali rivoluzionarie e in fondo non è questo per la comunità l’aspetto più inquietante. Nelle botteghe di Palestine, nel downtown di Teheran – come a Isfahan, Shiraz e Hamedan – s’è insinuata la paura. “Gli ebrei hanno paura come tutti gli iraniani – racconta al Foglio il giornalista ebreo iraniano Menashe Amir – Temono il declino economico, la fuga dei capitali, le sanzioni e la guerra. Ma la loro è una paura doppia. Le dichiarazioni negazioniste di Ahmadinejad gettano ombre sinistre sul futuro degli ebrei in Iran”. Tre settimane fa, il presidente del Consiglio della comunità, Haroun Yeshayaei, ha inviato una lettera di protesta ad Ahmadinejad. “Come è possibile ignorare l’evidenza del massacro degli ebrei?”, ha chiesto a colui che aveva promesso il “governo della gentilezza” senza ricevere risposta. L’anno scorso erano 22 mila gli ebrei iraniani censiti, quest’anno, secondo Amir, il numero scenderà a 17 mila. Ma il furore del presidente è soltanto l’ultimo sintomo di una malattia profonda. Delle antiche radici di accoglienza dell’impero achemenide resta poco più di un nostalgico vanto. La pretestuosa linea rossa tra antisionismo e antisemitismo accampata da Khomeini e dai suoi eredi è diventata sempre più sottile, fino a essere smascherata. La comunità è sgomenta. Che nel mirino delle invettive del presidente ci siano soltanto gli israeliani e gli ebrei europei è una rassicurazione che non tranquillizza nessuno, perché il cancro dell’antisemitismo in Iran guadagna proseliti e l’immunità con cui lo stato pretende di garantire la sua comunità è un alibi stolto. “I Protocolli di Sion sono stati tradotti e pubblicati più di dieci volte – dice Amir – la televisione manda in onda programmi in cui gli ebrei rapiscono bambini palestinesi, li uccidono per servirsi del loro sangue e commerciarne gli organi”. L’Iran – dice Amir – si è rimesso in pari con il mondo arabo di 25 anni fa, che adottava i più agghiaccianti luoghi comuni del nazismo. Ma la propaganda non ha ancora vinto. Da 50 anni, Radio Israel parla in farsi agli iraniani e loro non hanno smesso di ascoltare. Amir conduce un programma quotidiano che è diventato un must per chi non si accontenta dei bollettini di regime. “Abbiamo milioni di ascoltatori che ci seguono dall’Iran. Ci raccontano le loro angosce, protestano contro il regime, fanno domande sull’ebraismo, su Israele e sulla democrazia. Ci chiedono che siano confutate le posizioni dei loro governanti”. Nel settembre del 2003 il presidente israeliano di origine iraniana, Moshe Katzav, partecipò a una trasmissione di Radio Israel. Rispose in farsi alle domande degli ascoltatori, commosso e affettuoso verso l’Iran e gli iraniani. “Molti conoscono la storia attraverso l’indottrinamento del regime, ma i giovani sono curiosi e hanno voglia di capire”. Per rispondere ai loro interrogativi Radio Israel ha creato un sito in farsi (www.israel-iran.org).

Claudio Cerasa tratta del fenomeno dei blogger:


Roma. “Ho imparato a non aver paura. Ho imparato a scrivere un blog”. Ali ha imparato a non spaventarsi. Parla di amore. Parla di cinema, di Israele. Parla di Iran. Del suo Iran, lo critica, lo giudica. Anche Hossein lo ha fatto. Ma a casa sua è censurato. Se ritorna lo arrestano. L’ultima volta a Teheran Hossein Derakhshan è stato fermato, perquisito, bloccato per sette ore. Si è dovuto scusare. “Ma solo per scappare”. Trentuno anni, vive in Canada, ha sei numeri di telefono. In Israele, in Spagna, in Canada, in Inghilterra, in Germania, negli Stati Uniti. Gira molto, fa girare le sue idee. “La gente deve conoscerci. L’Iran non è solo Ahmadinejad”. Cinque anni fa è scappato a Toronto. Il suo blog – Hoder.com – è seguito da undicimila iraniani ogni giorno, dice. In Iran le sue pagine sono censurate. Gli utenti che sono riusciti a registrarsi ricevono i contenuti tramite e-mail. Si parla di politica, si parla del mondo. Di musica, di sport, di attualità. Si parla di Iran ai non iraniani. Agli iraniani si dice di quello che non si vede. Quello che non viene fatto vedere. Nel blogistan iraniano sono quasi sei milioni e mezzo gli utenti che possiedono un collegamento Internet. Settecento mila di loro hanno un blog. Dopo l’inglese, il francese e il portoghese, lo spagnolo e il cinese, il farsi (secondo la rivista Bad Jens) è tra le lingue più presenti sul web. L’Iran è tra i venti nemici di Internet, secondo Reporter senza frontiere. C’è la censura. Ma ci sono anche i blog. Qualcuno viene bloccato. Altri si appoggiano su server stranieri. Scrivono tantissime donne. “Sono le donne il futuro dell’Iran”, dice al Foglio Hossein. La metà dei blogger iraniani è al femminile. Molte lo fanno di nascosto. Da casa, se possono. Negli Internet cafè, quando non li chiudono. Nel 2001 Hossein apre il suo blog. Il primo blog in Iran. Subito dopo, il cinque novembre, pubblica un manuale in farsi. “Come crearsi un proprio blog”. Sono settecentomila i blog oggi. Tre volte in più di quelli registrati in Italia. Il doppio di quelli tedeschi. Duecento nuovi ogni giorno. Mojtaba Saminejad è finito in carcere per avere pubblicato sul proprio blog notizie “offensive” verso l’ayatollah Khamenei. Mohammad Ali Abtahi, ex vicepresidente per gli Affari legali e parlamentari, è stato il primo politico membro del gabinetto iraniano ad aver lanciato on line un suo blog. Era il 2003. “Solo propaganda”, dice di lui Hossein. Su “Eyes Wide Shut” da una parte il mondo iraniano, dall’altra gli Stati Uniti. Tim Burton, con foto. Accanto a lui la storia del film Hamoun, girato da Dariush Mehrjui. “I love this movie very much”, dice “Hamidix”. Cinema, sport. Politica. L’ambizione politica L’IranPressNews aggiorna chi non ha la possibilità di venire a conoscenza di quello che succede in Iran. Il sito persiano della Bbc a gennaio era stato censurato. A fine gennaio Hossein era in Israele. Voleva tornare in Iran. “Mi avrebbero arrestato”. Arriva a Tel Aviv, in cattedra all’università. “L’Iran e Israele dovrebbero essere alleati”. Spiega come i riformisti iraniani utilizzino il web per scopi politici. Parla di censura, degli iraniani. Parla con tantissimi israeliani. Ora Hossein vuole entrare in politica. Nel suo partito ci saranno tantissime donne. Dice al Foglio. “Stiamo preparando già da ora la campagna elettorale. Ci presenteremo alle elezioni municipali del febbraio del 2007 a Teheran. E’ un punto di partenza. Potremmo puntare anche più in alto. I blogger sono con noi. Noi stiamo lavorando per questo”. Moderato, liberale. Tony Blair è il suo politico ideale. Bush “is a cool person”, gentile, simpatico, “se gli iraniani capissero chi è davvero lo adorerebbero”. Non c’è ancora un programma. Hossein lo sta scrivendo. Insieme ai blogger. “Le parole non sono mai abbastanza”, dice Saleh sul suo blog, 23 anni studente universitario. Scorrono immagini di Teheran. Donne in preghiera. Prega anche lui. “Prego perché non sia chiuso”. Qualcuno crede nei pensieri. Lo dice dr 02. Lui ci crede. Scrive. E’ uno dei settecentomila. “Vivo. Per vivere non posso dimenticarmi come si fa a respirare”. Lui respira. Insieme a lui respirano in settecentomila. Con le parole. Ali ha imparato a non aver paura. Ha imparato a scrivere un blog.

Mauro Suttora della decisione americana di aiutare l'opposizione democratica in Iran: 

New York. Michael Ledeen ha vinto. L’esponente neoconservatore che da anni si batte per aiutare l’opposizione democratica in Iran ha visto infine accolte le sue proposte da Condoleezza Rice: “Intraprendiamo un nuovo sforzo per assecondare le aspirazioni del popolo iraniano – ha detto il segretario di stato al Senato – e utilizzeremo 85 milioni di dollari nello sviluppo di reti per riformatori, i dissidenti politici e gli attivisti dei diritti umani”. E’ una svolta storica: ora s’attende l’approvazione del Congresso. L’anno scorso gli Stati Uniti avevano stanziato soltanto tre milioni e mezzo di dollari per iniziative di pressione nonviolenta in Iran. Per quest’anno la cifra era triplicata a dieci milioni. Ma a questo punto il dipartimento di stato sembra puntare su questo tipo di opzione e ha aumentato geometricamente i fondi, chiedendo altri 75 milioni di dollari. La maggior parte – 50 milioni – sarà spesa per potenziare le trasmissioni in lingua farsi di alcune tv e radio via satellite basate a Los Angeles. Rice ha annunciato partnership con canali privati, che trasmettono soprattutto musica, ma anche un ampliamento a 24 ore su 24 delle trasmissioni in Iran di Voice of America e radio Farda. Ai sindacati iraniani, ai dissidenti e alle ong per i diritti umani andranno 25 milioni. Passeranno soprattutto attraverso la Ned (National endowment for democracy), l’organizzazione parastatale bipartisan americana che promuove la democrazia nel mondo, finanziando movimenti d’opposizione. All’attivo della Ned ci sono i successi delle transizioni democratiche in Serbia, Georgia e Ucraina. Meno fortuna stanno avendo i programmi ad Haiti. I dirigenti del dipartimento di stato però non intendono ripetere gli stessi errori compiuti con l’Iraq, dove gli Stati Uniti si erano affidati a personaggi della diaspora senza un seguito in patria, come Ahmed Chalabi. Pochi fondi andranno ai monarchici iraniani, che vorrebbero reinstallare al potere la famiglia dello scià cacciato nel 1979 da Khomeini. Proprio all’intervento statunitense del ’53 contro Mossadeq e in favore di Reza Pahlavi fa ossessivo riferimento la propaganda degli ayatollah, che accusa Washington d’interferenza negli affari interni di uno stato sovrano. Cinque milioni di dollari sono stanziati per rianimare programmi di scambio e borse di studio in favore dei giovani iraniani che vogliono recarsi in America, congelati da un quarto di secolo. Saranno ripristinati anche gli inviti a studiosi, scienziati e intellettuali di Teheran per partecipare a conferenze e seminari negli Stati Uniti. Una delle conseguenze non volute e controproducenti dell’embargo economico, infatti, è l’estrema difficoltà nell’ottenere visti, peggiorata dopo l’11 settembre. Cinque milioni, infine, andranno al potenziamento dei siti internet. “E’ la mossa giusta da fare in questo momento”, applaude il senatore repubblicano del Kansas, Sam Brownback, che aveva chiesto cento milioni per promuovere la democrazia in Iran. Alcuni attivisti iraniani avevano criticato l’Amministrazione Bush, ma Brownback difende le scelte di questi anni: “Stiamo combattendo il terrorismo con metodo: prima l’Afghanistan, poi l’Iraq e adesso ci concentriamo di più sull’Iran”. Un altro senatore repubblicano, Lincoln Chaffee, del Rhode Island, ha criticato gli sforzi prodemocrazia dell’Amministrazione: “Non abbiamo fatto nulla per tutto il 2005 e ora abbiamo una situazione disastrosa in Palestina, con i terroristi di Hamas che hanno vinto le elezioni”. Il democratico Martin Indyk, della Brookings Institution, avverte che già Bill Clinton cercò senza successo di aiutare le forze anticlericali locali. E Michael McFaul, professore della Stanford University, invita a non rivelare i nomi dei destinatari degli aiuti: “Rischiano la prigione se non la vita, perché saranno additati come agenti degli americani”. E’ una partita delicata, insomma, quella annunciata da Rice. La quale ha escluso l’opzione militare contro un regime che, come ha ammesso ieri per la prima volta il ministro degli Esteri francese vuole la bomba atomica.

Carlo Stagnaro dei rapporti economici tra Italia e Iran:

Roma. E’ cautamente ottimista il sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica, di An: “Finora non abbiamo percepito mutamenti nell’atteggiamento degli iraniani verso le nostre imprese. Per avere dei segnali dovremo attendere le prime gare pubbliche nelle quali saranno coinvolte compagnie italiane”. L’escalation antisemita di Ahmadinejad e la presa di distanze del ministro Fini non hanno urtato per ora le ragioni del business: “allo stato dei fatti, non penso che assisteremo a riflessi significativi”. La posta in gioco è alta. L’Italia è il principale partner commerciale dell’Iran in Europa. L’interscambio tra i due paesi ha raggiunto, nel 2004, i 4,3 miliardi di euro. Il saldo tra esportazioni e importazioni è lievemente negativo, con le prime assestate a 2.156 miliardi (in crescita del 10,5 per cento rispetto al 2003), le altre sui 2.166 miliardi (il 14,1 per cento in più dell’anno precedente). Se nelle importazioni l’Italia è superata da Giappone e Cina (rispettivamente col 18,4 e 9,7 per cento, contro il nostro 6), sul mercato iraniano sono Germania (12,8 per cento) e Francia (8,3) a guardare dall’alto in basso il 7,7 per cento italiano. Questo non toglie che, trattandosi di un’economia in forte crescita (5,6 per cento nel 2005, sebbene viziata da un’inflazione a due cifre, un tasso di disoccupazione del 14 per cento e un 40 per cento della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà), vi siano ampi spazi di manovra. Le banche iraniane hanno depositi in Italia per oltre 7 miliardi di euro. L’Iran soffre di problemi comuni a diversi paesi mediorientali. La presenza statale ingombrante e la monocoltura petrolifera che domina le esportazioni (80 per cento) e sostiene larga parte della spesa pubblica indeboliscono lo sviluppo. C’è poi l’ostacolo dell’articolo 44 della Costituzione, che impone la proprietà statale di imprese operanti nei settori di generazione elettrica, servizi postali, telecomunicazioni e altri. Tale scoglio è stato parzialmente aggirato da un’interpretazione secondo cui lo stato deve controllare, non possedere, le compagnie in questione, consentendo quindi una parziale liberalizzazione (fermo restando il limite del 65 per cento, al di sotto del quale la mano pubblica non può scendere), che però non riguarda le industrie della difesa e petrolifera. La National iranian oil company (Nioc) ha comunque raggiunto partnership con compagnie private, tra cui l’Eni, indispensabili a fornire capitali freschi. La compagnia, allora guidata da Vittorio Mincato, è stata la prima impresa straniera a ottenere nel 2001 un contratto per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero a terra, quello di Darquain. Questo fa del Cane a sei zampe il più importante partner internazionale di Nioc: l’investimento complessivo su Darquain sarà di 548 milioni di dollari, di cui 329 in quota Eni. Tramite contratti di buyback (il governo affida un giacimento a un’impresa straniera e la compensa con una parte del greggio), l’Eni controlla anche i giacimenti offshore di South Pars e Balal e lavora al potenziamento di quello di Dorood. Il gruppo è presente anche con Snamprogetti e Saipem, che si sono aggiudicate numerose commesse per conto di Nioc. Investire in Iran resta difficile: per il Fondo monetario internazionale la maggior parte dei movimenti finanziari sono soggetti a procedure autorizzative, limiti quantitativi e altri ostacoli. L’elezione nel giugno 2005 di Ahmadinejad ha ulteriormente aumentato il rischio paese. Se l’Aiea deciderà di deferire l’Iran all’Onu, il presidente potrebbe rivalersi anche sull’Italia. Visto che la Sace (la società pubblica che garantisce le linee di credito al commercio estero) è esposta in Iran per circa 5 miliardi di euro, il contraccolpo sarebbe pesantissimo anche per i conti pubblici. Nell’ultimo quadriennio, le imprese italiane si sono aggiudicate appalti nei settori siderurgico, petrolchimico, petrolifero ed energetico. L’Istituto per il Commercio Estero parla di un forte aumento delle richieste di autorizzazione agli investimenti. Nel gennaio 2005 è stato firmato un accordo con la Fiat per la produzione di autovetture nello stabilimento di Saveh, vicino alla capitale, a un ritmo che dovrebbe salire dalle iniziali 100 mila a 250 mila esemplari l’anno. Alcatel Italia ha realizzato la prima rete a banda larga del paese, che prevede l’allacciamento di 100.000 connessioni in tre anni. Significativa pure la presenza italiana nel settore energetico, con Alstom Power e Ansaldo Energia (che poco prima di Natale ha finalizzato un accordo per la fornitura delle turbine a gas per la nuova centrale di Bandar Abbas), e nel settore petrolifero (con Duferco, Edison, Nuovo Pignone e Tecnimont tra le altre). Fata, una società operativa del gruppo Finmeccanica, è presente in Iran con tre progetti relativi alla produzione di alluminio. I cantieri della Seli per la realizzazione di tunnel sotterranei per acquedotti sono presenti a Kerman e Golpayegan, e la compagnia guarda con interesse allo sviluppo urbano di Teheran. Tecnogas ha organizzato lo scorso 27 gennaio nella capitale una convention a cui hanno partecipato 1.200 tra dirigenti e quadri, segno di un interesse crescente per i suoi prodotti. L’attivismo imprenditoriale trova un riflesso nell’aumento dei collegamenti Alitalia, e anche nel fiorire delle rappresentanze di banche italiane (Banca Intesa, BNL, Mediobanca) e nell’apertura di nuove linee di credito.

Jean-Pierre Darnis delle prese di posizioni francesi sul programma nucleare iraniano

Le dichiarazioni del ministro degli Affari esteri francese, Philippe Douste-Blazy, sul nucleare di Teheran hanno suscitato l’interesse della stampa internazionale, israeliani e americani in testa, nonché reazioni infastidite da parte dell’Iran. In un’intervista televisiva, Douste-Blazy ha definito il nucleare iraniano un “programma militare clandestino”. Il ministro francese non è un diplomatico, bensì un politico vicino a Jacques Chirac, un cristianodemocratico europeista convinto. Può a volte dare l’idea di relativa impreparazione tecnica, ma questo non deve far scordare le qualità di un ministro che ha saputo costruirsi un proprio profilo navigando nei meandri della ricomposizione della destra francese. Può sfruttare una finta naturalezza per lanciare messaggi. L’esternazione di Douste-Blazy corrisponde a un avvertimento inviato agli iraniani, un segnale di forte coerenza con l’approccio della troika europea (Francia, Germania, Regno Unito), ma anche con quello americano, senza omettere la lettura favorevole da parte d’Israele. La Francia utilizza il capo della propria diplomazia per esprimere una linea filo occidentale. Alcuni analisti sembrano sorpresi di questa Francia, hanno ancora ben in mente il dissenso nei confronti dell’intervento statunitense in Iraq. Dal 2003 a oggi molte cose sono cambiate. L’opposizione alla guerra è stata percepita come necessaria, perché la Francia non ha mai creduto nel pericolo rappresentato dalle ipotetiche armi di distruzione di massa irachene. D’altro canto Parigi ha trovato un proprio limite nell’opposizione agli Stati Uniti, uno stile apprezzato dalle sinistre no global mondiali, ma che non s’addice a un gollista come Chirac, spesso critico, ma che rimane, in fondo, fedele alle alleanze costruite dopo la seconda guerra mondiale. Negli ultimi anni, Francia e Stati Uniti si sono riavvicinati, uniti da una comune politica in Libano e con una Condoleezza Rice che dirige il dipartimento di stato americano in modo più compatibile con le visioni parigine. L’attenzione nei confronti dell’Iran esprime l’intesa con i partner europei, Germania e Regno Unito in testa. Una delle grandi lezioni del conflitto iracheno è stata l’assenza dell’Europa dovuta alle sue divisioni. Oggi, la leadership di Angela Merkel si fa sentire in Germania e in Europa. La Francia sta entrando nella campagna elettorale per le presidenziali del 2007 e si sta concentrando sulle poste in gioco interne. Non è il momento per Chirac di lanciarsi in avventure e indebolire ulteriormente un’Europa che un referendum francese mal gestito ha già parecchio affossato. Il rapporto con la Germania è ritenuto essenziale e Parigi segue Berlino. Il governo francese pratica oggi un’ortodossia europea in politica estera. Le dichiarazioni di Douste-Blazy vanno anche considerate nel contesto della visita del premier Dominique de Villepin in Russia. Villepin insiste sulla problematica del nucleare iraniano, ma apre anche all’azione di mediazione di Putin nei confronti di Hamas. Certo, si tratta di un’apertura un po’ sotto voce, anche perché la Francia non può non condividere la posizione europea in merito, non avendo margini d’autonomia. Il fatto che nello stesso momento si riaffermi a Parigi un messaggio di fermezza verso l’Iran è un chiaro indicatore dei ridotti spazi nei quali si muove la diplomazia francese: un incoraggiamento discreto all’operato di Putin per cercare di fare evolvere Hamas, e, contemporaneamente, un discorso fermo rispetto all’Iraq che dimostri a Stati Uniti e Israele che non c’è alcun equivoco sulla scelta del campo francese. La Francia è quindi tornata a praticare una politica più realistica, collocandosi su un asse Berlino-Washington. Anche se la questione iraniana è molto sensibile, la compattezza del campo occidentale al quale va associata anche la Russia costituisce già un inizio di risposta convincente, un messaggio univoco nei confronti dell’Iran. All’interno di questo quadro unitario la Francia è in grado di massimizzare la propria azione internazionale, anche per la capacità di rompere gli schemi precostituiti.

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