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Il Foglio Rassegna Stampa
16.02.2006 Perché la politica estera italiana non è completamente decisa dal ministro degli Esteri
diplomatici vecchia scuola e "scuole di pensiero" spingono la Farnesina a mantenere buoni rapporti con il negazionismo al potere a Teheran

Testata: Il Foglio
Data: 16 febbraio 2006
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «L'odio di Ahmadinejad non scompone il grigio torpore della Farnesina»

Dalla prima pagina del FOGLIO di giovedì 16 febbraio 2006:

Roma. Nel mezzo della crisi, la Farnesina finge di dormire, in attesa di un governo più sensibile all’esigenza di mantenere lo status quo mediorientale. Il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, promette di allargare la rivoluzione islamista a tutto il mondo, riapre il programma nucleare e nega l’Olocausto e il diritto all’esistenza di Israele. La Farnesina organizza eventi per favorire il dialogo e un suo ex illustre inquilino, Franco Frattini, dice da Strasburgo che Teheran farebbe bene ad accettare la proposta russa, così “il deferimento all’Onu non sarà più necessario”. I funzionari italiani, a Roma e nelle rispettive sedi diplomatiche, sono riluttanti, non s’arrischiano a prendere iniziative, anche se il ministro degli Esteri, Gianfranco Fini, ribadisce la “linea della fermezza”. Sono tutti timorosi che torni a riecheggiare quella minaccia di Ahmadinejad, giunta dopo la manifestazione romana all’ambasciata iraniana in difesa di Israele: ci saranno ritorsioni economiche.
Ci sono di mezzo troppe ragioni, e troppo vantaggiose per farlo. Per primi vengono i rapporti commerciali tra Italia e Iran, molto buoni. Il nostro paese è il primo partner europeo, con un interscambio di oltre 4.000 milioni di euro nel 2004, e ha accordi corposi in campo petrolifero sin dai tempi dell’Eni di Mattei. E’ un settore che la Farnesina conosce e si preoccupa di proteggere istintivamente. Il suo direttore generale per il Mediterraneo e il medio oriente, Riccardo Sessa, è stato anche ambasciatore a Teheran per ben tre anni. Capita anche qualche eccesso di zelo. Quando a novembre i giudici di Roma congelarono i conti dell’ambasciata iraniana alla Bnl, il vicecapo del cerimoniale diplomatico della Farnesina, Umberto Colesanti, fece pressioni perché ritornassero sui propri passi. Il denaro avrebbe risarcito i familiari di tre vittime di atti terroristici finanziati da Teheran. La lettera di Colesanti, in cui invitava il tribunale a pensare alle ripercussioni, fece andare su tutte le furie Fini, che sconfessò subito l’iniziativa.
Alla Farnesina piace ragionare per categorie più generali che non quelle di ministri degli Esteri transeunti, e osservare l’andamento di traiettorie più ampie, in cui la salita al potere del negazionista Ahmadinejad è uno sgraziato accidente. La Casa, come la chiamano i diplomatici, intrattiene rapporti privilegiati fin dai tempi dello shah, e conserva senza dare nell’occhio un portamento filoiraniano, a dispetto di guerre e rivoluzioni. Neppure la fedeltà atlantica ha scosso il comandamento di fondo. Andare d’accordo, a braccetto, senza insistere troppo. Così, quando è arrivata la nota di protesta dal governo di Teheran per la manifestazione organizzata dal Foglio, l’ambasciatore in Iran, Roberto Toscano, è andato sì a esprimere il suo sdegno, ma ricordando che “le buone relazioni” non dovevano essere intaccate. Intanto la tv iraniana prendeva in giro minacciosa il nostro ministro degli Esteri.

Ci sono anche difficoltà strutturali
Sul fronte mediorientale su questa linea vanno d’accordo le due vecchie e ancora influenti correnti diplomatiche, quella delle feluche di ispirazione andreottiana e quelle invece cresciute nell’alveo socialista. Gianni de Michelis, già ministro degli Esteri, è contrario al fronte dell’opposizione internazionale all’Iran. “E’ un paese cruciale – dice al Foglio – la soluzione non sta nell’isolarlo, ci vuole anzi un maggior coinvolgimento politico dell’Iran. E gli americani stanno sbagliando, parlano di opzione militare, ma questa non è praticabile, non esiste nemmeno. Se provassero, con quello spirito nazionalista proprio degli iraniani, per il Pentagono sarebbe molto peggio che in Iraq”. Mentre il senatore Giulio Andreotti perfino su Hamas ama ripetere la sua lezione: nella regione serve equivicinanza tra le parti. Equivicini sì, ma poi voci di corridoio raccontano che un importante ambasciatore italiano nel vicino oriente ha guardato con attenta soddisfazione l’intervento degli americani in Iraq trasformarsi da avanzata senza ostacoli a cruenta routine antiguerriglia.
Ci sono anche difficoltà strutturali. La Farnesina non è in grado di perseguire obiettivi o di descrivere strategie. La Casa – come dicono nei saloni di marmo del ministero – è senza cervello. C’è solo una piccola Unità di analisi e programmazione, sottofinanziata. E’ un gioco in cui vince l’uomo in grigio, non quello che osa. Sarà per questo che il ministero, ridono i maligni, non spedisce nemmeno una newsletter ai giornalisti – in modo da ridurre a zero la possibilità di errori – ma preferisce un amichevole briefing settimanale. Non si prende una posizione netta, perché non si può, dicono. Non è un caso che il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, abbia optato per la sua personalissima politica estera “delle pacche sulle spalle” tra leader.

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