Il CORRIEREdella SERA di mercoledì 15 febbraio 2006 pubblica in prima pagina un editoriale di Piero Ostellino che riportiamo:
Francesco Rutelli ha detto che «una delle poche cose positive fatte dal governo Berlusconi è stato migliorare i rapporti con Israele». E ha rassicurato i suoi interlocutori israeliani che il centrosinistra, se vincerà le elezioni, «continuerà sulla linea di tale rapporto positivo». Jacopo Venier (responsabile esteri del Pdci) ha replicato: «Al contrario di Rutelli, i Comunisti italiani ritengono che il governo dell'Unione dovrà cambiare nel profondo la politica estera italiana verso Israele, riprendendo l'antica e saggia politica di equivicinanza con entrambi i partner essenziali per la Pace».
Che Rutelli fosse più vicino a Israele e i Comunisti italiani ai palestinesi, lo si sapeva. E, allora, dove sta lo scandalo? Lo scandalo non c'è. Chiedersi, infatti, perché stiano insieme nell'Unione non ha molto senso, in quanto stanno insieme soprattutto per vincere le elezioni. Neppure chiedersi che cosa farà l'Unione una volta al governo sembra, peraltro, avere senso. Se a prevalere sarà la scelta di Rutelli, a vedersela con i propri elettori saranno i Comunisti italiani. Se invece a prevalere sarà la scelta del Pdci, a deludere non solo i propri elettori, ma anche gli israeliani sarà Rutelli. Fatti suoi, ma anche dell'Italia. C'è una terza ipotesi. Quella che Venier ha definito «l'antica e saggia politica di equivicinanza». Nella sua ambiguità, il concetto di «equivicinanza» assomiglia alla formula adottata nel programma dell'Unione sul ritiro dall'Iraq. Che sarà «immediato» — per accontentare Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani — ma anche nel rispetto dei «tempi tecnici», per accontentare gli altri. Qui, a rischiare di non capire sono tutti: gli elettori del Pdci, di Rifondazione e dei Verdi, nonché quelli della Margherita e degli altri partiti dell'Unione e i nostri partner internazionali.
Che la politica di un governo di sinistra differisca, anche profondamente, da quella di un governo di destra — ferma restando la condivisione di alcuni valori universali — è nell'ordine delle cose in tutto il mondo. Ma le dichiarazioni di Rutelli stabiliscono finalmente il principio (ancora sconosciuto nel nostro sistema maggioritario, a sinistra come a destra) secondo il quale il compito di un nuovo governo e di una nuova maggioranza non si riduca alla cieca demolizione di tutto ciò che è stato fatto in precedenza, ma di scegliere cosa va conservato e cosa cambiato, anche radicalmente. Sotto questo profilo, i programmi dei due poli e le contraddittorie dichiarazioni degli esponenti dei partiti che ne fanno parte non sono tanto passibili di giudizio politico quanto comprensibili e valutabili solo in termini storici (e di etica pubblica). C'è una metafora della democrazia che può essere felicemente applicata anche alla politica di casa nostra. A chi chiede loro come facciano ad avere prati più verdi che in ogni altro Paese gli inglesi rispondono: «Prendiamo un terreno, lo spianiamo, lo ariamo, lo seminiamo e poi lo innaffiamo per qualche secolo». Passerà ancora tanta acqua sotto i ponti della politica prima che la nostra sinistra abbia i colori di quelle riformiste e liberali del resto del mondo.
A pagina 5 troviamo un articolo sulla sospensione della candidatura di Marco Ferrando da parte del PRC:
ROMA — La decisione era nell'aria, anticipata da quella parola, «incompatibilità», ripetuta più volte da Fausto Bertinotti. Ieri la comunicazione ufficiale: la segreteria di Rifondazione comunista ha chiesto la revoca della candidatura di Marco Ferrando, uno dei leader della minoranza interna, finito nella bufera dopo le dichiarazioni su Israele e l'attentato di Nassiriya.
IL CASO — Adecidere se cancellare o meno Ferrando dalle liste sarà il Comitato politico del partito. Composto da oltre 200 membri, non sarà convocato «per mancanza di tempo», visto che venerdì la segreteria intende chiudere il caso, ma si procederà ad una «consultazione telefonica». Un metodo che scatena le proteste delle minoranze del partito, che chiedono la riunione dell'organismo politico e comunque annunciano la loro contrarietà alla revoca della candidatura di Ferrando: «Non firmeremo la proposta, è una scelta sbagliata. Al di là delle cose che ha detto, è giusto che un esponente della minoranza abbia una rappresentanza in Parlamento», sottolinea Claudio Grassi, leader dell'area dell'Ernesto. «Non condividiamo le sue posizioni, che però non riteniamo lesive per Rifondazione. Bisogna salvaguardare la vita interna al partito, non si può risolvere la faccenda con qualche telefonata», concordano Gigi Malabarba e Salvatore Cannavò della Sinistra critica. Aderirà invece alla proposta di revoca proprio la componente di Ferrando, Progetto comunista. Pienamente d'accordo con le sue dichiarazioni su Israele e Iraq, ne ha però sempre criticato la candidatura visto che, una volta eletto, dovrà votare la fiducia al governo Prodi, spiega il portavoce Francesco Ricci: «Ferrando sostiene di avere il sostegno del 41% del partito e cioè di tutte e tre le minoranze, ma questa è un'affermazione grottesca».
Stando così i numeri, l'iniziativa di Bertinotti sembra destinata ad avere buon esito e venerdì la segreteria dovrebbe ricevere dal Comitato la delega a sostituire il nome di Ferrando, capolista al Senato in Abruzzo. Raccontano che lui stesso abbia cercato di far cadere la scelta sul suo braccio destro, Franco Grisolia, ma la richiesta sarebbe stata fermamente respinta. La candidatura dovrebbe invece passare ad un esponente della maggioranza, magari già in lista ma in posizione svantaggiata (circolano i nomi di Livia Menapace e Emilio Molinari).
PRODI — Nel frattempo il centrosinistra, che aveva sollecitato Bertinotti ad espellere il leader trotzkista dalle liste per le Politiche, tira un sospiro di sollievo. «Le dichiarazioni di Ferrando sono folli, sbagliate e incoscienti», aveva detto ieri mattina Romano Prodi, prima che Rifondazione annunciasse la richiesta di revoca della candidatura. Una decisione «che può essere utile», commenta poi il leader dell'Unione, pur sottolineando «che i partiti scelgono autonomamente e Fausto farà le sue valutazioni». «Mi pare assolutamente necessario rispondere con un gesto serio — osserva Sandro Curzi —. Ha ragione Bertinotti e tutti coloro che sollecitavano grande coerenza: la posizione di Ferrando non è assolutamente condivisibile e il danno provocato dalle sue dichiarazioni è notevole. Mi dispiace per lui, perché è una persona di solito molto attenta». Toni assai diversi usa il Pdci: «Bertinotti ha subito il diktat di Fini», accusa Marco Rizzo, mentre Pino Sgobio parla di «chiasso sproporzionato e tardivo. Ferrando ha sempre detto quelle cose, dovevano pensarci prima».
A pagina 6 uno di Alessandra Arachi sulla richiesta di Udc e An di escludere Adriano Tilgher dall'alleanza con la Casa delle Libertà:
ROMA — Chissà se Alternativa sociale entrerà dentro la Casa delle libertà, alla fine. Alessandra Mussolini, leader del cartello, la sua l'ha già mandata a dire chiara chiara: «O si prendono tutto il pacchetto di Alternativa sociale o non se ne fa niente». Tutto il pacchetto, ovvero: anche Adriano Tilgher, un nome che ha gettato il panico ieri tra gli alleati del centrodestra e mandato su tutte le furie il vicepremier Gianfranco Fini, insieme con Lorenzo Cesa, segretario dell'Udc.
FLASH — Si dice che il flash di agenzia abbia fulminato Fini a metà pomeriggio, proprio alla fine di una mega riunione di coalizione: «Cdl: Tilgher, c'è intesa, venerdì annuncio Berlusconi...». Intesa? Con Tilgher? Al vicepremier Fini il nome di Tilgher, un passato quantomeno burrascoso nelle file di Avanguardia nazionale, proprio non è andato giù. Ma come? Si è chiesto Fini, proprio all'indomani delle bacchettate a D'Alema per i nomi scomodi tra i candidati dell'Unione, dal cilindro della Cdl deve venire fuori un nome tanto estremo?
Passano poche ore, prima ci pensa Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, a cercare di gettare acqua sul fuoco. Un altro flash di agenzia: «Cdl: nessuna intesa con Tilgher». A questo punto, però, prima ancora di Alessandra Mussolini ci pensa lo stesso Adriano Tilgher ad esternare tutto il suo stupore. Dice, infatti: «Mi sembra ovvio che io non ho fatto nessuna intesa con Berlusconi: il leader del mio partito è la Mussolini e le intese le fanno i leader mica i singoli membri del partito. Aspetto che questa frase me la spieghino».
L'INTESA — Subito dopo è la stessa Mussolini a scendere in campo, apertamente: «È da una settimana che è stato fatto l'accordo tra Alternativa sociale e la Casa delle libertà, ma i contatti con Berlusconi vanno avanti dall'estate scorsa. Berlusconi mi aveva dato la garanzia che nessuno si sarebbe messo di traverso a questo accordo perché lui quando parla lo fa a nome di tutti. Adesso è lui che deve decidere cosa fare: un accordo soltanto con me non ha senso. O con tutto il cartello o niente».
A pagina 8 una cronaca della polemica del ministro della Difesa Martino contro Massimo D'Alema, che ha equiparato i soldati americani in Iraq ai terroristi:
ROMA — «Sgangherata accozzaglia di mascalzoni». Non ci va leggero il ministro della Difesa Antonio Martino. Stufo di sentir definire la missione italiana in Iraq «un'occupazione», sdegnato per le offese ai carabinieri morti a Nassiriya, Martino ha reagito con parole roventi. Se la prende con la sinistra in generale. Ma punta il dito in particolare contro Massimo D'Alema, presidente dei Ds, l'ultimo che lo ha innervosito.
ASSASSINI — D'Alema lunedì sera in tv, durante un confronto a Matrix con Gianfranco Fini, ha stabilito un parallelo fra i kamikaze e i soldati americani: i kamikaze sono «assassini», ma lo sono anche gli americani «che a Falluja hanno usato il fosforo bianco contro i civili». Bel paragone, ironizza il ministro. E martella: «Questa sarebbe la nostra politica estera se vincessero le elezioni personaggi di tale fatta, tipi come D'Alema che definisce assassini gli americani».
Proprio lui, incalza anche il ministro per le Riforme, il leghista Roberto Calderoli. Proprio D'Alema viene a parlare di assassini, «lui che ha inviato i nostri cacciabombardieri non in missione di pace ma a bombardare la Serbia e di conseguenza anche la popolazione civile». La questione Iraq sembra destinata a infiammare sempre più la campagna elettorale.
ESTERNAZIONI — Ora Martino mette insieme tutte le affermazioni di questi giorni, la sortita di D'Alema, «le esternazioni di Ferrando che esalta l'azione dei terroristi artefici della strage degli italiani», e ne ricava una conclusione «molto preoccupante». E cioè che a sinistra hanno una visione dell'Iraq molto simile a quella espressa in certi slogan dell'ultrasinistra, tipo «Dieci, cento, mille Nassiriya».
Nella sua ruvida condanna, il titolare della Difesa accomuna l'intera sinistra, «non è folle e incivile solo la posizione del signor Ferrando». Stanno un po' tutti esprimendosi in modo sconveniente. E lo fanno per sentirsi uniti, per compiacere «i vari Bertinotti e l'estrema sinistra». Appunto, «un'accozzaglia di mascalzoni». Dei «mentitori» perché sostengono che «le nostre sono truppe di occupazione». Visto poi che la sinistra ha scelto «la strategia della viltà, della fuga, del ritiro», l'Italia rischia di essere coperta dal disonore perché «non mantiene le promesse e non porta a termine gli impegni».
RISPETTO — Ma la questione Iraq non provoca dispiaceri solo a Martino. Sta anche avvelenando i rapporti all'interno della stessa sinistra. Bertinotti ha sconfessato Ferrando, a causa di quelle che Elettra Deiana, di Rifondazione comunista, chiama «dichiarazioni irresponsabili». E secondo Mussi, «sull'Iraq la responsabilità è del governo e non dei soldati che stanno lì e meritano rispetto».
A sinistra un'altra polemica riguarda Israele. A Rutelli, che aveva detto che il governo dell'Unione si muoverà nel solco della politica tracciata da Berlusconi, risponde il responsabile esteri del Pdci, Jacopo Venier: «Dovrà cambiare nel profondo l'atteggiamento nei confronti di Israele, riprendendo l'antica e saggia politica di equivicinanza con entrambi i partner essenziali per la pace».
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