Tariq Ramadan, il noto intellettuale islamista compilatore di liste di proscrizione di intellettuali ebrei e maestro della taqiya (dissimulazione), lo scrive chiaro e tondo sul MANIFESTO di mercoledì 15 febbraio 2006: invocare la libertà di espressione è una forma di "estremismo" paragonabile a quella di chi brucia consolati e pronuncia fatwa di morte. La libertà di espressione deve essere responsabilmente limitata, anche in virtù di "regole specifiche che derivano da cultura, tradizioni e psicologie collettive nelle rispettive società che regolano le relazioni tra individui e al diversità di cultura e religioni". Ovvero anche in nome delle regole religiose prescritte dalla sua interpretazione fondamentalista dell'islam. Ecco il testo:
Nell'ottobre scorso a Copenhagen, mentre stavano cominciando le manifestazioni provocate dalle vignette satiriche sull'islam, un giornalista del quotidiano che le aveva pubblicate mi ha raccontato le intense discussioni in redazione sull'opportunità o meno di pubblicare tali vignette, il disagio di alcuni di loro sulla vicenda e, allo stesso tempo, la sorpresa che avevano provato nel vedere la reazione da parte delle ambasciate dei paesi arabi e musulmani. All'epoca, tuttavia, sembrava che la tensione fosse destinata a rimanere all'interno dei confini danesi. Ai musulmani danesi che denunciavano la pubblicazione come una prova di razzismo, il mio consiglio è stato di evitare ogni reazione emotiva e cercare di spiegare tranquillamente perché quelle vignette erano offensive, senza manifestare né arrischiarsi nell'attivare movimenti di massa che avrebbe potuto finire fuori controllo. All'epoca, una soluzione sembrava a protata di mano. Ci si può quindi chiedere perché, tre mesi dopo, si è voluto rialimentare la polemica, con conseguenze tragiche e potenzialmente incontrollabili. Alcuni musulmani danesi sono andati in paesi mediorientali e hanno aizzato il risentimento: i governi della regione, felici di dimostrare il loro attaccamento all'islam - e rafforzare la loro legittimità islamica agli occhi del pubblico - hanno tratto vantaggio da questo colpo di fortuna per presentarsi come i campioni di una grande causa. Dall'altra parte, la controversia era proprio ciò di cui alcuni politici, intellettuali e giornalisti avevano bisogno per dipingersi come campioni della grande battaglia per la libertà d'espressione e come combattenti contro l'oscurantismo religioso in nome dei valori occidentali. Siamo di fronte a un'incredibile semplificazione, a una grossolana polarizzazione: apparentemente si tratta uno scontro di civiltà con, da una parte, i difensori dell'inalienabile libertà d'opinione; dall'altra i custodi dell'inviolabile sfera sacra. Presentato in questi termini, il dibattito è purtroppo diventato una guerra di volontà. Nel chiedere scuse formali, i musulmani minacciano di attaccare interessi europei, se non persone; i governi, i giornalisti e gli intellettuali occidentali si rifiutano di piegarsi alle minacce, e alcuni organi di stampa hanno rinfocolato la polemica ripubblicando le vignette. Molti in giro per il mondo, osservando questi eccessi, sono perplessi. Si chiedono: che follia è mai questa? È cruciale porre fine a questo circolo infernale, creando uno spazio per un dialogo serio, aperto, approfondito e pacifico. Questo non è il tanto predetto scontro di civiltà. Questa vicenda non simboleggia il confronto tra i principi dei Lumi e quelli della religione. Quello che è in ballo in questa triste storia è se i contendenti hanno la capacità di essere liberi, razionali (sia da credenti che da atei) e, allo stesso tempo, ragionevoli. Il divario non è fra Occidente e islam, ma tra coloro che in entrambi i mondi sono capaci di esprimere le loro idee con calma - nel nome della fede o della ragione, o di entrambe - e coloro che si reputano guidati da certezze esclusive, cieche passioni, da una percezione ridotta dell'Altro e da una predisposizione per conclusioni frettolose. L'ultimo elemento è comune a intellettuali, religiosi, giornalisti e semplici cittadini da entrambe le parti. Di fronte alle pericolose conseguenze di un simile atteggiamento, è urgente lanciare un appello generale alla saggezza.
Nell'islam, le rappresentazioni di tutti i profeti sono vietate. Si tratta sia di una questione di rispetto nei loro confronti sia di un principio di fede secondo cui, per evitare tentazioni idolatriche, dio e i profeti non devono essere rappresentati. Se si aggiungono le maldestre confusioni, gli insulti e la denigrazione che i musulmani hanno riscontrato nelle vignette danesi, si capisce la natura dello shock espresso da larghe fette delle comunità islamiche del mondo (e non solo da musulmani praticanti o da radicali). Per queste persone, le vignette erano troppo: era importante per loro esprimere indignazione. Allo stesso tempo, i musulmani dovevano ricordare che negli ultimi tre secoli le società occidentali - a differenza dei paesi a maggioranza musulmana - si sono abituati a un trattamento critico, ironico, a volte derisorio, dei simboli religiosi, fra cui il papa, Gesù Cristo e persino dio. Anche se i musulmani non condividono questo atteggiamento, devono necessariamente mantenere una distanza intellettuale di fronte a queste provocazioni e non lasciarsi trascinare dal fervore.
Nel caso di queste vignette - tanto maldestre, quanto idiote e malevoli - sarebbe stato preferibile che i musulmani esprimessero le loro rimostranze senza clamore. Invece, quello che sta emergendo oggi all'interno di alcune comunità musulmane è tanto improduttivo quanto insano: l'ossessiva richiesta di scuse, il boicottaggio dei prodotti europei e la minaccia di rappresaglie violente sono eccessi che vanno respinti e condannati. Tuttavia, è altrettanto irresponsabile invocare il «diritto alla libertà d'espressione» - il diritto di dire qualsiasi cosa, in qualsiasi modo, contro chiunque. La libertà d'espressione non è assoluta. Ogni paese ha leggi che definiscono i limiti in cui si definisce questo diritto e che, per esempio, condannano il linguaggio razzista. Ci sono anche regole specifiche che derivano da culture, tradizioni e psicologie collettive nelle rispettive società che regolano le relazioni tra individui e la diversità di culture e religioni.
Gli insulti razziali o religiosi non sono rivolti nello stesso modo nelle varie società occidentali: all'interno di un quadro giuridico simile, ogni nazione ha la propria storia e la propria sensibilità. Senza contare che la presenza di musulmani nelle società occidentali ha cambiato la loro sensibilità collettiva. Invece di farsi ossessionare da leggi e norme, non sarebbe più prudente appellarsi ai cittadini affinché utilizzino il loro diritto alla libertà d'espressione in modo responsabile, tenendo conto delle diverse sensibilità che compongono le nostre società contemporanee pluralistiche?
Non si tratta di produrre nuove leggi che restringano la libertà d'opinione; bisogna invece appellarsi alla coscienza di tutti perché questo diritto venga esercitato tenendo presenti le sensibilità altrui. I cittadini musulmani non chiedono maggiore censura, ma maggiore rispetto. Il rispetto reciproco non può essere imposto con leggi, ma deve essere insegnato in nome di una cittadinanza comune, libera e responsabile:
Siamo di fronte a un bivio. Le donne e gli uomini che respingono questa pericolosa divisione in due mondi devono ora cominciare a costruire ponti basati su valori comuni. Devono ribadire l'inalienabile diritto d'espressione e, allo stesso tempo, chiedere un uso misurato di tale diritto. Dobbiamo promuovere un approccio aperto e autocritico per ripudiare le verità esclusive e le visioni binarie del mondo. Abbiamo un bisogno urgente di fiducia reciproca. Se le persone che prediligono la libertà, che conoscono l'importanza del rispetto reciproco e sono consapevoli della necessità di stabilire un dibattito costruttivo e critico; se queste persone non sono pronte a far sentire la propria voce, allora possiamo attenderci solo tristi e dolorosi giorni. La scelta dipende da noi.
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