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La Stampa Rassegna Stampa
14.02.2006 Libano:fermata la transizione verso la democrazia
dopo l'omicidio Hariri

Testata: La Stampa
Data: 14 febbraio 2006
Pagina: 11
Autore: Lorenzo Trombetta
Titolo: «Hariri moriva un anno fa Il vento del cambiamento non soffia più in Libano»

Un articolo su La STAMPA   di martedì 14 febbraio 2006 spiega come dopo l'omicidio di Rafik Hariri si sia arrestata la treansizione del Libano verso la democrazia e l'indipendenza. Un successo della strategia terroristica promossa, secondo la commissione d'inchiesta dell'Onu, all'interno del regime di Damasco. Ecco il testo:

«Lebanon: Lost in Transition», perduto nella transizione. È questo forse lo slogan più efficace, usato da qualche sconosciuto cittadino di Beirut riprendendo il titolo di un recente film, per descrivere il proprio Paese a un anno dalla morte dell'ex premier Rafiq Hariri. Niente a che vedere con i manifesti celebrativi appesi in ogni angolo della capitale per ricordare l'uomo politico ucciso il 14 febbraio 2005 nel più sanguinoso attentato avvenuto dalla fine della guerra civile (1975-91). Poster firmati dai vari gruppi politici, anche da coloro che fino all'ultimo giorno di vita di Hariri gli giuravano opposizione. Perché il simbolo Hariri è ormai un'icona nazionale, il suo «martirio» è per tutto il Libano, la sua opera di «ricostruzione» ha riguardato l'intero Paese.
Le bandiere bianco-rosse col cedro verde al centro erano già in vendita dall’altra sera nella centrale piazza dei Martiri: qui un tempo arrivava la Linea verde della guerra, qui oggi tornerà forse, come nella scorsa primavera, più di un milione di persone. S'inizierà alle dieci per culminare all'una nel minuto di silenzio in memoria di Hariri e delle 21 persone morte con lui sul lungomare del centro di Beirut 365 giorni fa.
È stato un anno di svolta per il Paese, su questo nessuno ha dubbi. Svolta perché dopo anni di tutela siriana, a fine aprile gli ultimi militari di Damasco hanno varcato le montagne dell'Antilibano. Anche gran parte dell'apparato d'intelligence siriano in Libano è stato smantellato, dando l'impressione ai 4 milioni di libanesi di poter davvero tornare alla libertà. È stato anche l'anno di nuovi equilibri politici interni, sempre riflesso di movimenti regionali di maggiore portata. Prima la spaccatura in due fronti: da una parte quello antisiriano consacratosi nel milione di persone accalcate nell'immensa piazza dei Martiri il 14 marzo 2005; dall'altra quello prosiriano, con il duetto sciita in testa Hezbollah-Amal, riunitosi nel centro di Beirut solo qualche giorno prima, l'8 marzo. La brezza di questa primavera libanese si è però smorzata presto, l'apertura delle urne tra la fine di maggio e la metà di giugno ha ricomposto il fronte interno su basi di più realisti calcoli elettorali: per esser sicuri di spartirsi il Libano da vincitori, gli Hariri del movimento «Il Futuro» e i socialisti del druso Jumblat (antisiriani) si sono alleati con l'accoppiata sciita Hezbollah-Amal, prossima alla Siria e all'Iran. L'alleanza quadripartita è riuscita, non senza difficoltà, a tener fuori dal governo il generale maronita Michel Aoun, uomo «senza macchia», appena rientrato dopo quindici anni di esilio parigino e antisiriano sin da quando il «martire» Hariri «ricostruiva» il Paese con la benedizione politica di Damasco, Washington e Parigi e con il denaro di Riad.
Il nuovo esecutivo di Fu'ad Siniora (fedelissimo di Hariri padre) non poteva che essere lo specchio del vero Libano: un terzo dei ministeri agli antisiriani, un altro agli sciiti di Hezbollah-Amal, e l'ultimo a uno dei padroni incontrastati del Paese, il presidente della Repubblica Emile Lahoud. È lui, in carica formalmente fino al 2007, a essere indicato come la chiave di volta dell'intero sistema libano-siriano. È stato anche l'anno del giudice tedesco Detlev Mehlis, capo dell'inchiesta Onu sull'omicidio Hariri, salito agli onori della cronaca il 30 agosto quando ordinò l'arresto dei quattro più alti responsabili della sicurezza del Paese, tutti legati a Lahoud e accusati di aver pianificato l'attentato. Da allora la febbre per conoscere la «Verità» sul crimine è salita in tutto il Libano fino a placarsi solo dopo il primo rapporto Mehlis di fine ottobre: la Siria è coinvolta nella vicenda con i suoi servizi segreti operanti nel paese dei Cedri, scriveva il giudice tedesco che però, ufficialmente, non lasciava trapelare nessun nome eccellente della corte di Damasco. È stato anche l'anno degli attentati a cadenza quasi regolare: 14 in 15 mesi, con un undici vittime alcune delle quali eccellenti (due firme coraggiose del giornalismo, Samir Qasir e Gibran Tueni, oltre a George Hawi, ex segretario del partito comunista locale).
Tutto questo e altro ancora nei passati 365 giorni. Eppure i contatori della città continuano a segnare il tempo che sta passando da quel punto di non ritorno del 14 febbraio. La «Verità» giudiziaria è ancora lontana e il successore di Mehlis, il belga Serge Brammertz, sa che lo attende un compito forse ancor più difficile del suo predecessore. Dopo aver passato il primo mese chiuso a studiare le carte, il procuratore del tribunale dell'Aja dovrà passare all'attacco, probabilmente chiedendo una nuova risoluzione Onu per forzare l'assedio alla roccaforte siriana. Da Damasco continuano a dirsi innocenti e pronti a collaborare, ma dal ritiro dei suoi militari, nessun altro vero colpo mortale è stato inflitto al regime di Bashar al-Asad. I suoi alleati (Hezbollah, Lahoud) non sembrano poi così alle strette, capaci ancora di attivare i loro network di sostegno e d'intelligence per ostacolare gli antisiriani, chi lavora per far passare il Libano nelle mani di Washington e Parigi. Sul piano interno la situazione economica viene descritta dagli analisti come «sempre più grave» mentre da mesi si attende il miraggio di una conferenza dei donatori (occidentali) condizionata però alla realizzazione di riforme interne. «Come possiamo - dice a La Stampa il nuovo ministro dell’ Interno, Ahmad Fatfat - arrivare alla stabilità se nessuno, tra chi si dice nostro amico, ci dà una mano in modo concreto: senza denaro e sostegno politico è difficile rimuovere i simboli della tutela siriana. Il Libano rischia di essere ancora una volta la valvola di sfogo delle tensioni di tutta la regione». Fatfat lancia allora l'allarme al-Qaeda in Libano sperando che forse qualcuno corra a soccorrere il paese dei Cedri. Per ora, si riparte da Beirut, oggi, con moltissimi libanesi nuovamente in piazza a credere nella loro ritrovata parziale libertà.

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