La casa delle grandi donne – Meir Shalev Casa editrice Frassinelli
Sono cresciuto orfano di padre, di zii e di nonno, in casa con cinque donne – mia madre, mia nonna, le mie due zie e tu, mia pestifera sorella – che mi hanno allevato, accarezzato, nutrito, raccontato ricordi e posto davanti al muro del corridoio”. Così Rafael, unico uomo sopravvissuto fuggito da Gerusalemme per condurre una vita solitaria nel deserto del Negev come impiegato della Compagnia delle acque, ricorda la tirannia della “grande madre”, un insieme di “10 occhi, 10 seni e 10 braccia” che lo hanno allevato e protetto, tra storie spassose, proverbi e lacrime. La casa delle grandi donne (Frassinelli), il nuovo romanzo dello scrittore israeliano Meir Shalev, è costruito sulle storie esilaranti di quattro generazioni di donne straordinarie sullo sfondo di un accecante deserto. Panizza: Una famiglia verosimile oppure l’espressione di un Israele scomparso? Shalev: Una storia reale, direi. Appena uscito il libro, ho ricevuto lettere di uomini cresciuti nello stesso modo, convinti che quella fosse anche la mia storia, e proponendomi di formare un’associazione di figli delle “grandi donne”. Panizza: Come se Israele avesse perso intere generazioni di uomini. Shalev: La fragilità della condizione maschile in questo Paese è un tema che mi è caro, perché accanto a strascichi macisti vive la continua paura dell’assassinio, del ferimento, della chiamata alle armi. Panizza: I Mayer però non muoiono in modo particolarmente eroico: niente guerra, niente attentati. E’ una scelta fatta per non inserire elementi d’interpretazione politica? Shalev: Sì.Non mi hanno mai convinto i libri a tema, e tanto meno i libri politici.Non mi piace che i miei personaggi siano simbolo e metafora di rivendicazioni o denunce. Io cerco delle storie, e questo marca la differenza tra chi ha qualcosa da dire e chi ha qualcosa da raccontare. I primi, fanno i politici. I secondi, gli scrittori. Panizza: Il libro è anche un canto dedicato alla dura bellezza del territorio israeliano. Shalev: Credo che anche per motivi di simbologia biblica il deserto rappresenti il buio della storia d’Israele, un luogo di punizione in attesa della terra promessa. E’ un rimosso sociale, nonostante rappresenti metà del nostro territorio. Una volta ho portato Amos Oz nella zona settentrionale del deserto del Negev. Era sconvolto, entusiasta: non l’aveva mai visto. Panizza: Invece è molto duro il ritratto di Gerusalemme, “città di orfani, ciechi e pazzi”. Shalev:Una città deprimente, piena di fanatismo che viene abbandonata dalle giovani generazioni laiche che non sopportano di vivere con questo peso violento della storia. Io ci sto sempre meno, guardo i templi e mi sembrano centrali nucleari, sento le radiazioni. Ho comprato una piccola casa nel deserto. Vivrò sempre più spesso laggiù.